Silvio 1

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La vita vera di Berlusconi
Prima edizione Guzzanti vs Berlusconi © 2009 Aliberti editore

Nuova edizione rivista e aggiornata con il titolo Silvio. La vera vita di Berlusconi

Pubblicato per

Aliberti

da Comedit Srl

© 2023 Comedit Srl

Largo Marco Gerra, 3 – Reggio Emilia

Promozione e distribuzione EDIGITA

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I LIBRI DELLA SALAMANDRA EXTRA+
26

Compagnia editoriale Aliberti


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Inizio a scrivere alle nove e trentacinque di lunedì 12


giugno 2023, appena saputo della morte di Silvio
Berlusconi. Una morte che, per oltre tre mesi, ha respinto
recalcitrando e apparendo in un paio di video in cui si
nota drammaticamente lo sforzo fisico e il tentativo di
nascondere la sofferenza di una respirazione
compromessa: «Per voi mi sono messo per la prima volta
dopo mesi in giacca e camicia». Aveva passato una notte di
torpore e all’alba si è svegliato, ha chiesto aiuto, ma il suo
corpo non ne voleva più sapere. Un minuto dopo, tutto il
mondo sapeva, tutti i politici e tutti i giornali e telegiornali
commentavano l’uscita di scena di Silvio Berlusconi.
L’avevo visto per l’ultima volta il 3 marzo 2023, nella sua
villa di Arcore dove ero stato altre tre volte in trent’anni.
La prima fu quando mi mostrò dalla finestra del suo
salotto dei distinti signori che oscillavano in giardino con
dei calici in mano. Mi fecero l’effetto di fenicotteri, ma
erano illustri professori e politologi, oltre che giornalisti e
parlamentari, che avevano scelto di giocare la sua partita.
Berlusconi aveva radunato un gruppo di persone di
varia origine e molte qualità, fra cui il filosofo comunista
Lucio Colletti e tanti altri. Sussurrò anche a me il
segretissimo nome che aveva creato per il nuovo partito:
Forza Italia. «Non è geniale?» Risposi con una smorfia
abbozzando un vago sorriso. No, non mi sembrava geniale
un partito che si chiamasse Forza Italia. Ero snob e i fatti
gli dettero ragione: quel nome da stadio e da tifoseria
nazional-popolare ebbe un immediato e poi lunghissimo
successo. I detrattori lo definirono «partito di plastica» e la
sinistra in genere si dedicò con i suoi giornali a rendere
ridicola, goffa, vagamente indecente quella formazione
politica messa su in quattro e quattr’otto che diventò l’asse
di una alleanza impensabile, impossibile, contro tutte le
leggi della politica.
E che però funzionò benissimo, mettendo dalla stessa
parte, senza collegarli direttamente, gli ex neofascisti di
Gianfranco Fini, che aveva chiuso i battenti del MSI, con i
separatisti della Lega Nord di Umberto Bossi: un partito
sostenuto dal politologo Gianfranco Miglio, cultore dei
seguaci di Max Weber, Carl Schmitt e del federalismo di
Carlo Cattaneo, che voleva andarsene dall’Italia al grido di
«Roma ladrona!», mandare al diavolo i terroni del Sud che
sbafano le ricchezze prodotte dal laborioso Nord.
Ex fascisti e leghisti si odiavano a morte e Berlusconi
organizzò un meccanismo di alleanze geniale che
funzionava in un modo al Nord e in altro al Sud, con
Forza Italia nel mezzo che faceva da catalizzatore. Forza
Italia era nata nella mente di Berlusconi come erede dei
grandi e piccoli partiti che avevano ricostruito l’Italia
repubblicana e che erano stati spazzati via in pochi mesi
da un’inchiesta giudiziaria dal nome “Mani pulite” che già
esisteva sui fascicoli di molti procuratori americani come
“Clean hands”, un progetto di ripristino della legalità
contro la corruzione e la mafia, cui aveva partecipato
anche Giovanni Falcone e negli Stati Uniti il procuratore
Rudolph Giuliani, che poi sarà l’eroico sindaco di New
York, colpita l’11 settembre del 2001 dagli attentati dei
terroristi di al-Quaeda.
Quell’inchiesta iniziò il 17 febbraio del 1992, quando il
pubblico ministero Antonio Di Pietro chiese e ottenne un
ordine di cattura per l’ingegnere Mario Chiesa, presidente
del Pio Albergo Trivulzio. Nessuno poteva immaginare
che da quell’arresto sarebbe seguita quel giorno la
chiusura di tutti i partiti storici della Repubblica italiana,
salvo quello comunista, che però cambiò nome, dal
momento che si era dissolta l’Unione Sovietica.
Ma sparirono, dopo lunga agonia, la Democrazia
cristiana, il Partito socialista di Bettino Craxi, che si andò a
rifugiare e a morire in Tunisia, il Partito socialdemocratico
e quello liberale. La Repubblica era stata decapitata. Da
allora molti pensarono e pensano che quella eliminazione
di una intera classe politica che aveva governato per quasi
quarant’anni non fosse casuale ma che dietro ci fosse, se
non un complotto, almeno un piano politico: essendo
finita (così allora si pensava) la Guerra fredda e il
conseguente divieto nei Paesi della NATO di portare dei
ministri comunisti al governo, la cosa più ragionevole
pareva essere quella di favorire una vittoria elettorale
dell’ex PCI trasformatosi in PDS.
Non soltanto l’imprenditore Silvio Berlusconi, ma gran
parte dell’imprenditoria italiana, entrò in allarme insieme
a quella larga e maggioritaria parte del Paese che, senza
essere di destra, non aveva mai visto di buon occhio una
politica dirigista con la vocazione naturale della pressione
fiscale.
Berlusconi si dette da fare con tutti i politici con cui era
in confidenza per cercare una nuova alleanza capace di
esprimere un governo che favorisse la produzione della
ricchezza, anziché la sua confisca. Ma non ci riuscì. Era
sulla cresta dell’onda, in quel momento, il democristiano
Mario Segni, figlio del presidente della Repubblica
Antonio Segni. Ma nella fase finale della vita della
Democrazia cristiana prevaleva l’idea di mettere insieme
una maggioranza di sinistra per un governo di sinistra.
Berlusconi si rendeva conto che la maggioranza degli
italiani – come poi le urne confermarono – non era affatto
di questa idea e soltanto quando dovette prendere atto che
non ci sarebbe stata alcuna alternativa a un futuro governo
guidato dagli stessi uomini e donne del PCI, prese la
decisione di «scendere in campo», giocare la partita con
chi ci stava, preparandosi a una guerra su due fronti. Il
primo, quello di battere la «gioiosa macchina da guerra» di
Achille Occhetto, ultimo segretario del PCI, e dei suoi
alleati della sinistra democristiana. Il secondo fronte
sarebbe stato quello della compattezza della sua
maggioranza, che infatti non fu mai raggiunta e mai
consolidata e che gli dette molto filo da torcere nei suoi
quattro governi. Per di più, l’inchiesta Mani pulite aveva
scatenato nel Paese un gran sommovimento giustizialista e
l’accusa feroce e generica secondo cui i politici sono tutti
ladri, che poi darà spazio al movimento creato da Beppe
Grillo. Ma le televisioni e i giornali vicini a Berlusconi si
abbandonarono all’opinione prevalente secondo cui «i
partiti sono guidati da ladri».
Berlusconi quindi decise che il suo nuovo partito, Forza
Italia, non sarebbe stato un partito, ma un movimento,
almeno finché non si fosse cicatrizzata la ferita inferta
dalla magistratura.
Così nacque il nuovo soggetto politico concepito dal
dinamicissimo imprenditore Berlusconi, un uomo che
aveva lavorato come intrattenitore sulle navi da crociera,
cantando e suonando le canzoni di Charles Trenet. Aveva
cominciato come costruttore di Milano Due, poi era
passato alle televisioni e alla finanza. Di colpo, o quasi,
conquistò la maggioranza dei voti degli italiani ed entrò a
Palazzo Chigi, nuovo protagonista assoluto della politica
italiana.
È un protagonista – come si dice oggi – divisivo, nel
senso che ha funzionato come il test di Rorschach, quello
delle macchie d’inchiostro. Le macchie non significano
nulla, ma chi le guarda può vedere ciò che affiora dalla sua
mente. Da ciò che la gente vede nelle macchie, gli
psicologi traggono informazioni sulle persone, non sulle
macchie. Berlusconi è stato tutt’altro che una macchia
d’inchiostro insignificante, ma la gente lo ha amato,
odiato, disprezzato, perdonato, adorato sulla base di ciò
che Berlusconi ha significato per ciascun italiano.
Per lui è stata recuperata la figura già nota
dell’Arcitaliano, che più italiano di così non è possibile: le
donne, il calcio, le barzellette scollacciate, l’ingegno, il
colpo di testa e la letale convinzione secondo cui tutto sia
perdonabile in nome della simpatia. Berlusconi è stato
anche questo.
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Siamo rimasti amici fino all’ultimo, anche dopo il mio


