di Federico Cella

Categoria "WWW"

Cinquant’anni fa esatti nasceva Internet. Sono passati 50 anni dal 1969, era il 29 ottobre, si dice alle 22.30, quando una delle più importanti invenzioni dell’uomo prese forma nel modo goffo in cui spesso nascono le innovazioni tecnologiche: sotto lo sguardo attento del professore dell’Università della California Leonard Kleinrock, piglio e mente vincenti che lo portano tuttora a calcare le scene internazionali, lo studente Charlie Kline – dal destino più passeggero che ne ha visto scomparire le tracce dopo aver lasciato il lavoro da Cisco – inviò il primo messaggio da un computer all’altro. “LO” racconta la vulgata. Doveva essere “LOGIN” ma la connessione cadde. E l’intera parola che gettava le basi per un nuovo tipo di società arrivò allo Stanford Research Center solo due ore dopo. Accidenti alla Rete, cade sempre sul più bello, anche 50 anni dopo.

Il gruppo della Ucla che aprì il primo dialogo tra computer. In piedi, secondo da sinistra, Leonard Kleinrock. Seduto al centro c'è invece Charlie Kline

Il gruppo della Ucla che aprì il primo dialogo tra computer. In piedi, secondo da sinistra, Leonard Kleinrock. Seduto al centro c’è invece Charlie Kline

Quella della nascita di Internet è una storia, piuttosto romanzata nella mia versione personale, che racconto sempre agli studenti. Ai “miei” della Scuola di Giornalismo Walter Tobagi, e a quelli, i tanti dei licei e istituti milanesi e non solo, che vengono al Corriere per l’alternanza scuola-lavoro. Perché la racconto? Perché non ne sanno niente. Non sanno che Internet e il Web sono due “cose” diverse, che una per dire nasce negli Stati Uniti, dove viene capita solo piuttosto tardi, e l’altro invece arriva dal cuore dell’Europa, con intenzioni “bellicose” fin da subito. Loro, gli studenti, sono immersi mani e piedi nel digitale ma non ne sanno niente. E questo non va bene. Serve parlarne, creare basi di conoscenza, fare un lavoro che a scuola – in ogni ordine di scuola – spesso non viene fatto perché manca competenza. Il digitale ha creato una frattura di conoscenze che va aggiustata. Perché saper “smanettare” non basta.

Quasi quattro anni fa una studentessa del Liceo scientifico Bottoni di Milano mi chiese perché Facebook era gratuito mentre il Corriere è a pagamento. Ho riso pensando fosse una provocazione. Era invece una reale mancanza di strumenti per capire una regola fondamentale, 50 anni dopo la nascita di Internet e 25 dopo quella del primo banner pubblicitario (era il 27 ottobre del 1994). La frase chiave sta scritta nel saggio “The Filter Bubble” del 2011: “In Rete tutto ciò che è gratuito significa che il prodotto che viene venduto sei tu”. Dati sensibili, tanti, a vagonate, porzioni larghissime di noi stessi che viaggiano in Rete, attaccate ai cookie e non solo, che costituiscono la base economica dell’enorme business del digitale. Chi vende “solo” contenuti deve lottare perché quello che la Rete ha distribuito per anni in forma gratuita assuma nuovamente il proprio valore. Internet ha cambiato il nostro modo di vivere ma non sono bastati 50 anni, e men che meno i 20 della diffusione di massa di servizi e contenuti, per dare una norma a questa rivoluzione. Motivo per cui servono generazioni preparate per aggiustare la frattura che si è creata nelle nostre vite da cittadini digitali.

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Nel 2018 Google pagherà ad Apple nove miliardi di dollari per stare sui dispositivi della Mela come motore di ricerca predefinito. Lo dice un report dell’analista Rod Hall di Goldman Sachs, di cui dà notizia Business Insider. L’accordo tra le due società è noto da anni ma non è mai stato ammesso pubblicamente. Prove concrete sono emerse, tuttavia, dai documenti della battaglia legale di Oracle nei confronti di Google, in cui fu rivelato che nel 2014 la cifra pagata da Big G a Cupertino era stata di un miliardo di euro. Poi la cifra è cresciuta: nel 2017 se ne stimavano 3 di miliardi. Mentre per il 2019 si prevede che l’accordo raggiungerà quota 12 miliardi. In pratica è la `tassa´ che Google paga a Apple per rendere il suo motore di ricerca predefinito su iOS, più precisamente sul browser Safari, sviluppato da Apple e preinstallato in ogni iPhone e iPad.

