Matthew Perry ci parla del suo libro pieno di rivelazioni choc, nato per salvare altri come lui

Matthew Perry è stato per tanti anni uno tra i personaggi più famosi, simpatici e meglio pagati della tv. Un successo che l’ha quasi ucciso 
Matthew Perry su GQ
Giubbotto Berluti. T-shirt Hiro Clark

Il memoir di Matthew Perry, dal titolo Friends, amanti e la Cosa Terribile è davvero sbalorditivo, schietto e commovente. Per rendere l’idea di quali corde intime riesca a toccare, condividerò un’esperienza di lettura molto particolare: alcuni mesi dopo aver completato lo scritto, Perry aveva assunto l’impegno di registrarne l’audiolibro. In quella circostanza ha potuto rendersi conto che per quanto ne fosse l’autore e lo avesse davvero creato da solo, buttando giù la prima metà nell’app Note del suo smartphone prima di finire il resto sull’iPad, non si era mai concesso di rileggerlo dall’inizio alla fine. Aveva a disposizione un giorno prima di recitare ogni singola parola davanti a un microfono. Doveva prepararsi al meglio. Così si sdraiò sul letto, con l’iPad davanti a sé, e ci si tuffò a capofitto.

Friends”, amanti e la Cosa Terribile arriva oggi in libreria (La Nave di Teseo, pagg. 336)

Scrivere gli aveva dato un senso di liberazione. «Sono stato assolutamente sincero», racconta. «Tutto è sgorgato spontaneamente ed è uscito sulla pagina», però in quel momento ha scoperto che una cosa è stata fare uscire da sé la vera storia di Matthew Perry e ben altra ritrovarsela davanti. «Ho letto il libro», rammenta, «e non riuscivo a smettere di piangere. Ho pensato: “Oh, mio Dio, questa persona ha vissuto la peggiore esperienza di vita immaginabile!”. Finché non mi sono reso conto: “È di me che sto leggendo…”».
Quella notte, Perry non riuscì neanche più a sopportare di trovarsi nella stessa stanza insieme al proprio scritto. «Visto che dovevo andare a dormire», dice, «afferrai l’iPad e lo misi fuori dalla stanza. Perché era troppo vicino, troppo doloroso».


Sì, è proprio quel Matthew Perry. Colui che, un quarto di secolo fa, ha vestito i panni di Chandler, un personaggio di estremo fascino, sarcastico e bisognoso di attenzioni nella sitcom di maggior successo del suo tempo: Friends. Nel cerchio infinito dell’eterno presente della televisione in streaming resta ancora, in un certo senso, l’attore che interpreta Chandler in Friends. Allora, a quale dramma potrebbe mai alludere? Suppongo che negli anni siano trapelate alcune voci su di lui. Ha vissuto qualche problema con l’alcol? Ha ingoiato delle pasticche proibite? È diventato un tantino grassoccio, oppure un po’ smagrito? Ha avuto una carriera altalenante e, nel complesso, più stentata che luminosa? Niente di tutto ciò, siamo onesti, sarebbe troppo distante dalle consuete narrazioni di genere. In tal caso, se ora ha sfornato un libro, non sarà semplicemente l’ennesima autobiografia di un’adorabile celebrità condita da uno spruzzo di prudenti rivelazioni buoniste su come stare in equilibrio sul filo del successo e affrontare i propri demoni?

Certo, ovviamente. Beh, più o meno, ma non proprio. La risposta sarebbe affermativa solo se vivessimo in un universo parallelo in cui le memorie delle celebrità includessero passaggi di tale tenore:  

Ero in terapia da quando avevo 18 anni e a questo punto, sinceramente, non ne avevo più necessità: quello di cui avevo bisogno erano due denti davanti e una sacca per colostomia che non si rompesse. Quando racconto di essermi svegliato ricoperto della mia stessa merda, intendo dire che è capitato 50 - 60 volte.


