BAMBINI, CONSUMATORI
Tesina di Psicologia dei Consumi e Neuromarketing 2017
Stefano Kalogerakis
BAMBINI, CONSUMATORI
CRADLE TO GRAVE
Attraverso un’attenta analisi dell’evoluzione della condizione infantile negli anni del secolo scorso, paragonata a
quella contemporanea, Marina D’Amato esprime la propria preoccupazione nei confronti della situazione attuale
con un’affermazione provocatoria: “Ci siamo persi i bambini”.
La ricercatrice e sociologa continua la sua argomentazione sottolineando come l’infanzia non sia solo una fascia
d’età che rischia di scomparire da un punto di vista biologico (a causa del calo delle nascite), ma anche da un punto
di vista sociale; “gli adulti trattano i bambini subito “da grandi” […] Genitori e figli fanno le stesse cose (guardano la
tv, giocano con i videogiochi, navigano su internet, si vestono, mangiano, parlano ed interagiscono allo stesso
modo, si esprimono con gli stessi gesti e le stesse parole) e condividono e utilizzano in maniera identica gli stessi
spazi, sia in casa che fuori. […] Gioia e benessere sono stati reificati con l’acquisività da parte di una generazione di
baby boomers che dagli anni Settanta in poi ha imparato dall’offerta dell’immaginario televisivo e globale a
pensare che tutto, anche gli eroi del mondo fantastico, si possa comprare. E così genitori, nonni, zii sommergono i
piccoli, fin dalla primissima infanzia, di beni di consumo che vanno dall’abbigliamento al mobilio e naturalmente ai
gadget e ai giocattoli. Per non parlare della cura della persona e dei generi alimentari.”
Questa visione estremamente critica della situazione attuale analizza lo stretto legame con il consumo che
caratterizza la società del terzo millennio, dandole un’accezione molto negativa dovuta alla percezione dei possibili
rischi derivanti dall’esposizione ai media ed ai messaggi che diffondono degli individui più giovani ed indifesi, i
quali rappresentano le speranze e le aspettative future dell’intera società.
Negli Stati Uniti il motto per promuovere la fedeltà al marchio è “cradle to grave”, ossia dalla culla alla tomba.
Questa espressione evidenzia come i consumatori siano effettivamente individuati come bersaglio di un’infinità di
messaggi fin dalla tenerissima età; il mercato infatti vede nel bambino un nuovo attore economico, un
consumatore da fidelizzare fin dai primi passi.
Venendo al mondo in un ambiente così permeato da queste caratteristiche, i bambini, attraverso il processo di
socializzazione primaria, vengono contemporaneamente formati anche in quanto consumatori dai membri delle
proprie famiglie.
DA BAMBINO A CONSUMATORE
Secondo Piaget, la crescita del bambino può essere suddivisa in quattro stadi:
Sensomotorio (0-2 anni): il bambino utilizza un approccio multisensoriale e le sue abilità motorie
per comprendere ciò che lo circonda. È aperto e sensibile a stimoli; la sua intelligenza si sviluppa
attraverso l’azione.
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Preoperatorio (2-7 anni): il bambino inizia a farsi un’idea del mondo. L’attività cognitiva inizia a
prendere forma. L’esperienza sensoriale ha un ruolo fondamentale nell’immaginario dell’infante.
Iniziano a svilupparsi il ragionamento, le attività linguistiche e la capacità di pensare in modo più
organizzato. Il suo pensiero è di tipo intuitivo, ma iniziano a prendere vita le rappresentazioni
mentali degli oggetti.
Operatorio concreto (7-12 anni): l’attività mentale diviene più complessa e compare la
distinzione tra la percezione sensoriale e le altre forme di pensiero. Il bambino sviluppa processi
di ragionamento flessibili, sfruttando abilità cognitive e strutture logiche che gli consentono di
compiere operazioni mentali per ottenere e processare informazioni. Egli è in grado di essere
attento a più messaggi e stimoli contemporaneamente.