 

Si tratta di cifre importanti, ma per l’azienda di Mountain View ne vale la pena: si stima che circa il 50 per cento di tutti i suoi ricavi della pubblicità siano generati proprio su dispositivi iOS. «Crediamo che Apple sia uno dei più grandi canali di acquisizione di traffico per Google», aggiunge il rapporto. Il motore di ricerca Chrome di Google è stato lanciato proprio 10 anni fa. Inizialmente funzionava solo su pc Windows, poi è arrivato su Linux e macOS. La versione per i dispositivi mobili è stata lanciata nel 2012.

gaming-disorder

Non smette di far discutere l’inclusione ufficiale, seppur in bozza, della dipendenza da videogiochi nella nuova Classificazione Internazionale delle malattie. E sarebbe strano il contrario, dato che si parla della forma di intrattenimento più diffusa (nel mondo a spanne si censiscono 2 miliardi di gamer) e in costante crescita economica (siamo oltre i 110 miliardi di fatturato). Un’attività che come poche altre crea spesso una spaccatura generazionale, nelle famiglie ma non solo. Fatto sta che da lunedì il “Gaming disorder” è una malattia ufficiale riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che già aveva anticipato la novità nei mesi scorsi. La cosiddetta International Classification of Diseases nella sua versione 11, la prima peraltro in versione digitale in modo da poter essere consultata in ogni parte del mondo, entrerà in vigore dal prossimo maggio e segnala tra le nuove patologie la dipendenza da videogiochi nel capitolo delle malattie mentali, dove si riscontra tra chi ne è afflitto «una serie di comportamenti persistenti o ricorrenti che prendono il sopravvento sugli altri interessi della vita». Tre i criteri decisivi nella decisione, con un meccanismo descritto che richiama dipendenze simili a quelle date dalle droghe, e basate sul concetto di “ricompensa”. Sul New York Times, lo psichiatra Petro Levounis esplicita il paragone spiegando come segue pazienti “che soffrono di una dipendenza da Candy Crush Saga che sono sostanzialmente simili alle persone che arrivano con un disturbo da cocaina”.

In Italia il settore vale 1,5 miliardi di euro, il triplo del cinema, e interessa 18 milioni di italiani, due terzi dei quali tra i 25 e i 54 anni. Un tema dunque che non riguarda solo gli adolescenti, «anche se i candyCrushSagavideogame sono la loro forma di intrattenimento principe». Ne abbiamo parlato con Matteo Lancini, psicoterapeuta presidente della Fondazione Minotauro che si occupa delle tematiche del cosiddetto “ritiro sociale”. «Questa attenzione posta dall’Oms è importante perché ci porta a indagare su un fenomeno, quello dei videogiochi, talmente diffuso da non poter più essere trascurato. Ma che non deve neanche essere demonizzato”. La questione sul tavolo è la possibile confusione tra quello che è un sintomo – il ragazzo chiuso in un mondo digitale – e l’effettiva causa di questo disagio. Se dunque l’abuso da giochi elettronici è un pericolo da non sottovalutare (qui una nostra inchiesta dentro l’ambulatorio specializzato del Policlinico di Roma), soprattutto in un periodo della vita così delicato come quello dell’adolescenza, non è corretto considerare il mezzo come causa del disagio. “La riflessione deve essere ampia e senza preconcetti, perché è anche vero che spesso i giochi e la Rete, le chat, possono essere viste come una prima forma di cura“. Pratiche cioè di socializzazione digitale che significano un’apertura verso il mondo esterno invece che una chiusura verso questo.

Inevitabilmente più dura è la presa di posizione dell’industria dei videogiochi nei confronti delle scelte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. In Italia è stata l’Associazione editori e sviluppatori videogiochi italiani (Aesvi) ha rilasciare un commento: “Ci rammarichiamo di constatare che la dipendenza da videogiochi è ancora presente nell’ultima versione della classificazione ICD-11 nonostante la significativa opposizione da parte della comunità medica e scientifica”, chi parla è Thalita Malagò, direttore di Aesvi. “Ci auguriamo che l’OMS decida di riconsiderare il volume crescente di dati a sua disposizione prima della versione finale della classificazione“.