abbandono di Forza Italia, che mi costò ovviamente il
seggio al Parlamento della Repubblica e, dopo tredici anni
al Senato e alla Camera, mi ha riportato a vivere del mio
vecchio lavoro artigiano. Scrivo cronache, alcuni libri e
dipingo qualche quadro. D’altra parte, anche io come
molti, ma non moltissimi, sono un buon testimone.
Quando vidi Berlusconi per l’ultima volta, il 3 marzo di
questo 2023, arrivai dalla Stazione Centrale di Milano, mi
aprirono dalla portineria e due cagnetti mi corsero
incontro abbaiando. In casa trovai Silvio Berlusconi e la
sua amatissima Marta seduti su un divano e lo vidi segnato
dalla sofferenza. Chiacchierammo per un po’ e disse di
sentirsi molto male, ma non accennò alla morte. Occhiaie
profonde, un malumore che lo distraeva e scatti di
insofferenza quando si veniva alla guerra in Ucraina.
«Questi sono pazzi», disse senza specificare a chi si
riferisse, «sono pazzi completi a credere di poter
contenere Vladimir Putin e insegnargli la buona
educazione inviando sempre più armi agli ucraini. Loro
non sanno che Vladimir non si potrà arrendere mai, e che
se lo costringeranno ad arrendersi lui non alzerà le mani,
ma spingerà un tasto rosso e sarà la fine del mondo: muoia
Sansone con tutti i filistei».
Questa dichiarazione-dossier esplicita mi ha raggelato il
sangue perché suppongo che Berlusconi conosca piuttosto
bene il suo amico Vladimir. Ma non faccio in tempo a
fargli una domanda perché lui, con un gesto vago e ampio
del braccio destro, indica la vetrata e il fuori, il giardino,
quel po’ di cielo che si ritaglia tra le mura. «Ho due
alternative per il futuro. La prima è trasferirmi, armi e
bagagli con la mia famiglia, in Australia, e metterci lì al
sicuro. Oppure, guarda, vedi quella casetta? Lì potrei fare
l’ingresso di un grande rifugio atomico in cui campare per
anni. Ma la verità è che non abbiamo tempo né per
trasferirci in Australia né per scavare un buco sottoterra».
La conversazione a questo punto si ingessò perché
eravamo tornati alle ragioni della nostra antica rottura che
avvenne nel 2008, quando Putin, o meglio l’armata russa,
entrò in uno Stato sovrano che si chiama Georgia e
cominciò a occuparlo. Io ero allora membro della Camera,
dopo sette anni di Senato, e uscivo da un’esperienza
terribile, passata per lo più inosservata – perché da
qualche parte così fu deciso – in cui persi alcuni uomini
che conoscevo e altri che non ho mai visto ma che furono
uccisi in Russia per aver aiutato Alexander Litvinenko a
fornire le informazioni disponibili sull’atteggiamento di
Putin nei confronti dell’inchiesta del Parlamento italiano.
Fu allora che Berlusconi convocò nella sala del
Mappamondo tutti i gruppi della sua maggioranza alla
Camera e al Senato per riferirci sulle nuove iniziative del
suo governo. Soltanto verso la fine disse parole che non
dimenticherò mai e che mi spinsero ad andarmene. Disse:
«Il mio amico Vladimir mi ha detto che quando avrà preso
il presidente georgiano Saakashvili lo inchioderà per le
palle contro un albero».
Io uscii dalla porta e, in quel partito, fui di fatto l’unico
parlamentare italiano, sia di destra che di sinistra, a
ribellarsi apertamente contro quella che mi sembrava
un’oscena novità dopo la fine della Seconda guerra
mondiale: e cioè che uno Stato sovrano con la bandiera e
l’esercito con le uniformi oltrepassi la frontiera di un altro
Stato sovrano limitrofo e lo invada per derubarlo del suo
territorio e delle sue ricchezze.
Quando, il 1° settembre del 1939, l’esercito tedesco varcò
la frontiera della Polonia, seguito due settimane dopo
dall’esercito sovietico, si innescò quel catastrofico evento
che è stato la Seconda guerra mondiale. Ma in realtà
nessuno aveva idea che quell’invasione, una delle tante,
fosse l’inizio della più grande catastrofe dell’umanità.
Accadde che la Francia e l’Inghilterra, allora, avendo dato
la loro parola ai polacchi, che sarebbero intervenuti in
caso di aggressione, dichiararono guerra alla Germania.
Quella guerra, benché dichiarata, per alcuni mesi fu
chiamata la strana guerra, drôle de guerre, funny war.
Ma i pacifisti dei pochi Paesi liberi e democratici come
la Francia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti si indignarono
moltissimo. Non per l’invasione nazista e sovietica della
Polonia, ma per le dichiarazioni di guerra, peraltro
svogliate, di Parigi e Londra. Un’altra guerra? Con qualche
analogia con ciò che accadde durante l’invasione russa
dell’Ucraina, i pacifisti sostennero che fosse criminale
opporre le armi a Hitler, mentre tutti i partiti comunisti
occidentali, seguendo le direttive di Iosif Stalin, si
schierarono con i tedeschi. Contro la democrazia francese
e gli imperialisti inglesi.
Il Partito comunista francese fu messo al bando in
Francia per alto tradimento e la Resistenza comincerà
soltanto quando Hitler, cogliendo di sorpresa Stalin,
invaderà l’Unione Sovietica. Come finì, lo sappiamo: gli
invasi russi esercitarono il diritto di inseguire gli invasori
fino a Berlino, dove Hitler si suicidò. Ma da allora, benché
ci siano state guerre e guerriglie di ogni genere, non era
più accaduto che uno Stato sovrano invadesse un altro
Stato sovrano. O meglio: ci fu un caso, quello
dell’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam
Hussein. In quel caso l’ONU decise di intervenire
militarmente affinché fosse ribadito il principio per cui
non è consentito a uno Stato di invaderne un altro per
occuparlo e depredarlo.
Così, per la prima volta dopo tanti anni dalla nostra
rottura, accennai al fatto che Vladimir Putin non fosse
nuovo a imprese come quella dell’Ucraina, perché l’aveva
già fatto nel 2008 invadendo la Georgia, di cui ha catturato
illegalmente due regioni.
Berlusconi, stupendomi, mi volle raccontare come
andarono le cose nel 2008: «La guerra contro la Georgia la
fermai io», disse. «Era accaduta una cosa gravissima: dalla
Georgia era stata sparata una cannonata che si abbatté su
una festa di nozze in cui morirono gli sposi e molti
invitati. L’opinione pubblica inferocita chiese a Putin di
dare una lezione ai georgiani e lui si mosse, ma io riuscii a
bloccarlo. “Vladimir”, gli dissi, “se non ti fermi subito, te la
faranno pagare cara: diranno che tu vuoi ingrandirti con le
guerre e troveranno ogni pretesto per colpirti. Credi a me,
credi al tuo amico Silvio: ritira le tue truppe”». E, ricordava
Berlusconi, Putin ritirò le sue truppe. Salvo quelle ancora
in Abkhazia e Ossezia.
Ma penso che il motivo di questa versione dei fatti
nascesse da una profonda amarezza: quella di non aver
ricevuto dal governo Meloni un ruolo con cui spendere la
propria influenza su Putin per mettere fine alla guerra in
Ucraina. Si aspettava di essere eletto presidente del Senato
per poter usare il ruolo di seconda autorità dello Stato. Ne
era certo, e quando vide Ignazio La Russa eletto alla prima
votazione – quella che in genere va a vuoto perché i partiti
votano il loro candidato di bandiera – si sentì tradito.
«Sai come è fatto Putin: lui non può sentirsi sconfitto. E
quale altra arma avrebbe se non la bomba atomica? Muoia
Sansone con tutti i filistei. Ecco che cosa temo. Seguitano a
mandare armi a Kiev, ma fanno un errore catastrofico.
Stavo pensando se fosse meglio andare in Australia oppure
farmi fare lì in giardino un rifugio antiatomico con tutti i
comfort. Ma non abbiamo più tempo».
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Berlusconi è stato messo sotto processo trenta volte e


condannato in una, con l’accusa di non aver dichiarato
all’Agenzia delle Entrate una plusvalenza su una serie di
film, mentre era presidente del Consiglio. Lui ha sempre
negato e la cifra della presunta evasione è molto inferiore
alle tasse che paga ogni anno, ma comunque fu
condannato e, sulla base di quella condanna, usando in
modo retroattivo la legge Severino che non ammette
condannati nel Parlamento, fu letteralmente cacciato da
Palazzo Madama. Fu emesso un decreto di «non convalida
dell’elezione» del senatore Silvio Berlusconi. Il quale,
degradato come il capitano Dreyfus, fu espulso con grande
gioia per tutti coloro che lo detestavano.
Il presidente del Senato Pietro Grasso, ex magistrato,
lesse con voce monotona: «Approvate le conclusioni della
Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari nel
senso di dichiarare la mancata convalida dell’elezione del
senatore Silvio Berlusconi, proclamato nella Regione
Molise, il presidente del Senato dichiara Silvio Berlusconi
decaduto dalla carica di senatore, estromesso dal
Parlamento». Berlusconi scelse di non essere in aula. La
seduta che decise la fine del ruolo di «eletto dal popolo»
durò oltre sette ore, con gli Azzurri di Forza Italia che si
succedevano al microfono e parlavano quasi solo loro per
contestare la retroattività di una legge, la legge Severino,
che dichiara decaduto un condannato.
Va ricordato che il suo primo governo, nato l’11 maggio
del 1994, durò meno di un anno, perché mentre
presiedeva a Napoli una riunione internazionale per la
lotta alla criminalità, ricevette un avviso di garanzia
pubblicato dal «Corriere della Sera», per reati di
criminalità gravissimi. Quelle accuse furono poi dichiarate
totalmente inesistenti, ma il suo primo governo cadde e i
lettori troveranno in queste pagine una sezione antologica
di tutte le accuse, insulti e dichiarazioni di guerra del suo
alleato più importante, Umberto Bossi, capo della Lega
Nord, che gli dette apertamente del criminale mafioso. Poi
si rappacificarono, anni dopo, ma intanto il governo cadde
e il Quirinale non concesse le elezioni anticipate come
sarebbe accaduto in ogni democrazia, ma fu fatto nascere
un governo tecnico guidato da Lamberto Dini. Quando
poi si arrivò finalmente alle elezioni, per pochi voti le
vinse Prodi, poi sostituito da Massimo D’Alema. Fu quello
il momento più basso della carriera politica del Cavalier
Berlusconi: aveva creato un partito dal nulla, messo
insieme un’alleanza che per chiunque sarebbe stata
impossibile, aveva ricevuto un avviso di garanzia
pubblicato su un giornale, era stato costretto alle
dimissioni e poi, dopo un lungo processo di
raffreddamento, sconfitto alle urne. Si rifarà nel 2001,
tornando a vincere, ma è innegabile che contro di lui siano
stati messi in atto trappole e stratagemmi che non si erano
mai visti nella storia della Repubblica.
Sull’anticomunismo di Berlusconi, bisogna fare, per
poterlo comprendere nel contesto di quegli anni, un passo
indietro. Il Partito comunista italiano, guidato dal
carismatico Berlinguer, non smise mai di farsi finanziare
dall’Unione Sovietica. La cerimonia con cui avveniva la
consegna del tesoro di Mosca è stata narrata altre volte, ma
fa bene ricordarla. Ogni anno un esponente di livello
medio-alto del Partito comunista partiva dalla sede delle
Botteghe Oscure a Roma per prendere un volo per Mosca
e presentarsi davanti al signor Ponomariov. Questo
eminente politico russo accoglieva l’emissario del partito
fratello italiano, prendeva in consegna la valigia vuota che
quello gli aveva portato per poi restituirgliela piena di
dollari e salutarlo dopo il rituale abbraccio. Una volta a
Roma, l’emissario del Partito comunista italiano trovava
ad attenderlo, con modi cortesi e burocratici, due agenti
del Tesoro degli Stati Uniti e un paio di funzionari del
ministero degli Interni. Gli agenti del Tesoro americani
dovevano soltanto controllare che i dollari venuti da
Mosca non fossero falsi. Dopodiché salutavano e
tornavano a Washington. I funzionari del ministero degli
Interni accompagnavano il funzionario comunista in
Vaticano presso la banca della Santa sede, nota come IOR, e
guidata per molti anni dal cardinal Marcinkus. Lì i dollari
erano cambiati in lire con un vantaggioso tasso di cambio
e finalmente potevano raggiungere la sede del PCI da cui la
valigia era partita.
Se qualcuno dei tre giovani lettori avesse dubbi sulla
veridicità di questo rito annuale potrebbe controllarlo
facilmente perché sono stati stampati centinaia di articoli e
la questione non è controversa. A me la raccontò
personalmente il presidente della Repubblica emerito
Francesco Cossiga, il quale era stato mandato più volte
come rappresentante del Viminale a vegliare sulla
perfezione di questo crimine. I milioni di dollari venuti da
Mosca permettevano una più che decorosa vita al Partito
comunista con tutte le sue strutture e per formidabili
campagne elettorali.
Le campagne elettorali sono la maggiore spesa di
qualsiasi partito di ogni democrazia del mondo perché le
spese di propaganda sono enormi e perché sulla
propaganda, che spesso si vince o si perde, nel maggio del
2023 l’ex presidente della Repubblica francese Nicolas
Sarkozy è stato condannato a un anno di reclusione reale,
ai domiciliari, con braccialetto elettronico, per un reato
connesso ai finanziamenti libici che gli permisero di
conquistare l’Eliseo nel 2007.
Avrebbero, i partiti italiani, taglieggiato tutte le fonti
economiche per incassare il denaro indispensabile se il
Partito comunista non fosse stato un concorrente così
sleale e avvantaggiato da una pratica contro la legge? Non
lo sappiamo. Ma sappiamo come andarono realmente le
cose. E qui il lettore mi perdonerà se sono costretto a
citare me stesso, ma quel che mi accadde come giornalista,
e per puro caso, spiega tutto.
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Era il 1980, mancavano dodici anni all’inizio