 «Devo ordinare qualcosa di sano», annuncia Perry. Abbiamo deciso di incontrarci a cena al circolo privato Soho House a West Hollywood, non lontano da dove l’attore ha preso in affitto una casa sulle colline in attesa che finiscano i lavori pluriennali di ristrutturazione di un’altra abitazione da lui acquistata a Pacific Palisades: «una vista meravigliosa sull’oceano, un po’ la dimora dei sogni», spiega.

Qualunque siano le sue altre afflizioni, Perry non ha mai provato la povertà. Verso la fine della serie di Friends, ognuno dei sei protagonisti veniva pagato più di 1 milione di dollari a episodio. Di conseguenza, di soldi gliene rimangono ancora molti. «Non sono il tipo che si fuma un milione di dollari per qualcosa di inutile», dice. A questo punto ci conosciamo da poco meno di tre minuti, di lì a poco mi avrebbe raccontato della volta in cui ha fatto una scelta avventata dal punto di vista finanziario per un importo decisamente superiore. Una vicenda legata all’acquisto di una precedente proprietà, un attico di quasi 1.000 metri quadrati situato a Los Angeles del tutto inadeguato alle proprie esigenze sotto ogni profilo, a parte il fatto che assomigliava all’appartamento occupato dal Batman di Christian Bale nel film Il cavaliere oscuro. Il suo ragionamento, ammesso che sia la parola giusta, fu: «Bruce Wayne aveva un attico; quindi, ne voglio uno anch’io». Non ci mise molto a capire «che razza di stupido errore fosse stato».

Gli chiedo se è stato divertente, almeno per un certo periodo.

«Forse i primi giorni, quando mi ci perdevo. Subito dopo mi sono domandato: “Perché l’ho comprato?”».

Il cellulare di Perry, appoggiato sul tavolo tra di noi, ha sopra un adesivo con il tradizionale logo delle ali aperte di Batman. A quanto pare, Perry ha una mania per l’iconico supereroe pipistrello. Ammette di essere un grande fan, in particolare dei tre film di Christopher Nolan, e accenna al fatto che sta allestendo una sala dedicata a Batman nella nuova casa: «una Matt-caverna», la definisce impassibile, dotata di tavolo da biliardo, un televisore gigante e un divano nero circondato da scaffalature da riempire con tutti i suoi gadget. Quando lo incalzo riguardo a questo interesse, Perry risponde senza scomporsi con un’affermazione sorprendente.

«Io sono Batman», afferma.
Un po’ confuso, gli chiedo spiegazioni.
Mi risponde: «Beh, lui è un ricco solitario e guidiamo tutti e due un’auto molto cool e nera». Perry è arrivato al volante di una Aston Martin Vantage V8 Roadster del 2021, un modello che ha scelto perché assomiglia alla Batmobile. «Non risolvo crimini», aggiunge. «Ma ho salvato la vita ad alcune persone».

Perry ordina un antipasto di polpettine insieme a un hamburger senza pane e rinuncia anche alle patatine, solo carne e un po’ di ketchup per iniziare a spiegare. C’è molto da chiarire.

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Tanto per cominciare, la «Cosa Terribile» citata nel titolo del libro di Perry ne rappresenta il tema centrale ed è la sua dipendenza. «Nel dizionario, alla voce dipendenza» scrive con amara autoironia, «ci dovrebbe essere una fotografia di me mentre mi guardo intorno, molto confuso».

«È un libro che parla dell’ascesa continua della mia fama, nello stesso periodo in cui combattevo contro questa terribile dipendenza», spiega. «È dedicato a “tutti coloro che soffrono là fuori. Voi sapete chi siete”. Lo scopo è insegnare che la dipendenza può colpire tutti perché fa sentire le persone meno sole…». Sono le vite che ha salvato e a cui ha fatto allusione paragonandosi a Batman. Si tratta dell’impegno che da molti anni ha preso con sé stesso e svolge a contatto diretto con il pubblico, a quattr’occhi, aiutando chi soffre di una dipendenza anche se le sue battaglie personali non sono finite. «Ci deve essere una ragione per cui sono ancora qui, nonostante abbia combinato cose assurde. Sono giunto alla conclusione che la risposta stia nello scrivere un libro utile, una storia vera in grado di soccorrere altri afflitti da ciò che ho provato o vissuto», svela. «In più, volevo che il pubblico capisse quanto è difficile smettere. Una nozione essenziale per smettere di giudicare le persone che usano sostanze. Perché è molto, molto difficile».
Come scrive nel libro: 

La mia mente vuole a tutti i costi uccidermi. E io me ne rendo conto.