Operatorio formale (12-14 anni): l’infante raggiunge il completo sviluppo delle abilità cognitive;
in particolare prendono forma il pensiero astratto e la capacità di compiere ragionamenti
articolati ed organizzati. Le operazioni mentali non sono più legate solo alla realtà circostante e
ad oggetti, ma anche ad affermazioni verbali o concetti logici.
La socializzazione del consumatore può essere definita come un processo in cui i bambini acquisiscono conoscenze
e opinioni su prodotti e servizi, costruendo un sistema di credenze sul mercato e sui suoi operatori, acquisendo
conoscenze strutturali sui prodotti, conoscenze simboliche sulle marche ed apprendendo l’insieme di competenze
necessarie per agire nel mercato come soggetto economico. Inoltre avviene la costruzione di schemi cognitivi sul
processo di acquisto, seguita dallo sviluppo di competenze decisionali sul consumo e dall’apprendimento di
diverse strategie per influenzare gli acquisti dei familiari.
McNeal (1999) definisce cinque fasi di socializzazione dei bambini consumatori. La prima fase consiste nella
presenza del bambino che accompagna i genitori a fare spese, limitandosi ad osservare. Nella seconda fase, le
prime richieste si svolgono attraverso l’indicare, il parlare e la mimica, i bambini entrano in questa fase a circa 24
mesi d’età (Lee, Colins, 2000); inoltre in questa fase si sviluppa il comportamento di influenza degli acquisti dei
propri genitori conosciuto come "pester power" o "nag factor”. Nella terza fase, il bambino accompagna i genitori
nei momenti di consumo e partecipa alla selezione del cibo, sempre sottostando all'approvazione del genitore.
Nella quarta fase si svolge l'acquisto attivo ma ancora sotto la supervisione parziale dei genitori, mentre nella
quinta fase si svolgono acquisti in piena indipendenza.
L’INFLUENZA DEI BAMBINI SULLA PROPRIA FAMIGLIA
Gli studi del settore suggeriscono che i bambini hanno preferenze di marcate meno evidenti rispetto agli adulti e
che sono meno coerenti in termini di scelte di marca (Bahn 1986). L'incoerenza apparente dei consumatori più
giovani è dovuta alla mancanza di un quadro di riferimento e di esperienze ripetute in grado di creare schemi e
paragoni tra le diverse marche presenti nel mercato. La pubblicità rivolta ai bambini, dunque, non si concentra
sulla fedeltà del marchio ma sulle nuove e interessanti funzionalità che caratterizzano i particolari prodotti,
cercando di renderli più appetibili attraverso l’utilizzo di nessi e messaggi facilmente interpretabili dal giovane
pubblico.
Questa caratteristica, calata nell’ambiente familiare, alimenta il fenomeno del brand switching, cambio di marca
che spesso avviene a causa di un desiderio di cambiamento che rende i consumatori più dinamici. Il
comportamento appena descritto prende il nome di "ricerca di varietà" (variety seeking) ed è indipendente dai
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cambiamenti dovuti ad oscillazioni di prezzo o dalla disponibilità di nuove promozioni (McAlister & Pessemier
1982).
Più nello specifico, la ricerca di varietà può essere caratterizzata come:
Reale, quando è dovuta al desiderio del consumatore di un cambiamento di ritmo nella propria
quotidianità o nelle proprie abitudini.
In sviluppo, quando si acquistano marche diverse per apprendere quali siano le proprie preferenze
d’acquisto e tracciarne un’evoluzione.
Illusoria, nei casi in cui i diversi componenti della famiglia sono fedeli a marche diverse tra loro.