dell’inchiesta Mani pulite, dopo la pretesa scoperta di
Tangentopoli. Ero allora un giornalista de «la Repubblica»
e il direttore Eugenio Scalfari mi chiese di intervistare
l’allora ministro della Marina mercantile Franco
Evangelisti, il quale, oltre che ministro, era l’uomo
operativo, il braccio destro di Giulio Andreotti,
impegnatissimo a trovare l’accordo per il famoso
compromesso storico con Enrico Berlinguer. Evangelisti
non trattava direttamente con Berlinguer perché il PCI era
rappresentato da Tonino Tatò.
L’ufficio di Eugenio Scalfari, nella redazione de «la
Repubblica», in piazza Indipendenza a Roma, era la torre
di comando di quella operazione politica che avveniva
sotto i nostri occhi e in particolare le nostre orecchie. E io
avrei dovuto intervistare Evangelisti per consentirgli di
ribattere alle accuse emerse ai margini di uno scandalo da
cui erano saltati fuori dei suoi assegni. Andai dunque nella
sede del ministero della Marina, all’EUR, dove con mia
grande sorpresa il ministro Evangelisti mi aspettava
festosamente nell’androne del grande palazzo bianco.
Quella che sto per raccontare è una storia fondamentale
per capire che cosa sia successo alla Repubblica italiana
prima che si disfacesse l’Unione Sovietica che, fino
all’ultimo, restò il dante causa del Partito comunista
italiano. È talmente importante, e anche grottesca, che l’ho
trasformata in un atto unico al teatro Brancaccino di
Roma per raccontarla a un pubblico che si divertiva per i
molti aspetti grotteschi, ma cui forse sfuggiva l’enormità
storica della pagliacciata che mi era accaduta.
Il lettore si starà chiedendo in che modo quell’intervista
abbia a che fare con la persona e la storia di Silvio
Berlusconi. C’entra, e chiedo un po’ di pazienza. Ma voglio
anticipare un elemento inconsueto che riguarda il vecchio
cancro dei finanziamenti illeciti, che riguarda peraltro
tutte le democrazie del mondo. Non c’è partito, in Italia
ma anche in Europa o negli Stati Uniti, in cui non avvenga
– ignoro che cosa accade in Australia e in Nuova Zelanda,
ma più o meno, ovunque esiste una democrazia, ci sono
dei politici che cercano di mungere soldi legalmente o
illegalmente per vivere come politici in carriera e per
alimentare il loro partito.
In ogni Paese esistono leggi che limitano la quantità di
denaro che può essere legalmente usata per la vita politica
ed elettorale, e varcare quel limite significa commettere
un reato. Chi ha vissuto la stagione di Tangentopoli e di
Mani pulite ricorderà il ritornello «ho rubato, ma solo per
il partito», particolarmente ben noto nell’ex Partito
comunista. Ebbene, Silvio Berlusconi, essendo un ricco
imprenditore che si è dato alla politica, non ha mai potuto
essere accusato di aver rastrellato soldi, ma semmai di
averne dati.
Non si tratta di un dettaglio: qualsiasi politico e qualsiasi
partito abbiano chiesto e ottenuto finanziamenti al di fuori
di quanto stabilisce la legge lo hanno fatto contraendo
debiti politici o attraverso l’estorsione, cioè ricattando la
fonte economica di ritorsioni se non avesse pagato.
All’epoca della mia intervista a Franco Evangelisti, nel
1980, era ancora in vigore la legge che erogava un
finanziamento pubblico rilevante a tutti i partiti in
maniera proporzionale alla loro consistenza in voti
ottenuti e rappresentanti in Parlamento. Ma ogni partito,
oltre a prendere i fondi che lo Stato gli destinava a spese
dell’elettore nonché contribuente, si dava da fare per
raccattare somme ulteriori totalmente illecite, per
aumentare la propria influenza politica o per sostenere
l’alto livello di vita dei suoi dirigenti.
Ma nessun partito, nessun dirigente politico, nessun
analista politico, nessun moralista politico e nessun
magistrato della Repubblica aveva alcunché da ridire
benché la legge forse beffata ogni giorno da tutti. Su
questo tema, come il lettore saprà, il segretario del Partito
socialista italiano Bettino Craxi pronunciò uno dei più
famosi discorsi del Parlamento repubblicano chiamando
in correo tutte le forze politiche presenti, sfidando
ciascuna e tutte insieme a negare la verità di quel che
andava affermando. Tutti i partiti si erano comportati
nello stesso modo e lo avevano fatto con un alibi codardo
e di cartapesta che si può così riassumere: ma se il Partito
comunista italiano è autorizzato a commettere un reato
annuale sotto gli occhi e con la protezione del governo
della Repubblica, con cui si riempie le casse con soldi
versati da uno Stato straniero come sostegno fraterno allo
scopo di favorire una conquista della vittoria elettorale
democratica su cui l’Occidente non avesse potuto avere
nulla da ridire?
Torniamo dunque un attimo a quel grottesco episodio
dell’incontro tra me e Franco Evangelisti, braccio destro di
Andreotti. Perché questa storia abbia un senso vogliate
sapere che Giulio Andreotti era un amico di famiglia da
quando sua madre Rosa e la mia nonna materna Amelia
frequentavano il collegio degli orfani in via degli Orfani in
cui sia Giulio che mio zio Fausto studiavano grazie a una
borsa di studio per aver perso precocemente il padre.
Anche mio padre diventò amico di Andreotti.
Franco Evangelisti corse ad abbracciarmi gridando in
ruspante romanesco: «A Guzza’, noi due non se semo mai
conosciuti, però lo sai che tuo padre e Giulio so’ amici
fraterni». Mi fece riporre il taccuino con cui volevo
prendere gli appunti dicendomi che l’intervista l’avremmo
fatta dopo, ma che intanto mi voleva dare il “background”
e sintetizzò in poche parole: «A Guzza’! Qui avemo
rubbato tutti. Tutti!»
E poi spiegò il sistema che sarebbe emerso soltanto
dodici anni dopo con il prefabbricato scandalo di
Tangentopoli cui fu applicato il protocollo già noto con il
titolo inglese “Clean hands”, Mani pulite. Evangelisti
spiegò per filo e per segno come imprenditori di buon
portafoglio usassero fare il giro delle segreterie dei partiti
per rilasciare assegni la cui consistenza andava specificata
dopo la domanda: «A Fra’, che ti serve?»
Io obiettai che c’era un’attività del tutto illegale, visto che
c’era il finanziamento pubblico, e lui rispose che il
finanziamento pubblico faceva ridere rispetto alle reali
esigenze di uomini e partiti, anche perché la competizione
era gravemente alterata dal fatto che il competitor
comunista disponeva di fondi illimitati anche se poi li
faceva comparire nei bilanci sotto la voce “salamelle” e
sottoscrizioni promosse da «l’Unità», quotidiano storico
del PCI. Poi mi disse che potevo scrivere la vera intervista
da pubblicare e me l’ha detto: «Sì, è vero, c’è da rimettere
ordine nei contributi ai partiti, ma si tratta di dettagli».
Tornai in redazione e ovviamente scrissi il dialogo reale
tra Evangelisti e me e il giorno dopo scoppiò uno scandalo
giornalistico e politico che dominò le prime pagine. Ma,
curiosamente, ciò che fu imputato a Franco Evangelisti e
per cui poco dopo fu costretto a dimettersi e sparire dal
mondo politico, non fu la normalità della corruzione della
concussione, nulla che avesse a che fare con la futura
Tangentopoli. Tutti i partiti, in particolare quello
comunista con tutti i suoi intellettuali, erano
profondamente irritati e, anzi, furiosi, non per le
rivelazioni del ministro ma per la sua volgarità: quell’uso
del romanesco arrogante, quel tono di comando della
Democrazia cristiana.
Nel 1980, dunque, era tutto chiaro. Tutti sapevano e
confermavano, ma erano molto scandalizzati dall’uso del
romanesco del ministro Evangelisti. Anche Craxi nel suo
famoso intervento alla Camera confermò che tutto
avveniva ed era sempre avvenuto in un contesto in cui il
PCI violava le leggi facendosi finanziare da Mosca e
alterando il risultato elettorale. Ma questa anomalia nota e
accettata aveva consentito a tutti i partiti e ai singoli
politici di finanziarsi come meglio pareva loro, compreso
il PCI, che riceveva volentieri donazioni di gradi industriali.
Poi venne il Muro di Berlino e la (erronea) fine della
Guerra fredda. Dunque, cadeva l’interdizione contro i
comunisti al governo, visto che l’Unione Sovietica era
caduta, e poi fu montata una ghigliottina giudiziaria che
fece fuori tutti i partiti repubblicani.
È da qui che comincia la storia di Berlusconi, così come
abbiamo cercato sommariamente di ricordarla in queste
pagine, scritte mentre sono in corso i suoi funerali.
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%(5/86&21,

Il 6 maggio 2023 Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia,


dall’Ospedale San Raffaele di Milano, nel quale è ricoverato,
ripercorre, in un videomessaggio, le tappe della sua storia
personale e politica: dalla “discesa in campo” del 1994 alla
malattia, dalle idee per il futuro all’affetto degli Azzurri e degli
avversari politici. Il suo “testamento politico”, l’ultimo discorso
prima della scomparsa, avvenuta poco più di un mese dopo. Qui
di seguito riporto il discorso integrale di Silvio Berlusconi con il
mio commento1.

Eccomi, sono qui per voi, per la prima volta, dopo un


mese, con la camicia e la giacca. Qualche notte fa qui, al
San Raffaele, mi sono svegliato improvvisamente con una
domanda in testa che non riuscivo a mandare via: «Come
mai sono qui? Ma che ci faccio qui? Per cosa sto
combattendo io qui?» Vicino a me vegliava la mia Marta, e
anche a lei feci la stessa domanda: «Perché siamo qui?» E
lei mi disse: «Siamo qui perché hai lavorato tanto, forse
troppo, ti stai impegnando molto per salvare la nostra
democrazia e la nostra libertà».

Benché chiuso in una camera di ospedale e porti con grazia i


suoi anni, si parla ancora una volta di lui come dell’asso nella
manica, deus ex machina. E infatti si tratta proprio di una
macchina, quella della kermesse milanese che Silvio Berlusconi
ha testardamente voluto per riportare in vita l’autentico
originale spirito di Forza Italia. E non c’è dubbio che ancora una
volta Forza Italia sia lui, circondato da una pattuglia di
fedelissimi. Ma alla fine, come tutti perfettamente sanno, si
riscopre che lo spirito di Forza Italia è soltanto lui, Silvio
Berlusconi. Non si è costruito un erede, ma nessuno si fa un erede.

E quindi voglio ricordare anche a voi quello che ho


pensato e passato, anche se so che farlo mi emozionerà
davvero. Molti di voi conoscono alcuni aspetti di questa
nostra storia. Con qualcuno li abbiamo condivisi, ma vi
sono altri aspetti che non ho mai raccontato prima. In ogni
caso è importante riviverli perché lì sono le nostre radici,
lì sono le ragioni, forze per le quali siamo ancora in
campo. Lì c’è il grande futuro che ci aspetta e per il quale
stiamo lavorando con passione.

Lo vidi il 3 marzo ad Arcore e fremeva per l’immobilità,


fremeva come sempre, avendo dovuto difendersi più dagli alleati
che dai nemici dichiarati. Alla svolta del millennio, lui era
l’uomo del secolo, mentre quelli che lo sostenevano gli slacciavano
le scarpe. È passato sotto un tunnel di processi che neanche in un
videogioco e ora cerca di riportare a vita politica una Forza
Italia che non sa vivere senza l’occhio del padre nobile. Vorrebbe
un partito capace di produrre idee e progetti pieni di fantasia e
di speranza disponendo di dirigenti ideatori, ma il materiale
scarseggia. E così lui rilancia l’idea rock, lo spettacolo, la
kermesse in cui tutti parleranno solo per riempire il vuoto
dell’apparizione almeno in voce.