«Non è un viaggio per lusingare il mio ego, non è nulla di simile», sottolinea. «È la dura, fredda verità di un essere umano dominato da una dipendenza. Un individuo che ce l’ha fatta. Che deve farcela tutti i giorni. Il lavoro da affrontare quotidianamente per salvarsi da un mostro che alberga nel tuo cervello è una battaglia sconcertante con cui convivere».


Il coraggio del libro di Perry non consiste solo in ciò che scrive, nel tono o nella risolutezza del suo impegno, ma anche nella scelta di raccontarsi con brutale sincerità.

Sono passati circa 18 mesi da quando Perry ha iniziato a scrivere, seduto sul sedile posteriore di un’auto, in viaggio verso una struttura in Florida dove doveva sottoporsi a terapia: «trauma camp» lo definisce lui. Annota nel prologo del libro: «Ho vissuto metà della vita in una qualche forma di centro terapeutico o di recupero dalle dipendenze», e questa è soltanto una delle molte, allarmanti misurazioni empiriche da lui fornite per soppesare la gravità dei guai affrontati. Altri esempi sono: «Ho speso più di 7 milioni di dollari per cercare di smettere di bere. Ho partecipato a seimila riunioni degli Alcolisti Anonimi… Sono stato 15 volte in un centro di disintossicazione. Ho subito un ricovero in un ospedale psichiatrico e sono andato in terapia due volte alla settimana per 30 anni…». Ancora: «Mi sono disintossicato più di 65 volte nella vita...». Oppure: «Durante gli anni di Friends il mio peso variava tra i 60 e i 100 chili. Posso ripercorrere la traiettoria della mia dipendenza misurando quanto pesavo da una stagione all’altra: se ingrasso, è l’alcol; se sono magro, sono le pillole. Quando ho il pizzetto, sono molte pillole». E anche: «La gente si stupirebbe di sapere che sono stato per lo più sobrio dal 2001. Tranne per una sessantina o settantina di piccoli incidenti nel corso degli anni». 

La verità che Perry sa raccontare con dovizia di particolari è un progresso graduale di disfacimento che andava oltre il suo controllo. C’è stata, per esempio, la prima bevuta in cortile con gli amici a 14 anni quando i suoi coetanei finirono tutti a vomitare, ma lui scoprì qualcos’altro: «Mi resi conto che per la prima volta in vita mia, nulla più mi infastidiva. Il mondo aveva senso; non era deviato e folle. Mi sentivo appagato, in pace… Pensai; è questo che mi mancava. Dev’essere così che si sentono sempre le persone normali». Poi ci fu l’incidente in moto d’acqua sul Lago Mead tra la seconda e la terza stagione di Friends, in conseguenza del quale un medico gli ha somministrato una sola pillola. «Quando la pillola fece effetto, dentro di me sentii un click», scrive. «Ed è proprio quel click che ho inseguito per il resto dell’esistenza». Diciotto mesi dopo prendeva 55 Vicodin al giorno.

Al di là di qualsiasi altra considerazione, mi chiarisce Perry, quella con cui doveva fare i conti era una difficoltà logistica: ogni mattina, appena sveglio, c’era ad attenderlo la preoccupazione di come procurarsi le pillole per quella giornata: «Avevo all’incirca otto medici in contemporanea. Un finto mal di testa di qua e uno di là, un falso dolore alla schiena. Il problema era dover fingere tutti i giorni». A volte, è proprio quando siamo al culmine della disperazione che diventiamo più inventivi. La cultura popolare è satura di racconti in grado di spiegare nei dettagli le strategie disperate che le persone senza mezzi, talvolta, adottano per trovare le droghe di cui hanno bisogno, ma i privilegiati hanno altre possibilità; Perry fu il pioniere di una trovata particolarmente ingegnosa.