Quest'ultimo tipo di famiglia sembra alla ricerca di varietà a causa dei suoi modelli di acquisto molto
variegati, ma i diversi marchi, in realtà, soddisfano il comportamento inerziale di ogni componente della
famiglia (Young 2003). Il comportamento illusorio di ricerca di varietà può essere indotto dalle attività
promozionali di un determinato marchio, le quali riescono a far leva sui singoli familiari in modo
indipendente tra di loro.
Proprio nel tentativo di sfruttare la combinazione di questi elementi con la tendenza dei bambini ad utilizzare il
nag factor (o pester power), molte aziende studiano le proprie pubblicità utilizzando stili comunicativi che riescono
ad attrarre l’attenzione dei più piccoli, anche per le linee di prodotto indirizzate all’uso degli adulti (Ogba e
Johnson 2010).
È quindi chiaro il potere che viene riconosciuto al pester power, basti pensare che nel 2003 è stato calcolato che
una visita su tre ai fast-food può essere attribuita proprio a questo comportamento, rispetto ad una su dieci, come
accadeva nel 1977 (Spake 2003).
Il nag factor (o pester power) è il potere del capriccio e si esplicita attraverso richieste insistenti da parte dei
bambini nei confronti degli adulti (Nash, Basini, 2012). Questo comportamento è in grado di influenzare gli acquisti
dei genitori, soprattutto in ambiti come abbigliamento, scarpe, fast food, cibo da preparare e mangiare a casa e
prodotti alimentari preparati (cereali per la colazione, dolciumi, bevande, snack salati e snack dolci, ecc.) e può
essere di due tipologie differenti:
Assillo persistente (bambini più piccoli): comportamento caratterizzato dal continuo ripetersi della
richiesta da parte del bambino che aumenta il volume della voce e diminuisce le pause tra una richiesta e
la successiva con un ritmo sempre più incalzante, fino alla resa dei genitori.
Assillo d’importanza (bambini più cresciuti): comportamento più potente e subdolo, formato da
informazioni apprese dai media. Le richieste vengono argomentate facendo riferimento alla presunta
importanza personale del possedere proprio quel bene di consumo.
Facendo riferimento a Brandweek (1998), il nag factor è più efficace tra i gruppi a basso reddito. Questo può
essere dovuto ad una elevata percentuale di genitori single o divorziati che tendono a cedere alle esigenze dei
minori a causa del senso di colpa, inoltre è stato riconosciuto che le donne hanno più probabilità di comprare
impulsivamente beni sotto l’influenza dei bambini (Turčínková 2012).
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Attualmente, l’importanza data a questo fenomeno è in crescita, vista l’influenza che ricopre su temi diventati
parte della vita familiare come l’acquisto di beni e servizi di intrattenimento e non, che quasi sempre
rappresentano un valore fondamentale per le famiglie (Wanninayake, Chovancová, 2012).
Sulla base di questi studi, si può dire che il nag factor non è necessariamente un fenomeno negativo. Finché il
genitore è a conoscenza di questa dinamica, infatti, egli è in grado di utilizzare gli strumenti appropriati per gestire
la socializzazione del bambino e la sua evoluzione come consumatore. Il ruolo dei genitori è quello di riconoscere i
comportamenti del figlio, comprendendoli ed impegnandosi ad aiutarlo nel suo percorso di crescita. Le
conseguenze negative possono sorgere se si va ad alimentare questo fenomeno cedendo sempre alle richieste del
bambino perché si vogliono evitare i conflitti. Questo non comporta più l'interazione come confronto, che porta
alla comprensione, ma piuttosto ad una cessione di potere che va a sbilanciare gli equilibri nel rapporto genitorefiglio (Nash, Basini, 2012).