Una veloce agenzia Ansa per ricordare uno dei servizi papà del Web, Hotmail. Tutti queloli di una certa età hanno avuto un a casella Hotmail, era – per i più giovani – il Gmail degli anni Novanta.

Hotmail, una delle piattaforme pioniere dell’e-mail gratis sul web (oggi Outlook.com), compie 20 anni. Il servizio di posta elettronica, sviluppato nel ’95 da Sabeer Bhatia e Jack Smith a Mountain View, in California, viene lanciato il 4 luglio 1996 e diventa in breve tempo uno dei più gettonati in tutto il mondo. Inizialmente garantiva uno spazio gratuito di massimo 2 Megabyte: un limite che oggi verrebbe occupato da un singolo messaggio con una foto di media definizione in allegato.

Alla fine del 1997 Hotmail raggiunge già quasi 9 milioni di iscritti e Microsoft l’acquista per circa 400 milioni di dollari, rilanciandola come MSN Hotmail e in seguito come Windows Live Hotmail. Momento spartiacque per la piattaforma è il 2012: è l’anno in cui Hotmail da regina indiscussa delle webmail viene superata dall’emergente Gmail di Google ed è anche l’anno della sua trasformazione» in Outlook.com, voluta da Microsoft proprio nella corsa alla conquista di quote di mercato perse negli anni a vantaggio di Google.

Oggi da Outlook.com passa l’accesso ai sistemi della famiglia Microsoft e il servizio di posta è integrato in Windows 10 e con altri servizi di comunicazione come Skype. Conta oltre 400 milioni di utenti attivi nel mondo (secondo dati ufficiali che risalgono al 2013).

 

(Ansa)


Nel 2015 arriverà una versione di YouTube espressamente dedicata ai più piccoli, agli under 12 per essere precisi. Dopo le indiscrezioni dei mesi scorsi, è arrivata la conferma da uno dei vicepresidenti di Google, Pavni Diwanji. La società di Mountain View, proprietaria della piattaforma di streaming, punta molto sui Millennials e starebbe lavorando anche a una versione apposita di Chrome, il browser di casa. «Questa è una delle più grosse sfide a cui dovremo far fronte. Vogliamo accertarci che ogni singolo pezzo di Google sia adatto ai bambini», spiega la manager che ha due figli di 8 e 13 anni.


Diwanji, vicepresidente del settore ingegneria di Google, ha rilasciato un’intervista a Usa Today. La legge statunitense regolamenta il modo in cui prodotti e servizi su Internet devono essere forniti ai bambini attraverso il Children’s Online Privacy Protection Act. «Vogliamo dare ai genitori gli strumenti giusti per controllare l’uso che i figli fanno dei nostri prodotti. Non solo vogliamo che i bambini navighino al sicuro, ma che siano anche creatori e non sono fruitori di tecnologia».

In Internet ci sono più di un miliardo di siti web, e continuano a crescere. Nel momento in cui stiamo scrivendo, su Internet Live Stats siamo per la precisione a quota 1,061,070,373 (374, 375, 376…).  Il traguardo è stato raggiunto nella notte italiana e festeggiato con un tweet da parte di Tim Berners-Lee, il “papà” riconosciuto del World Wide Web, che mise online quello che viene definito il primo sito WWW della storia il 6 agosto 1991.

Un vero e proprio boom, conferma Live Stats, c’è stato tra il 2011 e il 2012, quando il numero di siti è passato da circa 350 milioni a quasi 700 milioni. A fine 2013 il contatore si è fermato a 673 milioni. «Per sito web intendiamo una pagina associabile ad un indirizzo Ip – spiega il contatore – e bisogna notare che il 75% di quelli censiti al momento non è attivo, ma è una pagina registrata e `parcheggiata´ o qualcosa di simile».

Sempre secondo il portale il numero di utenti attivi è molto vicino ai tre miliardi, (2,972,659,092 mentre stiamo scrivendo), mentre fino a questo momento solo oggi sono state fatte quasi due miliardi di ricerche su Google, sono stati scritti 2,093,942 post sui blog (tra cui questo), inviati 385,873,783 tweet etc. etc. Il tutto ha generato finora 1,175,249,654 Gb di traffico. Cosa vuol, dire tutto questo? Che in 23 anni il mondo è parecchio cambiato.