La prendiamo a modello per rappresentare i livelli surreali di aberrazione e sotterfugio di questo periodo della sua vita. Nell’arco di circa cinque anni, durante le stagioni di punta di Friends, prendeva spesso appuntamenti nel fine settimana per vedere immobili di lusso verso cui mostrava un palese interesse nell’ottica di un investimento. Forse la casa gli interessava, forse no. In ogni caso, aveva anche un piano occulto da portare a termine. Appena trovava il momento opportuno, a un certo punto della visita si defilava. «Andavo in bagno quando erano da un’altra parte», spiega. «Perché se chiedevo, “Posso andare in bagno?” tutti sapevano dov’ero». Qui, faceva un inventario dell’armadietto dei medicinali dell’attuale occupante e valutava le possibilità offerte. Gli capitava di non trovare niente, ma il più delle volte il genere di frutto che stava cercando era sulla pianta. A quel punto doveva decidere quale, e quanto, fosse maturo da raccogliere. A modo suo, stava attento. Controllava le etichette. Il meglio era quando le pillole erano scadute, perché in quel caso si sentiva sicuro nel prenderle tutte. Davanti a un farmaco appena prescritto, non osava prenderne più di un paio. «Comunque facevo quello che dovevo fare», racconta. «Contavo sul fatto che nessuno avrebbe mai potuto sospettare che era stato Chandler a frugare nel suo armadietto delle medicine e a rubarle».

Per quanto ne sa, la fece sempre franca e continuò a fare il meglio che poteva per nascondere la sua dissolutezza più grave. «Era un segreto», sottolinea. «Perché c’era qualcosa di sbagliato in me e non sapevo cosa. Non potevo smettere o pensavo che sarei impazzito». Tuttavia, se immaginava che non si vedessero i segni del suo disagio, si stava prendendo in giro. «Lo sapevano tutti», riflette. «Il cast di Friends ne era consapevole. Una volta Jennifer Aniston mi prese da parte e disse: “Lo sappiamo che bevi”. Io chiesi: “Come fate a saperlo?”. E lei rispose, “Si sente dall’odore”. Eppure, neanche questo mi fermò».

Presto arrivò un’altra delle molte disintossicazioni e così andò avanti nei decenni con fasi altalenanti sintetizzate dalle statistiche indicate in precedenza. Strada facendo, ci sono stati periodi prolungati di relativo benessere. Poi, fu tutta una traiettoria crescente caratterizzata da una serie disastrosa di avvenimenti che iniziò nel luglio 2018 quando, dopo essere stato portato di corsa dall’ultimo centro di disintossicazione in ospedale in preda a dolori lancinanti, il colon di Perry esplose. Era stitico da 10 giorni a causa di una reazione fisiologica ai farmaci assunti per curare la dipendenza. Alla sua famiglia comunicarono che aveva una probabilità del due percento di superare la notte: finì in coma per due settimane alle quali seguì un ricovero di cinque mesi. Fu mentre era privo di conoscenza che gli applicarono una sacca per colostomia. «Un look che non donava neanche a me», anche se facilitava l’espulsione sicura dei rifiuti solidi dal corpo, mentre il suo intestino guariva. Quando funzionava, però. «Mi svegliavo», ricorda bene, «con la sacca che si era rotta di nuovo e avevo della merda su tutta la faccia, sul corpo e nel letto a fianco. Quando si rompe, si rompe. Devi chiamare gli infermieri».