Per questo, il pester power può essere visto come un “gioco intergenerazionale” che vede gli individui coinvolti
interagire in modo quasi primitivo in un ambiente complesso da interpretare insieme e che rende possibile un
ulteriore sviluppo dei legami dell’intera famiglia, vista la natura del consumo, ormai considerato pratica di
intrattenimento ed espressione per tutti gli individui che la formano. Rose (2002) ha studiato la presenza di
bambini dai tre agli otto anni durante la selezione e l'acquisto di cereali da colazione e snack, rilevando che essi
possono essere incoraggiati ad imparare a compiere scelte indipendenti, guidati dai consigli degli adulti. Infatti, i
bambini contribuiscono spesso negli acquisti ed i genitori possono apprezzarne la partecipazione, soprattutto se
rende più efficiente il momento delle compere (Embrey 2004).
In seguito ai primi studi sul pester power i bambini sono stati considerati i principali influenzatori del processo
decisionale familiare, pertanto le aziende del settore alimentare hanno iniziato a targettizzarli come segmento di
mercato specifico, utilizzando tecniche above e below the line al fine di influenzarne le preferenze ed arrivare alle
abitudini di acquisto dell’intera famiglia. Tra gli altri strumenti promozionali utilizzati nel punto vendita (ad
esempio, vassoi, campioni gratuiti, ecc.), il packaging del prodotto è un notevole (se non il principale) strumento di
comunicazione, in grado di fornire informazioni ai consumatori sul suo contenuto, sugli attributi del prodotto e
sulla marca (Ogba e Johnson, 2010). Ciò va a completarsi con le caratteristiche del marketing orientato ai bambini,
come l'uso mirato di lettering, immagini e temi di interesse per l’infanzia. A causa delle minori capacità di
elaborazione delle informazioni dei bambini, infatti, essi sono in grado di valutare i prodotti e le loro confezioni
principalmente a livello visivo. Le aziende, pertanto, cercano di utilizzare l'immaginazione visiva dei bambini, la
capacità di riconoscere le diverse caratteristiche, i colori e il design per aumentarne l'interesse nei propri prodotti.
Questo tipo di marketing per i bambini comprende colori vivaci, forme particolari, personaggi di cartoni animati o
film, pattern vivaci, sorprese all’interno della confezione, adesivi, ecc., e gli interni dei punti vendita sono stati resi
più ludici e sono stati studiati in modo da porre determinati prodotti a diretta portata di mano dei bambini (Ogba,
Johnson, 2010; Berry, McMullen, 2008).
il design dei packaging di prodotti alimentari ha più influenza nel caso di cibi non sani, ciò indica lo sforzo dei
produttori di vendere questi alimenti stimolando l’acquisto d’impulso ed il nag factor, di cui abbiamo parlato in
precedenza. Per esempio, tra le aziende del mercato, Heinz è stata tra le prime a cercare di sfruttare l’influenza
che i colori dei propri prodotti potevano avere sui bambini; quando lanciò EZ Squirt Ketchup sul mercato alla fine
degli anni 2000, i distributori non riuscivano a mantenere delle scorte a causa della mole di acquisti (Ebenkamp
2002).
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Atkin (1978) è stato uno dei primi ricercatori ad occuparsi di questo settore, raccoglieva i dati nel corridoio dei
cereali da colazione dei supermercati, osservando le famiglie con bambini tra i tre ed i dodici anni. I risultati
suggeriscono che i bambini più piccoli hanno maggiori probabilità di avanzare richieste verso i propri genitori,
mentre i bambini più grandi hanno un maggiore successo nel farlo (Heslop and Ryans 1980). Questi ultimi, mentre
interagiscono con le loro madri dopo aver visto una pubblicità, hanno più probabilità di scegliere, chiedere e
convincere all’acquisto del prodotto piuttosto che i bambini più piccoli, che risultano meno legati a determinate
marche, rendendo lo switching molto più fluido per diverse categorie di prodotto acquistate dalla propria famiglia.
Anche se i rivenditori potrebbero credere che gli espositori e la comunicazione in-store incoraggino i bambini a
richiedere i prodotti esposti, i risultati di questa ricerca indicano che ciò non è particolarmente efficace;
emergerebbe infatti che i tagli dei prezzi per determinate promozioni ed i visual pubblicitari non siano molto
rilevanti per i bambini, mentre i prodotti più acquistati dalle famiglie con figli piccoli sarebbero quelli le cui
pubblicità televisive sono state più viste da questi ultimi.