Tutto ebbe inizio quando i sondaggisti delle mie tv, in


quel giugno del 1993, parteciparono a una mia riunione e,
interrogati da me sulle elezioni che erano vicine,
affermarono con sicurezza: «Vinceranno i comunisti». «I
comunisti? Ma no, non è possibile», risposi d’impeto io.
«Non hanno mai vinto. C’è sicuramente una soluzione per
continuare a non farli vincere». Risposta in coro: «Sì, ma
ce n’è una sola: un nuovo partito più forte dei comunisti».
Lo chiamavano ancora Partito comunista – anche se
aveva cambiato nome – perché erano sempre loro, con gli
stessi leader, gli stessi metodi, gli stessi programmi. «Ma se
fino ad adesso hanno vinto i partiti moderati», io obiettai,
«perché tutto può cambiare?» Mi risposero: «Perché sono
cambiate le regole elettorali e perché Tangentopoli e Mani
pulite hanno fatto fuori tutti i leader del pentapartito e i
loro successori non sono purtroppo all’altezza della
situazione». Questo risposero. Allora mi prendo una
settimana e vado a conoscerli tutti, a uno a uno, i
sondaggisti. Avevano ragione. Li convocai di nuovo:
«Avete ragione. Ma allora cosa possiamo fare per non far
diventare l’Italia un Paese comunista?» Risposero: «L’unica
via è fondare un nuovo partito che sappia contrastare la
sinistra». Ma dissi: «C’è qualcuno in grado di farlo?»
Si guardano, si sorridono, puntano il dito su di me. «Solo
lei, presidente, perché lei, col suo Milan, è diventato il
simbolo della vittoria e poi perché è amato dagli italiani, a
cui ha regalato la televisione privata, un film ogni giorno
alle dieci e trenta – per le signore che stanno a casa a
spolverare i mobili e a preparare il pranzo per i figli che
tornano da scuola – e alla sera, dopo cena, uno spettacolo
per tutte le nostre famiglie che così stanno a casa tutte
insieme, per godersi la sua tv». Io rimasi assolutamente
perplesso, ma poi continuai a riflettere, incominciai a
discutere della situazione in cui eravamo, con tanti amici:
con Gianni Baget Bozzo, con Antonio Martino, con
Giuliano Urbani, con Giuliano Ferrara e tanti altri ancora,
e sempre più ci convincevamo, tutti, che la decisione
indispensabile era proprio quella di fondare un nuovo
movimento politico in grado di contrastare la sinistra.
Dunque, questo era il problema: scendere in campo o
lasciare che l’Italia diventasse un Paese comunista? Io
sentii consolidarsi sempre più forte in me un autentico
dovere, quello di farlo, quello di salvare l’Italia, il Paese
che amo, il Paese che tutti noi amiamo. Anche per
scegliere il nome del nuovo partito presi spunto, devo
ammettere, da “Forza Milan”. Il nome Forza Italia
conteneva e contiene già in sé il programma del nuovo
partito. Nel nome di Forza Italia c’è scritta la sua missione
politica, che è quella di realizzare nel nostro Paese le
condizioni sociali, politiche, economiche, affinché
ciascuno di noi possa sentirsi libero di costruire per se
stesso e per i propri figli un futuro di crescita, un futuro di
benessere, un futuro di libertà.
E alla fine io e gli amici che volevano essere i fondatori
del nuovo partito fummo d’accordo su quello che si
doveva fare. Decidemmo di fare un intervento su tutte le
reti televisive per comunicare pubblicamente la nostra
discesa in campo e la sera prima dell’intervento in tv del
giorno dopo feci venire ad Arcore, al mio tavolone di
famiglia, la mia mamma, mio fratello, i miei figli più
grandi, i miei amici più cari, i miei bravi dirigenti. Quando
furono arrivati tutti, li invitai a sedersi a tavola.
«Ma presidente, come mai questo invito di cui non
sappiamo la motivazione, per di più in un giorno di
lavoro?» Eh, infatti, non era mai successo prima.
C’eravamo sempre trovati insieme soltanto nei giorni di
festa, e allora io risposi: «Mangiatevi il primo giro di
risotto e poi ve lo dico». Temevo che a stomaco vuoto si
prendessero un’ulcera per quello che avrei detto. Dopo il
risotto, annunciai che li avevo convocati per renderli
edotti del fatto che l’indomani mattina avrei dato le
dimissioni da presidente e amministratore delegato di
tutte le società che avevo fondato e che la sera, in
televisione, in prime time, avrei annunciato che scendevo in
politica con un nuovo partito avversario della sinistra che
si sarebbe chiamato Forza Italia. Non vi dico quel che
successe: un subbuglio, una rivoluzione, un vero disastro.
Tutti, nessuno escluso, anche alzandosi in piedi, a voce
alta, manifestarono il loro dissenso, la loro opposizione, le
loro paure. «Te ne faranno di tutti i colori, ci faranno
tantissimi processi, ti manderanno in galera. Ci
chiuderanno le televisioni», e via di questo passo.
Finimmo a mezzanotte e mezzo. Tutti tornarono a casa, io
sarei andato in camera. Mi buttai sul letto, con la giacca
ancora allacciata e le scarpe ai piedi, e la testa più che in
subbuglio, in fiamme. Ma la mia mamma, tornando a casa
sua a Milano, con Nino, il mio autista di fiducia, ebbe la
ventura di passare nella via in cui avevamo abitato per
molto tempo mio papà, lei, la mia sorellina Antonietta, il
mio fratellino Paolo e io. Lei la chiamava la casa della
felicità. Disse al mio autista: «Nino, fermati, fermati per
favore». Scese dall’automobile e rimase per alcuni minuti a
guardare il balcone della casa nella quale avevamo abitato
per tanto tempo tutti insieme, felicemente. Poi risalì in
auto e disse a Nino: «Per favore, Nino, riportami ad
Arcore». Arrivata ad Arcore, salì le scale che portano alla
mia camera ed entrò da me, si appoggiò a una delle
colonnine del mio letto – me lo ricordo davvero come se
fosse ieri – e mi disse: «Anch’io sono molto preoccupata,
sono preoccupatissima per quello che ti faranno, perché te
ne faranno di tutti i colori ma…» Si fermò, guardandomi
con gli occhi lucidi. «Allora, dimmi mamma, “ma che?”» E
riprese: «Sono passata a Milano, davanti alla nostra casa
della felicità e mi è venuto in mente un pensiero, un’idea
che mi ha davvero colpito e convinto: che se tu, sentendo
così forte il dovere di scendere in campo per te, per i tuoi
figli e per l’Italia, non trovassi dentro di te anche il
coraggio di farlo, non saresti quel ragazzo, quell’uomo che
tuo padre e io abbiamo creduto di educare». La presi tra le
braccia, piangemmo per qualche minuto insieme e poi la
accompagnai a dormire in una stanza vicino alla mia. Il
dado era tratto.

Nessuno al suo posto farebbe discorsi dirompenti, o soltanto


interessanti, perché il diritto di evento è soltanto suo. È lui che
può raccogliere milioni di like improvvisandosi influencer, anche
se nell’ambito domestico il titolo che gli è dovuto, oggi come
all’inizio, non è quello di presidente o senatore, ma il suo amato
“dottore”. Oggi non ha più nemici e i pochi che aveva, come
Michele Santoro, gli rendono omaggio. Ma nel passato aspro e
glorioso è stato – senza fare una piega, solo forse un plissé – il
bersaglio più insultato, oltre che osannato, in un’epoca in cui
l’esercizio dell’insulto, dell’odio, dell’invettiva era violento, da
guerra civile mentale.

Il giorno dopo annunciai pubblicamente le dimissioni


dalle società che avevo fondato e, con un intervento
televisivo in prime time, su tutte le televisioni, comunicai la
mia decisione di scendere in campo iniziando il mio
intervento con una frase semplice, che anche voi
certamente ricorderete: «L’Italia è il Paese che amo». E
questa, in breve, è la vera storia della mia, della nostra,
discesa in campo.
In pochi mesi, con i miei più cari amici, sapemmo dar
vita all’unico partito in Italia che è ancora continuatore e
interprete della tradizione liberale, della tradizione
cristiana, della tradizione garantista, della tradizione
europeista. E vincemmo le elezioni. Questi valori, vedete,
sono in noi, ci appartengono, perché sono quelli più
naturali negli uomini liberi del ventunesimo secolo.

Forse soltanto in Italia sarebbe potuto succedere quel che


accadde quando, appena arrivato a Palazzo Chigi, lesse sulla
prima pagina del «Corriere della Sera» un avviso di garanzia e
apprese di essere indagato come criminale, mentre presiedeva a
Napoli un convegno internazionale sulla criminalità, con accuse
risultate tutte false. Bossi, creatore della Lega Nord, fuggì, il
governo crollò per un artificio e poi dopo la vittoria di Prodi
bisognò rifare tutto da capo. I fatti di Genova furono elementi di
un’unica provocazione, che fecero apparire l’Italia e il suo
governo come creature mostruose.

Noi non siamo professionisti della politica, siamo


uomini che vengono dal lavoro, dalle professioni,
dall’imprenditoria. Anche in questo siamo diversi da loro.
Loro, in maggioranza, non hanno mai lavorato, hanno
fatto solo politica, hanno parlato, parlato, parlato e
soprattutto sparlato. Se chiedete a un parlamentare di
sinistra cos’è il comunismo, quali sono i valori del
comunismo, molti di loro non lo sanno o non lo vogliono
dire. Non sanno dirti, o non vogliono dirti, che il
comunismo, dalla sua origine, crede che lo Stato sia
superiore a tutto. Ritengono che lo Stato debba decidere
su tutto, non approvano la proprietà privata e non tutti
vogliono ammettere, neppure, che il comunismo, negli
anni di Stalin e di Mao, tolse ai contadini la proprietà dei
loro campi, lasciandoli morire di fame, in Cina, ma anche
in Ucraina, in Russia: più di ottanta milioni di persone.
Solo in Ucraina, la carestia, provocata artificialmente dai
comunisti, determinò almeno cinque milioni di morti.
Vedete, in tutti i Paesi dove il comunismo si è affermato,
hanno trovato accoglienza miseria, terrore e limitazioni
delle libertà individuali. La realizzazione concreta del
comunismo si è mostrata incompatibile con la libertà e la
dignità delle persone perché l’ideologia comunista nasce
con l’obiettivo dell’abolizione della proprietà privata che,
invece, è un diritto naturale per ogni essere umano. Ogni
persona deve avere il diritto di realizzare se stessa, di
aspirare al benessere, alla felicità, di costruire con le
proprie mani il proprio futuro.
Per molti di loro, dei nostri avversari, essere di sinistra è,
come dire, “un partito preso”, è una moda, è un
atteggiamento, un modo per fare carriera, magari anche
per mettersi in tasca un ricco stipendio da parlamentare.
Per noi fare politica è, invece, batterci per i nostri valori,
per la nostra libertà, per i nostri figli, per il futuro del
nostro Paese. Fieri e orgogliosi – come siamo – dei nostri
ideali, noi siamo, adesso, il pilastro reale, essenziale di
questa maggioranza, siamo la spina dorsale di questo
governo. Per questo siamo ancora in campo: per far sì che
le sue visioni siano davvero corrette, giuste, equilibrate.

Soltanto Matteo Renzi raggiunse vette di consenso e di


leadership confrontabili con quelle di Berlusconi che lo aveva
visto crescere con affetto e sospetto: «Renzi è cresciuto con le mie
idee e le mie televisioni», mi disse. E naturalmente quelle
caratteristiche diventarono per le sinistre «la deriva
berlusconiana di Renzi». Troppo costruttivo, troppo abile, troppa
leadership. La leadership è una cosa di destra, soltanto il
territorio è di sinistra.