Dopo nove mesi, passati con la sacca per colostomia, fu programmato un intervento di rimozione. Perry sottolinea che a oggi ha subito 14 operazioni in relazione al suo ricovero in ospedale. In quel periodo perse anche gli incisivi dopo aver morso una fetta di pane tostato ricoperta di burro di arachidi e alla fine ha dovuto farsi sostituire tutti i denti. Il primo tentativo di rimuovere la sacca per colostomia non andò a buon fine. Gli dovettero, invece, applicare un sostituto temporaneo: una sacca per ileostomia. «Dieci volte peggio. Devi averci a che fare 18, 19 volte al giorno. Molti con una sacca per ileostomia si suicidano. Le persone non la reggono». Per fortuna l’intervento successivo, poco tempo dopo, aggiustò le cose. «Adesso vivo senza da molto tempo», esulta, «e ne sono molto felice».

Inevitabilmente, gli sono rimaste numerose cicatrici. «Mi sto abituando all’aspetto del mio corpo», dice. «Le osservo con gratitudine, perché mi hanno aiutato a rimanere vivo. Devo vivere la mia vita 24 ore su 24 e 7 giorni su 7 con questo tessuto cicatriziale di cui sono ogni istante cosciente. Ho la sensazione di fare di continuo esercizi per gli addominali in totale allungamento».


 La logica della storia sembra ormai scivolare sui consueti binari narrativi: dopo un’esperienza così brutale, straziante e a un soffio dalla morte, Perry lascerà l’ospedale per tornare nel mondo finalmente liberato dagli impulsi che lo hanno da sempre tormentato?

Se solo storie come questa avessero contorni tanto definiti e semplici. Ecco come, nel suo libro, Perry descrive ciò che accadde in realtà:

La prima volta, al ritorno dall’ospedale dopo l’operazione, appena mi sono sfilato la camicia in bagno, sono scoppiato a piangere. Ero profondamente turbato. Pensai che la mia vita fosse finita. Circa mezz’ora dopo mi ero ripreso abbastanza da fare una chiamata al mio spacciatore…

Quando glielo chiedo, Perry ripete ciò che uno dei suoi terapeuti ama dire: «La realtà ha il sapore dell’abitudine». Sapeva a cosa fosse sopravvissuto, ma voleva comunque la droga. «Non importava», aggiunge. «Ne avevo bisogno». È il motivo che lo ha presto condotto al ricovero nell’ennesimo centro di disintossicazione, in Svizzera, dove accarezzò la morte per la seconda volta. Mi spiega che, durante un intervento chirurgico, gli avevano somministrato il propofol noto, sottolinea l’attore, come «il farmaco che ha ucciso Michael Jackson» e il suo cuore si fermò. Per cinque minuti, gli dissero dopo.

«Un tizio enorme, forzuto, mi saltò sopra», rammenta. «Mi praticò la rianimazione cardiorespiratoria, fu costretto a fracassare otto costole e mi salvò la vita».

Recentemente, sostiene Perry, le cose sono molto migliorate. Ora è determinato a rinunciare, per esempio, all’OxyContin perché ha ben chiaro nel proprio cervello che, se lo prende, sarà costretto a vivere fino all’ultimo dei suoi giorni con una sacca per colostomia.

Domando se è appropriato chiedergli quanto tempo è passato dall’ultimo cedimento.

«Voglio tenerlo per me», risponde. «È da un bel pezzo».

Chiedo se c’è qualcos’altro che può aggiungere.

«Solo una cosa: adesso sta andando bene. Ora sono più consapevole e meno dominato dalla paura. Una delle cose che ho imparato è di potercela fare, anche quando succedono cose brutte. Sono resistente, forte e penso di averlo comunicato in modo molto chiaro anche al lettore nel libro. Sono un uomo pieno di energia e non me ne sono mai riconosciuto il merito, mai. Adesso sto lentamente iniziando».

Al termine della nostra conversazione serale, Perry lascerà la Soho House portandosi via le due porzioni di appiccicoso budino al toffee, «il dolce più buono mai mangiato in vita mia», per offrirlo alle persone che lo aspettano a casa. Ha in programma di vedere il Batman di quest’anno, un film che con immenso stupore ha accettato di inserire nel suo canone di rappresentazione dell’eroico pipistrello. Forse è la sesta volta, anche se alla fine si metterà comodo a leggere il libro di John Grisham appena iniziato. All’uscita, passa davanti ad altri commensali provenienti dalla direzione opposta. Nella scia, il loro parlottio rimane sospeso in aria.