È evidente che, nel momento in cui si considera un comportamento d’acquisto, per analizzarlo in profondità sia
necessario tentare di capire da cosa sia stato scatenato od i fattori che hanno influenzato la scelta di un
determinato prodotto. Bisogna dunque tener conto di tutte le attività promozionali precedenti l'atto dell'acquisto,
in quanto i messaggi persuasivi possono incidere sia sul comportamento del bambino che sulla risposta del
genitore. L’influenza può viaggiare in entrambe le direzioni in questo rapporto e porta da un lato i bambini ad
essere educati dai propri genitori al consumo, dall’altro questi ultimi a godere della compagnia e dell’aiuto dei
propri figli nel compiere un insieme di azioni che negli anni è diventato una sorta di rituale, riuscendo a conoscerli
meglio e prendendo atto delle loro preferenze di consumo (John 1999).
I BAMBINI E LA COMUNICAZIONE PUBBLICITARIA
La pubblicità rivolta ai bambini è un argomento controverso che ha suscitato un significativo dibattito negli ultimi
anni. I critici affermano che la pubblicità diretta verso i bambini crei una mentalità materialistica, soffochi la
creatività, crei conflitti nella relazione genitore-figlio e ostacoli lo sviluppo di valori morali ed etici.
I bambini sono soggetti fragili, sensibili, sprovveduti e vulnerabili dal punto di vista psicologico perché non hanno
capacità e abilità mentali sviluppate, infatti la comprensione della comunicazione pubblicitaria varia a seconda
dell’età del bambino e quindi a seconda del livello di sviluppo cognitivo raggiunto. Per poter essere efficace il
messaggio pubblicitario deve essere compreso con chiarezza e memorizzato, riuscendo così a raggiungere il suo
obiettivo finale: modificare l’atteggiamento o il comportamento del bambino.
Il processo di comunicazione pubblicitaria è stato suddiviso in diversi step per renderne più chiaro il
funzionamento:
Esposizione: in media, in America i bambini guardano la televisione per 26 ore alla settimana, circa 3,5 al
giorno. In questo modo, essi vengono esposti a 22.000-25.000 spot all'anno (Weisskoff, 1985).
Attenzione: tendenzialmente un bambino sotto i 6 anni guarda la tv ma allo stesso tempo fa altre attività:
non dedica tutta la sua attenzione allo schermo; infatti l’attenzione del bambino è selettiva e solo in alcuni
momenti viene attirata completamente dalla televisione (spesso quando appare uno spot pubblicitario).
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Comprensione: può essere di tre tipologie, ovvero debole se non è presente la comprensione dello spot
come entità separata dal programma, media se il riconoscimento del subentro della pubblicità al
programma è presente, e forte se viene riconosciuto anche l’intento persuasivo dello spot.
Memorizzazione: facilitata dall’età e dal livello di sviluppo del bambino, avviene una volta che la pubblicità
è riconosciuta in quanto tale.
Opinione dei bambini: consiste nel gradimento della pubblicità; aiuta sia la memorizzazione, sia la
percezione di affidabilità dello spot pubblicitario.
I ruoli della comunicazione pubblicitaria nei confronti dei bambini possono essere descritti seguendo tre punti:
Primary market: il bambino viene reso destinatario degli spot pubblicitari con lo scopo di far nascere in lui
il desiderio di possedere il prodotto.
Influence market: c’è la ricerca di stimolare un’influenza da parte del bambino sugli adulti (nag factor).
Future market: essendo il bambino un futuro consumatore adulto, cercare di fidelizzarlo in tenera età è un
obiettivo primario per molte imprese, le quali vedono nella comunicazione presente un investimento per
rinforzare o in alcuni casi sostituire quella futura.