Noi vogliamo aumentare le pensioni, i salari, gli


stipendi, che sono rimasti, per tutti, quelli di vent’anni fa.
Noi vogliamo ridurre la pressione fiscale sotto il quaranta
per cento, mentre ora è al quarantaquattro per cento. Noi
vogliamo costruire tutte le infrastrutture necessarie per
rendere veramente moderno il nostro Paese. E ora
dobbiamo trovare urgentemente anche una risposta al
problema della siccità, per far sì che i nostri campi non
restino senza acqua e i rubinetti non restino all’asciutto,
come purtroppo avviene in alcune nostre città. Abbiamo
già cominciato a realizzare questi obiettivi. Il governo, in
pochi mesi, ha portato a casa risultati davvero importanti,
dei quali siamo molto, molto orgogliosi. Continueremo su
questa strada, con un rapporto leale e costruttivo, con i
nostri alleati, ai quali ci lega, non soltanto un programma
comune, ma una vera e consolidata amicizia.
Voglio ringraziare, per quanto stanno facendo, i nostri
ministri, gli altri membri del governo, i nostri capigruppo
e tutti i nostri parlamentari che danno un contributo
essenziale per qualità e quantità al lavoro del governo.
Voglio soprattutto ringraziare tutte le Azzurre, tutti gli
Azzurri e i nostri coordinatori regionali locali – per il loro
lavoro, il loro impegno, il loro entusiasmo – che ci
consentono di essere la spina dorsale di una coalizione che
abbiamo creato noi nel 1994 e che per noi rappresenta la
storia, il presente e soprattutto il futuro.
Cari amici, manca circa un anno alle elezioni europee.
L’Europa è il nostro orizzonte di riferimento, solo
l’Europa può essere protagonista delle grandi sfide globali,
a cominciare da quella posta dall’imperialismo cinese.
Dobbiamo far sì che l’Europa diventi un vero continente
unito, con regole di voto diverse rispetto a quelle attuali,
dobbiamo passare a dare unanimità alla maggioranza
qualificata che io ho proposto possa essere il voto
dell’ottanta/ottantacinque per cento dei Paesi europei.
Dobbiamo avere un’unica politica militare, con una forte
cooperazione tra le forze armate di tutti i Paesi europei,
con un aumento della spesa militare e con un corpo di
pronto intervento di almeno trecentomila uomini.
Purtroppo tutto questo che io chiedo dal 2002 non è stato
mai realizzato e, purtroppo, così l’Europa nel mondo
conta poco. Se la Cina, lo dico naturalmente per assurdo,
un giorno decidesse di occupare l’Italia, e magari qualche
altro Paese europeo, non sapremmo assolutamente
contrastarla e la cosa migliore che ci converrebbe fare
sarebbe quella di andare a scuola a studiare il cinese.

Forza Italia al suo esordio fu chiamata, per scherno, il “partito


di plastica”, che sarebbe immediatamente scomparso dalla storia
e dalla memoria. Trentadue anni dopo, una Forza Italia ridotta
era ancora lì, in attesa del suo creatore e signore. In attesa del
Berlusconi caduto da cavallo, che vuole rivedere la sua creatura
viva, vitale. Berlusconi sta molto meglio, dicevano. In fondo è
sopravvissuto a un cancro prostatico, due bypass, una statuetta di
ferro che gli ha rotto il naso, un Covid da lasciarci la pelle, una
lenta leucemia e un’infezione polmonare. E dall’Ospedale San
Raffaele organizza il rito dell’apparizione: l’epifania di
Berlusconi. Ci saranno applausi e lacrime di gioia, e il partito
emetterà segnali vitali. Ma per vivere, dovrebbe tornare a essere
la casa dei liberali. E qui la strada si fa impervia.

Cari amici, cari Azzurri, in queste settimane ho sentito


l’affetto e la partecipazione di tante persone, anche dei
nostri avversari politici, e naturalmente li ringrazio tutti.
Ma è il vostro affetto e il vostro abbraccio quello che più
mi ha aiutato a superare una polmonite pericolosissima.
Sapevo che un compito importante ci attende e mi
attende: per questo non mi sono mai fermato, anche in
queste settimane. Ho lavorato alla nuova organizzazione
del partito e per questo ora sono pronto a riprendere a
lavorare con voi, a combattere con voi le nostre battaglie
di libertà.
In definitiva Forza Italia, per noi, è come una religione
laica, la religione della libertà di cui parlava Benedetto
Croce: una religione del cuore e della mente, un impegno
verso noi stessi, verso i nostri figli, verso tutti gli italiani. E,
allora, mi raccomando, andiamo avanti così con
convinzione, con entusiasmo, con passione. Nessuno
riuscirà a sconfiggerci e vedrete che gli italiani ci
considereranno i loro santi laici, santi della loro libertà e
del loro benessere.
Io sarò con voi, con lo stesso entusiasmo e lo stesso
impegno del 1994. Perché il futuro è delle nostre idee, il
futuro deve garantirci una vera e completa libertà.
Un forte, forte, fortissimo abbraccio a tutti voi.
1. Testo tratto da: Perché Forza Italia è Berlusconi: dopo
trentadue anni il “partito di plastica” torni casa dei liberali, 6
maggio 2023, «Il Riformista».
6 , /9 , 2

Nel luglio del 2000 raccolsi la lunga intervista a Silvio


Berlusconi che compare, divisa in diverse sezioni, in
questo libro. Questa intervista, che è poi rimasta nel mio
computer dimenticata per più di nove anni, ha una storia.
Da meno di un anno ero andato a «il Giornale» con il
grado onorifico di vicedirettore (nel senso che non
“vicedirigevo” nulla, ma scrivevo come editorialista) e lo
avevo fatto nel momento più basso della carriera politica
di Silvio Berlusconi. Ho più volte risposto ai miei critici
(«Ma come hai potuto stare con Berlusconi tutto questo
tempo, non avevi capito subito che tipo era?») che ho
avuto il piacere di aiutarlo nel momento più difficile,
quello della sconfitta, e di essermene andato nel momento
del suo apparente trionfo, dopo la vittoria a mani basse del
2008.
Ero deciso ad aiutarlo a costruire almeno le premesse di
una rivoluzione liberale. La sinistra italiana, con tutta la
sua tracotante supponenza, il suo vuoto di idee, il suo
comportamento supercilioso e aristocratico, di fatto
reazionario, mi aveva definitivamente rotto le scatole e
non ne potevo più del suo grigio e ipocrita culto del luogo
comune, né dei suoi cliché (spesso fondati su falsi storici e
imbrogli politici), sicché confesso – anzi, mi spiego
benissimo – di avere difeso Berlusconi anche nelle sue
prime stravaganze: la bandana durante la visita di Tony
Blair, la rottura degli schemi, la naïveté popolaresca anche
se spesso volgare, ma che faceva incazzare i perbenisti.
Questo, lo ribadisco, mi piaceva. E se Berlusconi non
avesse sfondato con violenza tutti i canoni della
correttezza civile, politica, personale, costituzionale, forse
mi sarebbe piaciuto ancora proprio per alcune
caratteristiche che mandano in bestia il perbenista
conformista di sinistra, le grosse bocche da fuoco di «la
Repubblica» e in genere tutti coloro che fanno
dell’ipocrisia e del grigiore un’ideologia.
Berlusconi aveva fin troppe idee, moltissime delle quali
erano sbagliate, parecchie pericolose, ma dimostrava
anche un’avidità di confrontarsi, di sperimentare, di
forzare, di sfidare, che mi piaceva. Ogni volta che lo
incontravo mi chiedevo perché la sinistra italiana non
cercasse un leader capace di contendere il passo a
Berlusconi, non certo imitandolo o facendo il «Berlusconi
di sinistra», ma uno capace di esercitare fascino, di attrarre
le folle, di vendere un sogno, come aveva saputo fare il
minuto ma non mitissimo Enrico Berlinguer, l’uomo che
aveva tentato senza riuscirci di sganciare il PCI dai sovietici,
che aveva cercato insieme a Moro di costruire una via
d’uscita che portasse i comunisti nella terra promessa della
piena legittimazione democratica, ma senza perdere, anzi
acquistando, fascino politico. Invece, dopo Berlinguer,
nulla. Tentativi molti, ma nel complesso
elettroencefalogramma piatto. Craxi aveva fatto il pieno di
un certo carisma, che però non aveva mai sfondato oltre
una certa soglia, perché – diciamolo – Bettino era
antipatico, scostante, incazzoso, poi anche delizioso e
gentile, ma caratterialmente un vero duce e questo faceva
incazzare la gente più che portare ad amarlo.
Così, verso la metà di giugno del 2000 Berlusconi mi
disse di essere stato molto colpito dalla lettura
dell’autobiografia di Lee Iacocca, amministratore delegato
e salvatore della Chrysler, un repubblicano reaganiano
intraprendente, tosto, pieno di inventiva, determinato,
brillante e anche cattivo in affari. L’autobiografia di
Iacocca è un librone di più di cinquecento pagine e a
Berlusconi era venuta voglia di scrivere la propria
autobiografia, con l’aiuto di qualcuno. Ero io disposto a
dargli una mano? E «Perché no», dissi. Io sono un
giornalista, da sempre raccolgo vite altrui, è il mio
mestiere. E la vita di Berlusconi era certamente un oggetto
degno di nota: «Proviamo», dissi. E aggiunsi: «Senza
impegno».
Fu così che Berlusconi mi dedicò un paio di giorni a
Villa Certosa, in Sardegna, quando ancora questa magione
non era diventata famosa come residenza semiufficiale di
un capo di governo, e meno che mai per le feste piene ora
di allegre famiglie italiane, ora di fanciulle notturne
raccolte come falene intorno alla lanterna del loro «papi».
Nulla di tutto questo, nove anni fa.
Arrivai alla villa che era servita dal personale
indispensabile: centralinisti, camerieri, sorveglianza, le
guardie del corpo. Berlusconi fu un ospite amabilissimo,
gentile e appena un po’ decisionista: stabilì che avevo
bisogno di un paio di sneakers per seguirlo nella
passeggiata mattutina, e me ne fece arrivare alcune fra cui
scegliere. Ricordo questa arrampicata, tutti e due col
fiatone, su per la collina.
Probabilmente la stessa collina dove molti anni dopo si
sarebbe sistemato un intraprendente paparazzo col suo
teleobiettivo stellare per fotografare il pisello e le chiappe
di qualche ospite di riguardo. Ricordo naturalmente la
sera, quando Silvio si mise al pianoforte e ci demmo a una
breve competizione sulle canzoni francesi in cui eravamo
entrambi ferrati, lui più Trenet e io più Brassens, ricordo
la piccola e graziosa stanza per gli ospiti del tutto uguale a
una camera d’albergo, il pot-pourri nel piccolo bagno, il
genere di bagno che poi Berlusconi avrebbe mostrato a
Chirac dicendogli: «Tu non sai quante chiappe si sono
sedute su questo bidet».
E poi il recitatore, il giardino, la visita guidata fra le
piante di cui sciorinava i nomi botanici in latino. Volle
anche comprare una collana di ambra da portare a mia
moglie come compenso per avermi sottratto a lei per un
paio di giorni. Tutto quel che ricordo di quell’incontro è
positivo: un uomo disteso, molto interessante e
intelligente, ma anche con un carattere di ferro,
determinato, volitivo. Era evidente la sua ossessione di
piacere. Essere seduttivo. Un autocrate istintivo,
pretendeva come un diritto naturale che tutti, ma proprio
tutti, fossero pazzi di lui. Considerava coloro che lo
detestavano e lo combattevano prima di tutto come
persone che non l’avevano capito: «Se potessero leggermi
nel pensiero, non potrebbero non approvare quel che
faccio», diceva. Si vedeva bene che il suo anticomunismo,
che traeva le sue radici dall’infanzia a causa di un prete che
veniva dalle chiese perseguitate dell’Est europeo,
rappresentava un marchio commerciale, un tratto
distintivo del DNA, e anche un prodotto da vendere: «In
Italia coloro che hanno sulle scatole i comunisti», diceva,
«sono milioni e milioni, ma nessuno o pochi osano dirlo
apertamente perché dei comunisti hanno paura, perché i
comunisti sono altezzosi, hanno il potere di schernire chi
non la pensa come loro, sono persone quasi sempre
sgradevoli». Come socialista dell’area che allora si
chiamava “lib-lab” (liberale laburista), io stesso mi
consideravo una minoranza etnica storicamente angariata
dai comunisti, per i quali i socialisti sono “socialfascisti”
quando non sono loro alleati, o loro colonie e cloni.
Vecchie questioni, ma posso permettermi di tenerle vive
nella mia personale memoria storica, dal momento che mi
iscrissi al Partito dei socialisti italiani nel 1957, quando
erano ancora vivissime le memorie degli ultimi trent’anni.
Insomma accettai di provarci, vedere che cosa sarebbe
venuto fuori. Ma una volta davanti al registratore, come i
lettori potranno vedere, la storia che Berlusconi fa di se
stesso, dei suoi tempi, del suo contesto, è una storia
edificante, eroica, a metà strada fra il libro Cuore di De
Amicis e un cortometraggio pubblicitario. E tuttavia
costituisce un documento importante.
Dell’autobiografia, poi, non se ne fece nulla. Io raccolsi
questa prima puntata della sua vita, provai a sistemare il
materiale sbobinato, ma comunque lo maneggiassi mi
sembrava poco trattabile: un misto di esibizioni di buoni
sentimenti ed eroismi. Eroismi infantili, adolescenziali,
universitari, eroismi imprenditoriali, televisivi,
pubblicitari, edilizi, familiari; eroismi esaltanti e allo stesso
tempo un po’ deprimenti. Mandai a Berlusconi un inizio
d’opera, ma lui non mi fece più sapere niente e infine mi
disse di averci ripensato: «Qualsiasi cosa io scriva di me, o
qualcuno scriva di buono su di me, mi si ritorcerà contro,
troveranno sempre il modo di darmi addosso. Meglio
lasciar perdere». E così fu. Presi le audiocassette e le stipai
nell’armadio in cui conservo centinaia di ore di interviste
che ho fatto nella mia ormai lunga vita professionale. E lì
sono rimaste a impolverarsi, insieme a quelle che avevo
raccolto sulla nave Azzurra il 6 aprile di quello stesso anno
dalla viva voce di Rosa Berlusconi. Anche di quelle cassette
non feci allora nulla e non ne seppi cogliere, in quel
momento, alcuni dettagli che oggi mi sembrano
fondamentali: le notazioni sul temperamento del figlio
(fra mille e mille elogi amorosi), che era sempre stato il
caratteraccio di una persona che non rispetta le regole
altrui, che vuole sempre primeggiare, fare affari, guidare
gli altri e non essere guidato e che affermava, prima della
famosa «discesa in campo», di avere il progetto di entrare
in politica e guidare il Paese a suo modo, come guidava le
catene televisive, come guidava i cantieri, gli affari, i
contratti, le società, i pacchetti azionari, i dipendenti.
Quando ho deciso di scrivere questa “storia italiana”, la
storia di Silvio Berlusconi in quello che potremmo
considerare un giorno il “finale di partita”, della sua
partita, mi sono ricordato di queste cassette, in parte già
sbobinate e trascritte, in parte da trascrivere. E così le ho
riascoltate a mente fresca, col senno di poi, con una
distanza storica che un decennio in una certa misura
consente.
E ho trascritto integralmente quel che Berlusconi dice di
sé, con brevissime mie interruzioni. Avrei potuto barare,
alla maniera di quasi tutti i giornalisti, interpolando questi
solitari soliloqui della memoria di Berlusconi con
domande posticce, a posteriori, per costruire un dialogo.
Ma sarebbe stato un dialogo fasullo e non ho alcuna voglia
di ingannare il lettore, il quale potrà farsi da solo l’idea che
preferisce di questo Berlusconi che racconta se stesso, e
della madre che racconta la storia del figlio.
Ho già letto alcune delle cose da lui raccontate in certe
interviste, ma non ricordo di aver mai letto una
confessione così lunga, una rievocazione così dettagliata,
specialmente dell’infanzia e della giovinezza, che
costituisce quindi un documento di qualche valore storico
e non una semplice curiosità. Il mio punto di vista oggi è
che Berlusconi abbia sapientemente ricostruito una
biografia da piccolo angelo caduto dal cielo, un bravissimo
bambino e un ragazzo ingegnoso che non poteva che
diventare un laborioso capitalista di successo. Ma, come
dico nelle pagine di questo libro, la sua è una storia rivista
con l’occhio e la mente di chi deve costruire e diffondere
un passato che sorregga sulle spalle un presente messo in
discussione dagli avversari, ma anche da moltissimi dei
suoi. Se fosse stato un imprenditore della Roma imperiale,
anzi uno che poi fosse diventato imperatore, si sarebbe
fatto ricostruire un’infanzia divina, una nascita misteriosa,
una parentela miracolosa, una vita eroica piena di
premonizioni. Poiché Berlusconi è un milanese classe
1936, si affida ai mezzi di oggi e lo fa con la sua lingua
contemporanea, una lingua semplice, popolare, non
sofisticata e priva di qualsiasi profondità temporale: dalle
sue memorie emerge solo lui, non il suo tempo, non il
mondo che condividevamo, non l’immagine di un pezzo
di storia. E dunque vanno lette per quello che sono e come
sono. Ma vale la pena leggerle.
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Tutti si chiedevano: davvero Berlusconi sta per cadere?