«È Chandler… è Chandler…».

«Succede tutti i giorni», commenta, palesemente irritato.

Non è semplice intuire come si senta esattamente Perry riguardo al modo in cui è percepito dal mondo. Quando a un certo punto mi confida: «È un libro molto profondo, forse la gente avrà di me una diversa considerazione». Gli chiedo se pensa che non lo prendano sul serio. L’attore fornisce una risposta che forse cela l’esatta fotografia dei dilanianti tormenti presenti nel suo animo: «Sì, ma forse lo faranno dopo avere conosciuto tutta la storia. Hai presente, la serie di Chandler, lo show di Matthew Perry, l’uomo ‘Ah! Ah! Ah!,’ che canta, balla e fa sempre ridere, non deve più essere così. E lo so da circa 10 anni. Non ho l’obbligo di farlo. In effetti, ora è probabilmente anche una cosa fastidiosa agli occhi della gente, per cui basta. Faccio ridere quando voglio, ma non sento il bisogno di farlo a tutti i costi». 


Un risvolto completamente diverso presente nel libro di Perry, come segnalato dalle… amanti … del titolo, si riferisce alle sue relazioni sentimentali. Anche questa è spesso una lettura sgradevole. Perry mi chiarisce che solo una volta una partner l’ha scaricato, circostanza che lui non ha preso troppo bene: «Ho acceso delle candele in casa e ci ho bevuto sopra come se non esistesse un domani, per circa due anni». La sua collaudata routine è sempre consistita, invece, nel prevenire questa possibilità. Lasciava le compagne prima che potessero farlo loro. Una strategia studiata per ovviare a un rifiuto che temeva potesse «annichilirlo», riportando fedelmente la parola che ha usato.

Perry mi spiega con estrema precisione il meccanismo: «Le mollo perché ho un terrore mortale di vederle arrivare a scoprire che non sono abbastanza, sono poco importante e troppo bisognoso. Temo di essere scaricato e che la cosa mi annienterà, così dovrò ricorrere ai farmaci e questo mi ucciderà. È il motivo per cui rompo con le donne meravigliose incrociate durante il mio cammino. Sai, non voglio essere drammatico quando affermo che esistono 10 donne sulla faccia del pianeta per le quali ucciderei pur di sposarle. Donne con cui sono uscito e che ho lasciato. Adesso sono andate avanti con la propria vita, sono sposate e hanno dei figli. Non devi guardare nello specchietto retrovisore perché altrimenti distruggi la macchina. Io, però, ci ho guardato e ho pensato: sono andate. Vivono tutte felici ed è fantastico, ma sono io quello che è rimasto seduto nella sala di un cinema da solo. Quando ci penso non esiste momento in cui mi senta più solo».

Nel libro non cita la maggior parte delle donne entrate e poi uscite dalla sua vita, ma ci sono eccezioni. Per esempio, riferisce en passant di un breve incontro avvenuto prima che Friends andasse in onda per la prima volta: «pomiciate e petting in un armadio con Gwyneth Paltrow». Quando parlo di questa circostanza a Perry durante la cena, lui commenta: «Spero che troverà carina la storia… sarebbe brutto se Gwyneth Paltrow mi odiasse; mi dispiacerebbe». I lettori appassionati di Friends saranno presumibilmente interessati a una relazione che non si è concretizzata. Nel libro, l’attore rivela che lui e Jennifer Aniston si erano incontrati tramite conoscenti tre anni prima di Friends. Perry le aveva chiesto di uscire, ma era stato respinto. Dopo averla ritrovata nella sua stessa serie, l’interesse si riaccese. «Mi resi conto di avere ancora una bella cotta per Jennifer Aniston», scrive. «I nostri saluti divennero strani. E mi chiedevo: “Per quanto tempo posso guardarla? Tre secondi saranno troppi?”. Fu una cotta divertente che non è mai stata presa veramente sul serio», mi dice, a «causa di un imbarazzante disinteresse da parte sua. E non è che la desiderassi. Pensavo solo che fosse bella e fantastica; quindi, avevo una sorta di cotta da ragazzino per lei. Poi svanì, sai com’è. Dopo si sposò e mi dissi: “Beh, basta così, ci metto subito una bella croce sopra”». 
(Nota storica: Aniston iniziò a uscire con il futuro marito, Brad Pitt, prima della quinta stagione di Friends)