Molti studi hanno dimostrato l’efficacia dei messaggi persuasivi su bambini anche molto piccoli; la loro forza sta
nel processo di identificazione che gli spot sono in grado di creare e che portano il bambino ad immedesimarsi nei
personaggi che vede, producendo un coinvolgimento emotivo. Al bambino piacciono le situazioni familiari degli
spot proprio perché rendono più facile l’identificazione e sono quindi fonte di piacere e di emozioni. Un altro
processo che può instaurarsi è il processo di emulazione, quando i protagonisti degli spot sono ragazzi di età
superiore all’età dello spettatore. Dato che i bambini apprendono per imitazione, ossia agiscono come il modello
osservato per ricevere gli stessi benefici e ricompense, i testimonial utilizzati negli spot diventano per loro perfetti
modelli da imitare.
A dimostrare queste dinamiche, i risultati degli studi di sociologhi come Goldberg (1978), che ha dimostrato che i
bambini che vedono la pubblicità di prodotti sani hanno meno probabilità di scegliere caramelle, snack dolci e
cereali zuccherati (prodotti ritenuti critici per il fenomeno dell’obesità infantile nella società americana) di quelli
che vedono la pubblicità di tali prodotti.
Secondo Rossiter (1979), la pubblicità può avere tre tipi di influenze sui più piccoli:
Effetti cognitivi, ovvero la capacità dei bambini di capire la natura e l'intento della pubblicità, effetti attitudinali,
cioè la sensazione che i bambini hanno verso la pubblicità e la loro reazione a essa, ed effetti comportamentali,
quindi la misura in cui i bambini sono persuasi dalla pubblicità per chiedere il prodotto pubblicizzato.
Effetti cognitivi: le capacità cognitive dei bambini e la misura in cui capiscono la natura delle pubblicità
televisive, che possono essere viste in modi diversi dai bambini della stessa età in base al livello del
proprio sviluppo cognitivo. I bambini più piccoli nel secondo stadio di sviluppo di Piaget non sono in grado
di assimilare molte informazioni né di comprendere lo scopo degli annunci pubblicitari come i bambini più
grandi e in una fase successiva dello sviluppo cognitivo. Questo studio ha fornito prove che i bambini
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iniziano a capire la natura delle pubblicità in un determinato stadio cognitivo.
Effetti attitudinali: i bambini più grandi i cui genitori hanno un livello di istruzione superiore alla media
sono più inclini a rendersi conto che un annuncio commerciale è inteso ad indurre uno specifico
orientamento all’acquisto, rispetto ai bambini più giovani i cui genitori sono meno istruiti. Crescendo, i
bambini cominciano a sviluppare principi di ciò che la pubblicità dovrebbe essere, anche da un punto di
vista etico.
Effetti comportamentali: i tentativi di persuasione nei confronti dei genitori diminuiscono con l’età in
quanto i bambini crescono e maturano; allo stesso tempo però, i genitori tendono ad acconsentire
maggiormente alle richieste dei figli, più grandi questi diventano.
L’insieme di queste ricerche ha portato diversi studiosi a richiedere modifiche legislative per ridurre l'impatto dei
messaggi degli inserzionisti sulle preferenze dei bambini (ad.es. Smith & Stutts 1999; Borzekowski & Robinson
2001; Grier 2001). Anche i legislatori hanno mostrato un interesse, come il senatore americano Joseph Lieberman,
che ha chiesto la redazione di nuove politiche pubbliche per affrontare varie questioni, tra cui limitare l'impatto
della pubblicità sui bambini, divulgare informazioni nutrizionali nelle pubblicità di prodotti per l’infanzia, richiedere
che gli alimenti venduti nelle scuole siano cibi sani e che siano fornite informazioni nutrizionali riguardanti il cibo
servito nei fast-foods (Government Affairs 2003).