Davvero è ormai cotto? La risposta onesta nello scorcio
finale del 2009 mentre esce questo libro è che nessuno
può prevederlo. Dunque lasciamo da parte la fantasia e
guardiamo i fatti più importanti: il governo guidato da
Berlusconi è sotto una continua ondata di attacchi e di
disgrazie, di voci e di tensioni. Il 26 novembre il
presidente del Consiglio è arrivato a pronunciare
l’espressione «guerra civile», che poi è stata rettificata con
quella più blanda di «rischio di divisioni», in riferimento a
quello che lui ritiene un assalto alla baionetta da parte
della magistratura. A fine novembre sono saltati fuori
anche alcuni pentiti di mafia, i quali ripercorrevano una
vecchia strada che periodicamente emerge: quella di un
coinvolgimento di Berlusconi e Marcello Dell’Utri in un
accordo con Cosa nostra, in concomitanza con le stragi e
gli attentati in continente del 1992-93.
Ci sarebbe da osservare prima di tutto che in Italia, e
solo in Italia, i collaboratori di giustizia si chiamano
“pentiti” (una notazione morale e non giuridica) e che
queste persone – che in Italia e soltanto in Italia si
comportano come creature oracolari (il primo di questo
genere fu Buscetta, ma soltanto dopo l’uccisione del suo
“controllore” Giovanni Falcone, il quale finché fu vivo
impedì questo uso rateizzato) – godono dell’incredibile
potere di “ricordare” a rate nuovi dettagli e nuovi o vecchi
scenari. E dunque funzionano, in Italia e soltanto in Italia,
come bombe a grappolo e a orologeria, o come mine
antiuomo. Per questo motivo la loro credibilità è sempre
parziale, discussa e sospettabile di opportunismo.
E questo è un danno perché, anche se i pentiti dicono il
vero, chi ne è accusato può sempre replicare che essi
vengono usati a comando, a rate, in modo parcellizzato e
non credibile. In questo senso non somigliano affatto ai
collaboratori di giustizia all’americana o all’inglese: nel
momento in cui passano dalla parte della legalità sono
obbligati a dire tutto e subito quello che sanno, senza
tenersi nulla di riserva, pena la perdita del loro status e il
ritorno in galera. In Italia non è così, e questo è un danno
terribile sia per la giustizia sia per la politica, perché la
minaccia che qualcuno finalmente “ricordi” ciò che si è
tenuto dentro, costituisce di fatto una bomba a orologeria
incontrollabile e rende tutto violento, confuso, non
verificabile e affidato a giudizi privati: «Secondo me è
credibile», «Finora ci ha sempre detto cose vere, o quasi», e
via dicendo.
E questo è un dato di fatto. L’altro è che certamente
Berlusconi da quando è al governo produce – obbliga il
Parlamento a produrre – leggi che facciano al caso suo, ai
casi suoi, alle sue esigenze, e dunque l’attività della politica
italiana è in grandissima parte distorta a causa di questo
impegno unico e bizzarro nella storia delle democrazie:
produrre coperture, difese, scappatoie a un capo di
governo che ha una quantità incredibile di guai giudiziari,
alcuni dei quali sono probabilmente strumentali, ma che
in gran parte dipendono invece dalla realtà, dalle sue
responsabilità, da quel che ha fatto. Di qui il diffuso
sospetto che sia entrato in politica per farsi le leggi con cui
sfuggire all’arresto e non sia soltanto la vittima di una
persecuzione giudiziaria (che pure c’è, come dimostra per
esempio la storia del famoso avviso di garanzia recapitato
tramite il «Corriere della Sera» a Napoli il 2 novembre
2004, che causò la caduta del suo governo e la lunga
“marcia nel deserto” fino al ritorno nel 2001, che poi si
concluse con un’assoluzione piena). Questa è una prima
causa del costante rischio di infarto in cui grava la politica
italiana, la quale somiglia alle devastate arterie coronarie
di malati perennemente in sala rianimazione.
Alla fine del 2009 si prospettano per Berlusconi e
uomini della sua parte, Marcello Dell’Utri in particolare,
accuse di coinvolgimenti con la mafia. Nuovi e vecchi
pentiti agitano l’oceano insondabile del panorama italiano
e si vedono e prevedono onde anomale gigantesche e
devastanti, altre volte limitate al solo effetto annuncio. Che
sia in corso un’azione di rigetto nei confronti di
Berlusconi, non c’è dubbio. Che in questo rigetto ci siano
eccellenti punti di forza è altrettanto sicuro.
Ma Berlusconi ha sempre rilanciato come un irato ma
forte giocatore di poker. A fine novembre rilancia di
nuovo, ma stavolta temerariamente, usando la pericolosa
espressione «guerra civile», che sciocca il Paese e provoca
un intervento del presidente della Repubblica, il quale,
mentre invita i magistrati a non compiere azioni politiche,
implicitamente esorta Berlusconi a darsi una calmata,
mantenere il controllo dei nervi e non dire cose che
possano ulteriormente turbare lo stato di perenne
fibrillazione della politica.
Il secondo provvedimento di Berlusconi è stato quello di
militarizzare il Popolo della libertà, che è già – malgrado
la forte dissidenza del presidente della Camera Gianfranco
Fini e della pattuglia dei suoi fedeli – un partito coreano,
in cui nessun dissenso è ammesso, nessuna voce diversa è
tollerata, non sono consentite correnti, non è possibile
procedere a votazioni che mettano in discussione le
decisioni del capo. E il capo ha detto: «Chi non è con me è
contro di me e fuori dal partito, fuori dalla maggioranza, e
sarà politicamente decapitato».
Ma intanto si è andata componendo intorno a lui la
ragnatela che lo imbossolerà, riducendolo come quegli
insetti che il ragno prima paralizza, poi avvolge e poi
lentamente mangia. La novità è stata infatti quella di una
serie di proposte di varia natura (riproposizione del lodo
Alfano sotto forma di legge costituzionale con la
partecipazione delle opposizioni o una legge che dichiari
perennemente indisponibili ministri e primo ministro nei
processi) che otterrebbero l’effetto di mettere in salvo
Berlusconi inseguito dai magistrati che lo stringono
d’assedio. E, in cambio di questa protezione, imporgli lo
status di ostaggio costretto a fare ciò che i suoi salvatori
decidono e non più quel che gli pare e piace.
In questo senso ci sono state proposte del presidente
dell’UDC Pier Ferdinando Casini, segnali di benevolenza da
parte del Partito democratico e un’eloquente sortita di
Luciano Violante, il quale ha cominciato a riscrivere il
programma delle riforme che il governo dovrebbe
presentare, una volta messo sotto tutela. A quella dettatura
di programma di Violante ha risposto subito il
capogruppo berlusconiano alla Camera Fabrizio Cicchitto,
confermando l’interesse del PDL in questa prospettiva.
Dunque, il più realistico degli scenari possibili a fine
anno appare quello di un Berlusconi agli arresti
domiciliari dorati, una sorta di Napoleone all’Isola d’Elba,
con solo potere di governo sugli isolani, mentre le grandi
potenze politiche potrebbero instaurare di fatto un
governo ombra supplente. A questo disegno sono
palesemente interessati e stanno lavorando il presidente
della Repubblica Giorgio Napolitano e il presidente della
Camera Fini, oltre al segretario dell’UDC Casini.
Ma Berlusconi è un populista senza alcuna remora e
nessun desiderio di farsi comandare e condizionare. Vive
con l’ossessione dell’estrema arma disponibile, quella di
una campagna elettorale anticipata con cui mobilitare il
«suo» popolo, comportandosi come un caudillo
plebiscitario, una figura estranea e nemica di una
democrazia parlamentare.
Questo libro mostra e dimostra che il suo carattere, fin
dall’infanzia, è stato quello di un autocrate molto laborioso
e spesso geniale; ma uno – come ricordò persino suo
padre Luigi e mi confermò la madre Rosa nella lunga
intervista qui riprodotta – che non tollera, non sopporta,
non ammette controlli, condizionamenti, rallentamenti
alla sua «politica del fare», che è la politica del fare quel
che più gli aggrada, conviene e che è nelle sue corde e
persino nei suoi capricci.
Dunque imbrigliare Berlusconi non si prospetta come
un’opera facile, ma sembra alla fine del 2009 l’unica
prospettiva possibile e alternativa al suo logoramento per
via giudiziaria, alla consunzione (molto lenta, peraltro)
della sua immagine pubblica e alla profonda crisi che si è
determinata fra lui e l’amministrazione americana di
Obama (ma già con Bush negli ultimi tempi le cose si
erano messe non bene) e con la Chiesa guidata da papa
Ratzinger, in enorme imbarazzo e fastidio per i suoi
comportamenti privati e per quello dei suoi giornali.
Ma lui l’espressione «guerra civile» l’ha pronunciata, e ha
voluto mettere il Paese di fronte a questa spaventosa,
ipotetica e fantasmatica prospettiva: partigiani
berlusconiani e antiberlusconiani che ridurrebbero con le
armi alla mano l’Italia come la Jugoslavia degli anni
Novanta. È uno scenario completamente pazzesco?
Purtroppo no. Il clima politico in Italia si è avvelenato al
punto tale che una guerra civile mentale, solo mentale e di
parole, è già in atto da tempo e a fine 2009 è ormai
furiosa. Passare dalle parole ai fatti non è cosa facile, ma
purtroppo è possibile. E questo terrorizza.
Dunque, nessuno sa – nemmeno lui – se alla fine di
quest’anno la parabola berlusconiana sia avviata verso la
catastrofe, verso la sopravvivenza e magari
l’irrobustimento, o verso l’ibernazione controllata dagli
avversari, che astutamente indicano a Berlusconi la via
dell’esilio politico, conservando formalmente la corona, il
mantello, lo scettro e il castello, ma senza più poter
governare.
Noi pensiamo che la politica sia una scienza quasi esatta,