“Il gestore di un motore di ricerca su Internet è responsabile del trattamento effettuato dei dati personali che appaiono su pagine web pubblicate da terzi”: così si sono espressi i giudici della Corte europea in merito alla causa di un cittadino spagnolo contro Google. In sostanza, la Ue conferma il cosiddetto “diritto all’oblio” dei singoli cittadini nei confronti della ricercabilità di notizie sulla propria persona su un motore di ricerca. Nel caso in cui, a seguito di una ricerca online a partire dal nome, l’elenco di risultati mostri un link verso una pagina web che contiene informazioni sulla persona in questione, questa può rivolgersi direttamente al gestore del servizio di ricerca per la soppressione del collegamento.

Se poi chi è responsabile del servizio, in questo caso Google che gestisce ben oltre il 90% delle ricerche in Rete nel Vecchio Continente, non da seguito alla domanda, ossia non rimuove il link in questione, il soggetto può avvalersi delle autorità per ottenere la soppressione del risultato sulla sua persona non gradito. Il tutto ovviamente in base a determinate condizioni, dato che la corte stessa riconosce che, poiché la soppressione di link dall’elenco di risultati potrebbe avere ripercussioni sul legittimo interesse degli utenti di Internet, occorre ricercare un giusto equilibrio tra l’interesse generale dei navigatori e il diritto al rispetto della vita privata e il diritto alla protezione dei dati personali.

La reazione di Google non si è fatta attendere ed è stata rilasciata da un portavoce di Mountain View: “Si tratta di una decisione deludente per i motori di ricerca e per gli editori online in generale. Siamo molto sorpresi che differisca così drasticamente dall’opinione espressa dall’Advocate General della Corte di Giustizia Europea e da tutti gli avvertimenti e le conseguenze che lui aveva evidenziato. Adesso abbiamo bisogno di tempo per analizzarne le implicazioni”.

“La sentenza della Corte europea, interpellata in via pregiudiziale da un giudice spagnolo, individua due profili assai importanti: il primo direi inedito, riguarda la responsabilità diretta del gestore di un motore di ricerca per il trattamento dei dati personali, anche se si tratta di dati ripresi da siti web, che li hanno già diffusi, in ragione del ruolo che i motori di ricerca svolgono nella società moderna, il che vuol dire che il loro gestore deve trattare i dati personali, anche cancellandoli, ove richiesto, se ne sussistono i presupposti; il secondo riguarda la distinzione tra il sito web che ospita i dati e il motore di ricerca che li visualizza, mediante appositi link, il che vuol dire che i singoli siti potranno mantenere intatto il loro archivio, magari deindicizzando i dati obsoleti”. La sintesi è dell’avvocato Caterina Malavenda, esperta di diritto dell’informazione che spiega l’importanza di quanto stabilito dai giudici Ue per la privacy dei cittadini, ma anche per la tutela della memoria storica. “Il problema riguarda ora non più i singoli siti, ma i motori di ricerca, che diventano responsabili dei loro risultati, fornendo del singolo una visione complessiva e strutturata delle informazioni che riguardano il singolo individuo, semplicemente digitandone le generalità e che rispondono davanti alle autorità del Paesi Ue nei quali abbiano anche solo una filiale”.

I siti possono dunque conservare i loro contenuti, le notizie che riguardano il singolo e, come era stato già stabilito dalla Cassazione, che devono essere aggiornati a richiesta dell’interessato o “deindicizzate” (dunque resi invisibile alle ricerche online) nel caso si tratti di notizie vecchie o superate. “E’ stato però riconosciuto”, precisa l’avvocato, “che quella di Google è un’attività di trattamento dei dati a tutti gli effetti, perché il motore di ricerca da una “search” su un nome crea un profilo della persona. Dunque svolge un’attività autonoma, assai più specifica di quella del singolo sito web ”. Da qui l’obbligo alla rimozione dei link, “a meno che non ci sia un interesse generale a mantenere intatta l’informazione perché la persona in questione o la notizia sono, per una qualche ragione, di rilevanza pubblica”.