Chiedo a Perry se abbia mai rivelato a Aniston cosa provava.

«No».

Che cosa penserà scoprendolo?

«Ne sarà lusingata», suggerisce, «e capirà».

Lisa Kudrow ha scritto l’introduzione del suo libro dove spiega che è «la prima volta in cui comprende com’è veramente vivere con e sopravvivere alla dipendenza», ma Perry precisa che gli altri coprotagonisti non l’hanno letto. «E non penso che lo faranno», aggiunge. Esprimo in merito la mia incredulità. «Perché dovrebbero?» si chiede. «Non so. Sai a chi importerà? Interesserà a chi ha una dipendenza e ai fan di Friends. Al cast non fregherà più di tanto».

Il rapporto su cui Perry si sofferma di più è quello con Julia Roberts. Descrive il loro prolungato flirt iniziale via fax e lo riassume come un «corteggiamento incredibilmente romantico». Definisce il Capodanno 1995 passato insieme a Taos: «la giornata che vorrei rivivere all’infinito». Alla fine, però, secondo i suoi principi, Perry ha chiuso anche quella storia. «Non riesco neanche ad abbozzare la descrizione del suo sguardo», scrive, «la confusione dipinta sul suo viso».

Gli chiedo come lo abbia effettivamente detto alla Roberts.

«Eravamo in auto, inseguiti dai paparazzi», risponde, «e io dissi: “Voglio chiudere con te”. Perché pensavo che le piacesse abbassarsi a stare con uno della televisione. Poi quello della televisione l’ha mollata. L’ho fatto semplicemente per paura. Avevo bisogno di uscirne».

Quale fu la sua reazione immediata?

«Era arrabbiata. Non riusciva a crederci».

Ne hai parlato con lei da allora?

«No».

Ti è capitato di incontrarla?

«No, non è mai accaduto. Suppongo che sarebbe falsamente carina. Comunque, sono sicuro che ha superato la cosa».

Chiedo se la Roberts sa che racconterà questa storia nel libro.

«No, ma penso che sarà lusingata perché dico solo cose meravigliose su di lei. E il motivo per cui l’ho lasciata è dovuto a pura paura. Pensavo: mi scaricherà in qualsiasi momento, per cui devo probabilmente mollarla io per primo. È stata una decisione impulsiva dettata da timore e stupidità. Però, l’ho fatto».

Camicia Zegna at Neiman Marcus. T-shirt Hiro Clark


Un elemento fondamentale nella comprensione conquistata con tanta fatica da Perry su cosa lo affligge è che non si tratta di un difetto caratteriale o di una debolezza, ma di una malattia.

«Questo è l’alcolismo», afferma. «Non fa distinzioni tra il super ricco e il tizio che vive in una casa popolare. Se ne frega. Si insinua a caso in chiunque abbia quel gene. Desidero che questo messaggio arrivi là fuori». In un certo senso, le parti del suo libro più toccanti da leggere sono quando torna ripetutamente sul tema delle cose a cui rinuncerebbe pur di non essere com’è: «Rinuncerei a tutto il denaro, tutta la fama, tutti i beni… pur di non avere questa malattia, questa dipendenza». Ho l’impressione che continui a dirlo in modi diversi perché sa molto bene quanto sia difficile per le persone credergli e lui desidera esattamente una cosa: essere preso sul serio.