Un fattore che deve certamente essere considerato è la fascia d’età in cui si trovano i minori esposti a
comunicazioni pubblicitarie, che li sottopongono a influenze in più ambiti e su diversi livelli in base allo stadio di
sviluppo in cui si trovano. Per esempio, nei giovani che hanno tra i 12-16 anni, l'atteggiamento rispetto alla marca
fa da mediatore tra l’atteggiamento verso un annuncio e l’atteggiamento nei confronti di una categoria di prodotti
(Kelly 2002). Pertanto, mentre le aziende lavorano per influenzare gli atteggiamenti nei confronti di una marca,
esse rischiano di coinvolgere anche la desiderabilità sociale di una categoria di prodotti, il che è visto come un
pericolo che non può essere ignorato dai responsabili delle politiche pubbliche. Dunque è fondamentale che ci sia
una chiara consapevolezza di questo fenomeno, in modo da poter evitare il rischio di sottovalutare effetti
collaterali nelle abitudini delle generazioni più giovani, che si presenterebbero a causa di possibili errori di calcolo
o pressapochismi nella costruzione dei messaggi contenuti all’interno delle campagne di comunicazione.
Forse la critica più diffusa nei confronti della pubblicità è la sensazione che sia uno strumento ingiusto ed
ingannevole a causa della natura indifesa dei più piccoli, e della loro incapacità di interpretare l'intenzione di
vendita dei messaggi pubblicitari o di riconoscere la differenza tra i programmi televisivi e gli spot. I bambini
dovrebbero certamente essere considerati un pubblico speciale che può essere psicologicamente incapace di
valutare i diversi prodotti e spesso non dispone della maturità per giudicare e valutare efficacemente le
informazioni contenute nei messaggi pubblicitari. La mancanza di esperienza e di sviluppo cognitivo, secondo i
critici, può facilmente portare i bambini ad essere ingannati o confusi dalle pubblicità che vedono in televisione o
attraverso qualsiasi mezzo di comunicazione (Weisskoff, 1985).
Ricordiamo che la capacità di percepire cosa la pubblicità sia e come funzioni dipende infatti da fattori quali l'età
del bambino, il suo livello d’istruzione ed il tipo di influenza che i genitori hanno nel mediare e spiegare le
pubblicità ed i messaggi con cui entra in contatto. Come abbiamo visto all’inizio di questo documento, applicando
la "teoria dello sviluppo cognitivo" di Piaget si è dimostrato che i bambini passano attraverso livelli definiti di
sviluppo cognitivo, e le età in cui queste fasi vengono attraversate possono variare per ogni bambino. Di
conseguenza, i bambini più piccoli potrebbero non essere in grado di assimilare le stesse quantità di informazioni o
di comprendere lo scopo di un annuncio come altri bambini più grandi (Rubin, 1974).
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Un quadro completo del processo di socializzazione nei confronti della comunicazione pubblicitaria è dato da
Roedder che suddivide il percorso di socializzazione in tre stadi:
Perceptual stage (3-7 anni): i bambini hanno già familiarità con concetti di marca, ma la loro
comprensione si ferma a livello superficiale. Le conoscenze sono elementari, essi vengono solitamente
attratti da un singolo attributo.
Analytical stage (7-11 anni): le esperienze di acquisto e consumo si strutturano in schemi cognitivi
complessi; gli oggetti iniziano ad essere valutati attraverso la loro performance, non solo per dimensioni e
caratteristiche cromatiche. È inoltre riscontrato un aumento di complessità dei processi decisionali.
Reflective stage (11-16 anni): in quest’età avviene il perfezionamento delle competenze cognitive e
relazionali. Si sposta l’attenzione sulla dimensione sociale del consumo che inizia ad essere compiuto
come pratica significante.