Con la sentenza di oggi la Corte Ue risponde ai giudici spagnoli, in merito alla causa intentata nel 2010 da un cittadino spagnolo, Mario Costeja Gonzalez (nella foto) contro il quotidiano La Vanguardia, oltre a Google Spain e Google Inc. Quando il nome del cittadino spagnolo veniva ricercato su Google, l’elenco dei risultati mostrava dei link verso due pagine del quotidiano che annunciavano una vendita all’asta di immobili organizzata a seguito di un pignoramento effettuato per la riscossione coattiva di crediti previdenziali nei suoi confronti. Il caso era del 1998 e dunque ampiamente superato, mentre la permanenza del risultato significava una “macchia” indelebile nel curriculum di Costeja Gonzalez. La questione non è di semplice lettura, perché rimane una certa discrezionalità nella decisione di cosa è di interesse pubblico e cosa no, e le conseguenze della sentenza anche sul lungo periodo sono tutte da verificare. Ma la cosa certa è che da oggi la “macchia” potrà, e dovrà, essere cancellata.

Il Censis la definisce “una vera e propria evoluzione della specie”. La “specie” in questione sono gli italiani nel loro rapporto con la tecnologia, la Rete e i social media. I risultati – il 63,5% della popolazione connessa, con i giovani al 90,4% – sono raccontati nell’11esimo Rapporto Censis-Ucsi sulla Comunicazione, presentato oggi a Roma. Si parla di “era biomediatica”, in cui diventano centrali “la trascrizione virtuale e la condivisione telematica delle biografie personali attraverso i social network”. Dunque “assistiamo a un ulteriore salto di qualità nel rapporto degli italiani con i media”. Ecco una sintesi dell’Ansa sull’interessante Rapporto.

I CONSUMI MEDIATICI NEL 2013 – Quasi tutti gli italiani guardano la televisione (il 97,4%), con un rafforzamento però del pubblico delle nuove televisioni: +8,7% di utenza complessiva per le tv satellitari rispetto al 2012, +3,1% la web tv, +4,3% la mobile tv. E questi dati sono ancora più elevati tra i giovani: il 49,4% degli under 30 segue la web tv e l’8,3% la mobile tv. Anche per la radio si conferma una larghissima diffusione di massa (l’utenza complessiva corrisponde all’82,9% degli italiani). L’uso dei cellulari continua ad aumentare (+4,5%), soprattutto grazie agli smartphone sempre connessi in rete (+12,2% in un solo anno), la cui utenza è ormai arrivata al 39,9% degli italiani (e la percentuale sale al 66,1% tra gli under 30). Solo il 2,7% degli italiani utilizza l’e-reader.

INTERNET – Gli utenti di internet, dopo il rapido incremento registrato negli ultimi anni, si assestano al 63,5% della popolazione (+1,4% rispetto a un anno fa). La percentuale sale nettamente nel caso dei giovani (90,4%), delle persone più istruite, diplomate o laureate (84,3%). Non si arresta l’espansione dei social network. È iscritto a Facebook il 69,8% delle persone che hanno accesso a internet (erano il 63,5% lo scorso anno). YouTube arriva al 61% di utilizzatori. E il 15,2% degli internauti usa Twitter.

LA CARTA STAMPATA – Nel 2013 i quotidiani registrano un calo di lettori del 2% (l’utenza complessiva si ferma al 43,5% degli italiani), -4,6% la free press (21,1% di lettori), -1,3% i settimanali (26,2%), stabili i mensili (19,4%). Stazionari anche i quotidiani online (+0,5%), in crescita gli altri portali web di informazione, che contano l’1,3% di lettori in più rispetto allo scorso anno, attestandosi a un’utenza complessiva del 34,3%. Buone notizie dal mondo dei libri, dopo la grave flessione dello scorso anno: +2,4% di lettori, benché gli italiani che hanno letto almeno un libro nell’ultimo anno sono solo il 52,1% del totale. Gli e-book arrivano a un’utenza del 5,2% (+2,5%).

INCOLMABILI LE DISTANZE TRA GIOVANI E ANZIANI – Tra i giovani la quota di utenti della rete arriva al 90,4%, mentre è ferma al 21,1% tra gli anziani; il 75,6% dei primi è iscritto a Facebook, contro appena il 9,2% dei secondi; il 66,1% degli under 30 usa telefoni smartphone, ma lo fa solo il 6,8% degli over 65. Caso opposto è quello dei quotidiani, per i quali l’utenza giovanile (22,9%) è ampiamente inferiore a quella degli ultrasessantacinquenni (52,3%).