Quando gli chiedo se ritiene ingiusto essersi trovato a vivere con un cervello così, la sua risposta arriva rapida e ferma. «Sì», ammette. «È così». 

Gli chiedo quali altre siamo le concezioni errate che la gente ha di lui.

«Pensano che io sia un debole», risponde. «Reputano che io voglia divertirmi in continuazione. Che io non sia dotato di alcuna forza di volontà. Sai, tutti i soliti pregiudizi su chi ha una dipendenza». Gli piace immaginare un mondo dove sarà ricordato meno per Friends, «Che pure è stata un’esperienza assolutamente meravigliosa» e più per aver aiutato altri a disintossicarsi.

Attualmente, gioca molto a pickleball, esce con gli amici, si tiene in forma e va al cinema. E a volte scrive. A parte questo libro che ho il sospetto possa lasciare un segno più profondo di quanto ora lui possa immaginare, ha scritto per la televisione e un lavoro teatrale che è stato prodotto a Londra e New York. Recentemente ha lavorato al copione di un film, One Year Later, che vuole dirigere, in cui un uomo e una donna si lasciano e lei sta per sposare «l’uomo sbagliato». 
Quando lo ha scritto, ha immaginato di interpretare il ruolo dell’uomo giusto. «Poi mi sono reso conto che avevo 20 anni di troppo per la parte», dice ridendo. «Perché questi sono errori che fanno i trentenni non i cinquantatreenni». 
Non i tipici cinquantatreenni, intende. «Io li faccio!», precisa.

Anche se, ora, nella vita crede di avere capito abbastanza su «queste paure di fondo» perché gli errori del passato non devono determinare il futuro. «Ci sono voluti decenni, ma ci sono riuscito», dichiara. «Credo di essere abbastanza, di non essere troppo bisognoso e di essere importante». Di conseguenza adesso può fare questa affermazione: «So che la prossima persona con cui uscirò, se andrà bene, sarà significativa, perché non sono più invischiato in quel genere di paure. Posso sperarci. Non sono a caccia o cose del genere, ma se accadesse sarebbe bello». Gli piacerebbe mettere su famiglia. «Penso che sarei un papà fantastico e oggi anche un buon marito. La stessa cosa non era possibile in passato». Perry mi confida che potrebbe dire di non essere mai stato così felice. Arriva perfino a quantificarlo con un 7 su una scala da 1 a 10. «Che è probabilmente il massimo a cui arriverò mai», chiosa. «Forse se avessi un figlio potrei salire più su».

Mi ragguaglia invece su alcuni segnali in grado di indicare che le cose stanno andando nella direzione sbagliata.

«Ci sono piccoli indizi», spiega. «Se qualcuno mi chiede “Come stai?” e io rispondo “Bene”, allora vuol dire che sono nei guai. Quando mi faccio crescere un pizzetto bello folto, significa che le cose si sono messe proprio male». 
Quali sono gli altri segni rivelatori?

«Troppo magro. Troppo grasso. Cadere giù da qualche rampa di scale. Cose di questo genere».

Inizia a descrivere che cosa potrebbe accadere. «Tipo, se adesso decidessi di prendere l’OxyContin: prima di tutto, non lo farei per via della paura della sacca per colostomia, ma se invece decidessi di prendere degli oppiacei, dei narcotici, il Vicodin, uno di quelli, passerei un mese molto, ma molto bello, perché ti danno energia e ti fanno sentire bene. Passerei un mese fantastico. E poi sarei completamente fottuto».

Il solo fatto di sentire Perry che scandisce queste parole ad alta voce in modo così dettagliato è abbastanza allarmante da indurmi a dire d’impulso: “Per favore no”. 
«Non succederà», rassicura.


PRODUCTION CREDITS:
Foto di Ryan Pfluger
Styling di Andrew Vottero
Hair Sierra Kener per 901 Artists
Grooming Sonia Lee per Exclusive Artists con prodotti La Mer e Oribe
Tailoring Yelena Travkina
Produzione di Annee Elliot Productions