più simile alla fisica che alla psicoanalisi, e che dunque
certi sbocchi siano obbligati, quando cause ed effetti
forzano la direzione e il verso degli eventi. E alla fine
dell’anno si assiste infatti all’ultimo erculeo, rabbioso
tentativo di Berlusconi di sfuggire a entrambi i destini:
quello della caduta rovinosa e quello della resa
condizionata e con l’onore delle armi, consegnandosi
prigioniero di Casini, Fini, Napolitano e, se ci sta, Bersani.
A questa prospettiva Berlusconi scalcia come un mulo,
rendendosi conto tuttavia che è una strada quasi obbligata,
e intanto forza il suo ministro della Giustizia a
ripresentare il cosiddetto processo breve, cioè una riforma
che dichiari i «suoi» processi decaduti perché fuori tempo
massimo.
Intanto sono state avanzate altre ipotesi, la
costituzionalizzazione del lodo Alfano (che avrebbe
impedito alla Consulta una nuova bocciatura) o la norma
dell’indisponibilità permanente a presentarsi in tribunale
in quanto presidente del Consiglio, tutte soluzioni separate
e in parallelo, mandate avanti preventivamente alla cieca,
sapendo che però alla fine qualcosa si combinerà, una
strada si troverà e che specialmente il minaccioso processo
Mills sarà evitato. Ma intanto Berlusconi forza per
proseguire per la sua strada privata, quella che gli
consentirebbe di regnare magari aumentando i propri
poteri fino a imporre attraverso un clima da stato
d’assedio parlamentare una riforma presidenzialista con
cui alla fine mettere fuori dal Quirinale l’attuale presidente
e sostituirlo con lui stesso, arricchito dalle funzioni di capo
dell’esecutivo, magari con un primo ministro alla francese,
un esecutore o esecutrice di ordini, come lo stesso Alfano
o le sue ragazze ministre, Mara Carfagna e Mariastella
Gelmini.
Questo libro in un primo momento avrebbe dovuto
intitolarsi Silvio Berlusconi. Una storia italiana per due
motivi: il primo è che lui stesso ha definito così la storia
della propria vita e il secondo è che ha ragione. La storia di
Silvio Berlusconi, pur essendo quella di un individuo
unico e irripetibile (e sotto molti punti di vista
eccezionale), è un concentrato di italianità da manuale,
qualcuna da trattato di psicologia, altre da manuale di
antropologia. Nella sua storia entrano di diritto o di
traverso i protagonisti indispensabili perché una storia sia
italiana fino in fondo: una mamma imponente e
protagonista, una famiglia estesa e multipla, la mafia
siciliana che entra ed esce di scena attraverso personaggi
incredibili come Vittorio Mangano, che gioca ai cavalli,
rapisce ospiti, accompagna figli, commette omicidi, mette
bombe e poi muore rifiutando sdegnosamente di
dichiarare che Berlusconi è un mafioso.
Già da sola, questa è una grande storia italiana. Poi,
ancora, le zie suore come italianità ecclesiastica (benché
manchi lo zio prete) e infine le donne, il potere, la seconda
moglie che era l’amante quando era sposato prima e che
viene mandata a partorire in Svizzera per precauzione, ma
che poi diventa una donna italianissima, l’unica “first lady”
del mondo che, dopo essersi accorta che il marito la
tradiva, emette comunicati e rilascia interviste
sull’argomento, come se Hillary Clinton si fosse rivolta al
«New York Times» quando scoprì quello che succedeva
nello Studio Ovale fra suo marito e una stagista. E poi
Berlusconi arcitaliano che compone e canta canzoncine in
un napoletano posticcio con rime banali, tutte
strappacuore, cliché per donnette di provincia, le sue fan
sfegatate.
Il Cavaliere è poi un tipico italiano femminile. Non
fraintendetemi: non sto dubitando dei gusti eroici ed
erotici di questo campione, ma sto indicando un fatto
anch’esso italianissimo. Il gusto soffice, soave, un po’
viscido e subdolo della seduzione per vie setose,
omeopatiche, digitali. Lui non è il prototipo del grande
maschio anziano, potente e affascinante come poteva
essere Ronald Reagan. È l’uomo che si fa il make-up, che si
tinge i capelli di un colore rossiccio e cadaverico, che si fa
tirare su le guance, il collo, gli angoli degli occhi, che ha al
seguito assistenti pronti con la matita, il pennello, la
tintura, e che non ha il coraggio di mostrare i suoi anni per
tentare le sue conquiste esibendo i pochi capelli bianchi, di
sfidare una vita senza trapianti, senza trucchi, con il volto
di chi ha superato la settantina e ne va fiero, preferendo
invece femminilizzarsi e imbandire cene in cui non teme
rivali in seduzione perché è l’unico maschio invitato da se
stesso (a parte gli eunuchi: il pianista, il chitarrista, il
cuoco, i camerieri), con le comparse che lo aspettano in
camera da pranzo: una ventina ma anche trenta cloni dello
stesso manichino di donna, dal volto insipido ma
innocente con occhi sgranati e sbalorditi, intubate in un
tubino nero, con sotto soltanto reggiseno e slip, forse un
filino di perle al collo, un sospetto di profumo, un’ombra
di rossetto, ma niente trucco pesante perché il seduttore
femmineo non si eccita di fronte a vere donne con un
corpo aggressivo, una voce tosta, idee nella scatola cranica,
trucco o non trucco. No, lui cerca – e richiede sul catalogo
dell’amico Tarantini – la donna innocente, un elegante
abortino su trespoli con tettine contenute, vita stretta,
culetto alto, che esprima innocenza, purezza, capacità di
meravigliarsi e di fingere il pre-orgasmo dello
sbalordimento di fronte all’immancabile, lunghissimo,
pomposo, vanitoso filmone dei suoi incontri con i potenti,
i grandi della Terra, ai quali lui dà pacche sulla schiena,
che chiama a gran voce «Mister Obama» irritando la
regina d’Inghilterra («Che ha, quello, da urlare?»).
Queste povere figlie si comportano tutte come bimbe
incestuose. E lui, il padre, l’uomo saggio, maturo ma virile,
che sa consigliare, sa guidare, sa promettere, sa dare
lezioni di vita, sa far balenare compensi morali e non,
lascia intravedere posti in televisione, al cinema, nelle liste
elettorali, o almeno dispensa tartarughine, farfalline,
poltroncine in parlamenti nazionali ed europei. E il gregge
delle sue ospiti, convocate anche a tassametro, sta lì e bela,
cinguetta, accondiscende, si annoia a morte ma reprime
gli sbadigli, anche perché dietro c’è uno che paga, uno che
ha arruolato anche le «ragazze immagine», quelle che non
vanno a letto ma che stanno lì a miagolare, a fare
boccucce, a fare atmosfera, tappezzeria, arredamento.
Non è italianissimo? Certo, non tutti gli italiani sono
così, ma solo perché non possono permetterselo. Lui può
e fa sognare tutti i guardoni che quando leggono delle sue
imprese, anziché irritarsi, scandalizzarsi, indignarsi, si
entusiasmano: evvai Berlusconi! Seduci, fotti, passa le tue
notti brave e fallo anche per noi! Questo è italianissimo.
Quando ho lasciato il suo partito per il suo appoggio a
Putin nell’invasione della Georgia e per il totale e
congenito disprezzo per ogni forma di democrazia
interna, ricevetti centinaia di e-mail insultanti e furiose,
tutte dello stesso tenore: «Lo dica, ditelo tutti voi che siete
contro Berlusconi, che l’unica ragione del vostro odio è
l’invidia perché lui può fare ciò che voi non potete. Lui ha
tutte le donne che vuole, può soddisfarne centinaia, ha ciò
che voi non avete, la potenza di un amatore giovane e
gioioso che vive la vita con la serenità e la pienezza
sessuale che lei, voi, neanche vi sognate». In questo plauso
femminile a uno stile di vita che, stando alle notizie, ai
racconti e alle interviste, somiglia a quello di un
molestatore, c’è un altro vecchio vizio italiano, già emerso
trionfalmente con il fascismo, ma per meglio dire con il
mussolinismo. «S’alza il sole, canta il gallo, Mussolini
monta a cavallo» era una delle strofette che
accompagnavano nell’immaginazione collettiva le attività
frenetiche e insonni del duce, il quale ogni giorno usava
ricevere signore e signorine che venivano a visitarlo e che
lui, dopo averle sommariamente valutate, possedeva
spesso in piedi prendendole da tergo. Anche Napoleone
era noto per una tale frenetica e impersonale attività con
tutte le donne che gli capitavano sottomano, escludendo
soltanto quelle che avevano messo del profumo, cosa che
l’imperatore fortemente detestava (infatti scrisse una
lettera alla consorte Giuseppina, prima di tornare a Parigi
dalla prima campagna d’Italia, in cui diceva: «Non lavarti,
arrivo»).
E italianissime sono infatti le donne italiane che, anziché
indignarsi per il continuo oltraggio alla figura della donna,
si entusiasmano, arrossiscono, alludono, si danno di
gomito, si stringono in capannelli intorno al calabrone,
che subito racconta barzellette, con la stessa continuità con
cui un juke-box emette canzoni. Questo, ancora una volta,
è perfettamente italiano: esibizionismo e complicità,
barzellette audaci e allusive intrise di narcisismo per la
platea delle signore più attempate, scatenate come
teenager davanti a una rockstar, che sognano
probabilmente una botta e via con l’uomo più potente
d’Italia, possibilmente accompagnata da qualcuno dei suoi
famosi regalini, le buste bianche piene di contanti, le sue
scatoline con la bigiotteria di lusso che si è fatto produrre
in serie: farfalline e tartarughine colorate e luccicanti che
spande a piene mani insieme agli accordi di chitarra
pseudo napoletani del suo fido cantastorie Apicella e ai
filmati in cui grandeggia fra i potenti della Terra, mentre
distribuisce pacche sulle spalle, emette grida da
compagnone d’osteria, fa mossette e sorrisi a quarantadue
denti, si mette in mostra, richiama l’attenzione, si finge