LA NOSTRA DIGITAL LIFE – Il servizio di Internet maggiormente utilizzato nella vita quotidiana è la ricerca di informazioni su aziende, prodotti, servizi (lo fa il 43,2% degli italiani), oppure di strade e località (42,7%). Segue l’ascolto della musica online (34,5%). Anche l’home banking ha preso piede nel nostro Paese: lo svolgimento di operazioni bancarie tramite il web è tra le attività svolte più frequentemente (30,8%). Fare acquisti (24,4%), telefonare attraverso internet tramite Skype o altri servizi voip (20,6%), guardare un film (20,2%), cercare lavoro (15,3%, ma la percentuale si impenna al 46,4% tra i disoccupati), prenotare un viaggio (15,1%) sono altre attività diffuse tra gli utenti di Internet.

LA PERSONALIZZAZIONE DEI PALINSESTI INFORMATIVI – Per informarsi, lo strumento condiviso da quasi tutti è il telegiornale: vi ricorre l’86,4% degli italiani (che erano già l’80,9% nel 2011), mentre calano sia i periodici (settimanali e mensili scendono dal 46,5% del 2011 al 29,6% del 2013), sia i quotidiani (quelli gratuiti hanno perso 16,6 punti percentuali in due anni, quelli a pagamento l’8,5%). A crescere nettamente sono invece i motori di ricerca su internet come Google (arrivati al 46,4% di utenza per informarsi nel 2013), Facebook (37,6%), le tv all news (35,3%) e YouTube (25,9%).

La battaglia Google-antitrust Ue si avvia alle battute finali: il verdetto di Bruxelles è atteso per la primavera prossima, ha annunciato il commissario alla Concorrenza Joaquin Almunia, e con le ultime concessioni l’azienda sembra essersi messa sulla strada giusta per raggiungere un compromesso che le eviti la maxi-multa Ue. «Nonostante la concorrenza online cresca rapida, abbiamo preso la difficile decisione di accettare le richieste della Commissione Ue per raggiungere un accordo», ha detto oggi Kent Walker, vicepresidente di Google.

«Le leggi antitrust servono ai consumatori, per migliorare innovazione e scelta, e non per proteggere le aziende. La mia responsabilità in questo caso è di assicurarmi che gli utenti di internet abbiano scelta, in modo da poter decidere tra vari servizi (motori di ricerca, ndr) sulla base del loro merito», ha detto Almunia al Parlamento Ue, annunciando che il caso, dopo tre anni di indagini, è al suo «punto di svolta» e una decisione si può prevedere entro la primavera. Google, ha spiegato, «ha migliorato gli impegni offerti, abbiamo negoziato fino a ieri. E ora lavoreremo insieme per finalizzare gli impegni sui quali poi chiederò l’opinione degli altri partecipanti del mercato e di coloro che hanno fatto ricorso».

I dubbi principali della Ue e dei concorrenti dell’azienda riguardano i risultati delle ricerche che privilegiano i prodotti Google, mettendoli sempre in cima o rendendoli più visibili degli altri. Dalle mappe alle news, ora anche alle informazioni di base su qualunque contenuto, Google è in grado di dare `risposte´ su tutto fin dalla prima pagina di risultati, e quindi rende sempre meno necessario per l’utente cliccare su altri link esterni, cioè quelli dei concorrenti.

Google aveva presentato i suoi primi `rimedi´ ad aprile, ma a luglio furono bocciati dopo i `test di mercato´ effettuati da Bruxelles interpellando i concorrenti del colosso del web, tra cui il gruppo di 17 operatori battezzato FairSearch di cui fanno parte, tra gli altri, Microsoft, Oracle, Nokia, Expedia e TripAdvisor. A settembre Google ha aperto a nuove concessioni, sperando di chiudere il caso che potrebbe costargli una maxi-multa del 10% del suo fatturato, cioè circa 5 miliardi di dollari. Almunia ha spiegato che l’azienda è stata collaborativa e sta davvero lavorando per rendere più semplice agli utenti del web vedere i risultati dei suoi rivali quando si effettua una ricerca. Il commissario non è entrato nei dettagli dell’offerta, ma ha spiegato che è stata fatta molta strada per affrontare i dubbi dell’antitrust.

Ansa