I sostenitori della comunicazione pubblicitaria indirizzata ai bambini hanno tentato di contrastare gli argomenti dei
genitori preoccupati e dei gruppi di interesse pubblico sostenendo che la pubblicità serve come fonte di
informazioni e di insegnamento per i bambini, le cui abilità di consumatori devono essere sviluppate in modo da
poter, in futuro, operare sul mercato. Oltre a fornire informazioni utili sui prodotti, la pubblicità offre l'opportunità
di valutare gli attributi delle offerte di prodotti differenti ed insegna ai bambini come funziona il processo di
acquisto. Essi sostengono che sia responsabilità dei genitori (non delle aziende) controllare ciò che i propri figli
guardano alla televisione o sugli altri media, spiegando loro la natura e lo scopo della pubblicità.
Nonostante alcune pubblicità possano essere considerate ingannevoli e manipolative, non esiste una normativa
specifica che ponga dei limiti chiari definendo che livelli di influenza ed inganno siano inaccettabili; questo
costituisce un pericolo effettivo, in quanto i bambini piccoli ritengono che la pubblicità dica cose vere, che fornisca
ottimi consigli per gli acquisti e che le persone che parlano negli spot dicano sempre la verità. Questo grado di
fiducia indiscriminata diminuisce solo con l’aumentare dell’età, ma perdura per anni.
Malgrado il forte impatto della pubblicità sui bambini sia stato dimostrato in molti studi, questi sono in genere
trasversali e osservano solo effetti a breve termine, ciò scredita le tesi disfattiste di coloro che condannano
l’industria mediatica senza mezzi termini, ignorando la mancanza di prove specifiche che dimostrino che i bambini
possono subire danni sul lungo termine a causa della pubblicità diretta verso di loro; gli adulti di oggi sono stati
bombardati da migliaia di annunci durante tutta la loro infanzia e, a parte l’influenza sul comportamento di
acquisto, non sono stati riscontrati “effetti collaterali”.
È importante identificare come avviene l'impatto indesiderato e quali misure lo potrebbero attenuare.
Bolton (1983), ad esempio, osserva gli effetti a lungo termine della pubblicità che raggiunge i bambini, e ha portato
ad un aumento del consumo snack e calorie ingerite, con una concomitante riduzione dell'alimentazione. Tuttavia,
i suoi risultati suggeriscono che l'influenza dei genitori è più forte di quella della pubblicità, pertanto raccomanda
la redazione di politiche pubbliche che agiscano per aumentare la comprensione dei genitori riguardo temi come il
benessere nutrizionale, al fine di migliorare le diete dei bambini. Sarebbe dunque necessaria una presa di
posizione condivisa da parte di tutte le parti in causa, per far sì che si trovi un “common ground” sul quale
costruire delle nuove politiche pubbliche nell’ottica di salvaguardare i più piccoli.
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Il dibattito sulla natura, il controllo e l'etica della pubblicità indirizzata ai bambini probabilmente continuerà per gli
anni a venire. Come in argomenti più controversi, è facile che la pubblicità indirizzata ad un pubblico giovane sia
vista come uno strumento di manipolazione, non etico o ingiusto e vengano richiesti regolamenti per proteggere i
bambini. Altri punti di vista potrebbero vedere la comunicazione indirizzata ad essi come mezzo di informazione, in
grado di migliorare lo sviluppo delle abilità di consumo necessarie per essere elementi attivi e consapevoli
all’interno della società odierna.
Resta il fatto che i bambini vengono troppo spesso visti, semplicisticamente, come soggetti che, per natura, sono
del tutto indifesi e devono essere preservati dall’entrare in contatto con determinati stimoli che possono essere
fraintesi, quando, in realtà, sarebbe necessaria una maggiore consapevolezza della versatilità degli infanti ed una
strutturazione di metodi di socializzazione indotta per formarli in quanto consumatori; questo li aiuterebbe a
sviluppare più consapevolmente le proprie capacità e la propria personalità.
RIFERIMENTI
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