padrone di casa dove non lo è, suscita intorno a sé
curiosità e imbarazzo, divertimento e orrore secondo le
diverse sensibilità degli uomini di Stato e di governo,
diplomatici e regnanti con cui si incontra.
Quando può, infligge al suo parco-femmine
documentari su se stesso come faceva anche il presidente
Mao quando si dava allo stupro organizzato. Candido ed
eccessivo, orgoglioso di sé come un grosso bambino, cerca
di provocare un’ammirazione e un’adorazione che passino
attraverso lo stupore, strappando a tutte, giovani e vecchie,
belle o brutte, in affitto o volontarie, degli «Ohhh...» di
ammirazione, di genuina o finta sorpresa, come genuini e
finti sono i loro orgasmi. L’afflizione del documentario è
spesso destinata a donne che hanno ricevuto un acconto
per l’incontro e che sperano soltanto che lo show finisca
alla svelta e che la loro parcella sia saldata come promesso.
Ma a lui non importa. Ha dichiarato più volte – e
personalmente credo che sia sincero – di aver ignorato
che le avventure notturne si svolgessero avendo a monte
una parcella pagata da un ricco cliente. Il ricco cliente,
conoscendo la sua debolezza e la sua vanità, si ingegna a
portare interi carichi di fanciulle prezzolate, spesso con
l’intesa che non faranno sesso ma saranno soltanto un
elemento decorativo – le «ragazze immagine» – ma quel
che conta è che sia soddisfatta la sua fantasia di maturo
erotomane: gli stessi procuratori di personale femminile
fanno in modo che lui possa immaginare che queste
fanciulle siano lì soltanto per godere degli abbracci
sensuali di un signore di settantatré anni con i capelli tinti
e il viso rifatto, magari arrapate dalla sua potenza politica,
dalla sua immagine di maschio vincitore, ma allo stesso
tempo di un uomo gentile, femmineo, setoso, avvolgente,
canterino. Quando la escort Patrizia D’Addario racconta
gli amplessi di una notte a Palazzo Grazioli minuto per
minuto, si mostra esausta e annoiata dalla invadente
vitalità dell’imperatore, ma rivela al contempo un
dettaglio anch’esso molto italiano: Silvio Berlusconi non
usa il preservativo, si presenta nudo e senza protezione
all’avventura sul lettone di Putin, mescolando il proprio
corpo con quello di una professionista del sesso come se
avesse a che fare con una vergine condotta al suo tempio
per un amplesso rituale.
Il Cavaliere adora raccontare barzellette su se stesso,
specialmente quelle in cui lui è il protagonista (risultato
che ottiene riciclando vecchie storielle del genere) e in cui
può essere confrontato con Dio, Gesù Cristo, il papa.
Talvolta nelle sue stesse barzellette Berlusconi cammina
sulle acque, restituisce la vista ai ciechi o compete
direttamente con il Padreterno o col demonio. Non è un
uomo spiritualmente religioso ma considera la religione
cattolica come uno dei suoi campi da gioco. Considera i
papi come suoi compagni di tavolo e quando fu ricevuto
dal pontefice polacco Giovanni Paolo II, dopo la nomina a
Cavaliere del lavoro, riuscì a stupirlo assicurandogli che
lui, il papa, poteva continuare tranquillamente il suo
lavoro visto che vendeva un prodotto di successo – Dio –
e che dunque non doveva preoccuparsi per la sua attività
imprenditoriale di suo vicario in Terra, basata su un
prodotto di eccellenza. Karol Wojtyła lo guardò con
curiosità e sorpresa: nessuno aveva osato paragonarlo a un
commesso viaggiatore che vendeva il «prodotto Dio», ma
l’audacia della similitudine l’aveva colpito. Per Berlusconi
Dio e il papa equivalevano a Pippo Baudo, a Mike
Bongiorno, a un valido palinsesto in cui potevano giocare
le sue famose zie monache e il non meno famoso prete
della sua infanzia, che lanciava anatemi contro il
comunismo illustrando le angherie subite dalla «Chiesa del
silenzio» dell’Europa orientale.
Ed è questo dunque un ulteriore e importante elemento
italiano: un approccio d’affari alla religione, privo di
qualsiasi reale spiritualità; un rapporto di colleganza alla
pari con pontefici, cardinali e vescovi che – nell’insieme –
vale la noia di lunghe messe cantate e cerimonie
profumate d’incenso. Considera la religione un contesto
istituzionale e pratico in cui è solito muoversi con la stessa
allegra disinvoltura con cui si muove fra le ragazze che a
frotte gli siedono sulle ginocchia chiamandolo «papi», o
fra parlamentari allevati in batteria. In fondo, questo
aspetto lo rende di nuovo simile al borghese Napoleone
che si genuflette, compie i riti prescritti ma all’occorrenza
schiaffeggia il papa e gli strappa la corona per mettersela
in testa con le sue stesse mani. Il Cavaliere non
schiaffeggerebbe mai un papa fisicamente, a mani nude,
ma non esita a imbarazzare quello attuale in maniera
violentissima con uno stile di vita e con comportamenti
che contrastano brutalmente con la decenza minima
richiesta dalla pur elastica e indulgente Chiesa cattolica
apostolica romana. E in questo è italianissimo: Berlusconi
non ha rappresentanti cattolici in quanto tali nel suo
governo – composto quasi interamente da uomini e
donne provenienti dallo schieramento laico socialista, o
che sono semplicemente suoi amici o suoi dipendenti –
ma in compenso ha un rapporto personale, da capo di
Stato a capo di Stato, con Joseph Alois Ratzinger, che
considera un suo alleato.
Tuttavia non ha esitato a permettere al suo quotidiano di
famiglia – benché abbia formalmente preso le distanze
mostrandosi sorpreso e addolorato – di massacrare il
direttore del quotidiano dell’episcopato italiano,
rimestando in vecchie vicende giudiziarie che implicano
la dirittura morale sessuale del giornalista, costringendolo
alle dimissioni e provocando così una reazione infuriata
della Curia. Berlusconi, in questo caso, ha cercato di uscire
dall’imbarazzo mettendo in scena una piccola Canossa
all’aeroporto di Ciampino di Roma, quello da cui partono
tutti i voli di Stato sia italiani sia vaticani: ha forzato la
fortunata coincidenza di un atterraggio e di un decollo,
suoi e del papa, per imporre al pontefice un incontro a
braccia spalancate – «Caro, carissimo presidente...»,
«Santità...» – da rivendere sul fronte dell’immagine come
la prova provata di uno stato idilliaco di rapporti personali
fra lui e Dio, lui e Gesù Cristo, lui e il papa.
Naturalmente Ratzinger ha accettato di offrire questo
viatico al moribondo Berlusconi, devastato pubblicamente
dalle continue rivelazioni sulla sua condotta privata, e lo
ha fatto su espressa richiesta e devota pressione di Gianni
Letta, il potentissimo sottosegretario alla Presidenza del
Consiglio e, di fatto, vero capo del governo che lavora in
un silenzio che lo rende quasi invisibile. La toppa papale è
stata così messa al buco dell’immagine e Berlusconi ha
potuto spacciarsi nei telegiornali come il devoto leader del
governo cui il capo della cristianità tutto perdonava e nulla
aveva da contestare. Ma non è così. Benché Berlusconi
abbia freneticamente concesso alla Chiesa tutto quello che
poteva in materia di bioetica, creando problemi e
spaccature nella sua compagine governativa piuttosto laica
e di origine socialista, i suoi rapporti con il mondo
cattolico sono entrati in sofferenza per l’eccesso spudorato
dei suoi atti, per la continua affermazione del suo diritto a
comportarsi come meglio crede e a reagire alle garbate
critiche di un giornale cattolico con un attacco
termonucleare contro il suo direttore.
Tuttavia – ed eccoci tornare alla assoluta italianità del
fenomeno Berlusconi – la popolarità e il consenso dei
cattolici non sono entrati in crisi a causa del suo
comportamento sessuale. I sondaggi fra i cattolici di
centrodestra presentavano una lievissima flessione che
mostrava una caratteristica italiana e non berlusconiana:
cioè che l’atteggiamento puramente formale, rituale, di
parata e di facciata che Berlusconi pratica nei confronti
della Chiesa cattolica, teoricamente monopolista in fatto di
religione, resta condiviso dalla maggior parte degli italiani
che considerano la Chiesa un’istituzione che presta forme
e riti alla nascita, al matrimonio e alla morte dei battezzati,
i quali non vogliono altre intrusioni. Dunque per le masse
italiane di questo inizio di secolo Berlusconi è un buon
cattolico: sostanzialmente indifferente come credente,
grande scopatore e quindi invidiabile perché fa quello che
tutti vorrebbero fare. Formalmente devoto e rispettoso,
resiste alle intromissioni come più o meno tutti i cattolici
italiani, così lontani e diversi dai cattolici polacchi e
irlandesi.
E anche i non cattolici, gli atei, i liberi pensatori, coloro
che non hanno alcuna opinione o sentimento religioso,
trovano sì «scandalosa», ma in fondo «simpatica», la
sfrontatezza di Berlusconi perché la sentono, anche se non
in maniera confessa, loro consanguinea. Machiavelli
diceva che è tipico degli italiani combattere le battaglie in
maniera puramente formale: speroni di legno e segni di
gesso per indicare accampamenti che non ci sono, ma
sempre con un’istintiva propensione all’imbroglio e alla
resa, all’accordo con il nemico e al più disteso e non
conflittuale compromesso con una coscienza che,
malgrado saltuarie esibizioni di facciata, è un organo
atrofizzato, un po’ come il sacco del tuorlo con cui noi
umani veniamo al mondo a memoria del fatto che
discendiamo da creature e da tempi remoti in cui si
nasceva dalle uova. Dunque Berlusconi si muove come un
vero campione di italica ipocrisia, inclinazione
all’imbroglio e al compromesso, pronto a gettarsi fra le
braccia di un papa mentre ha ancora addosso il profumo
della escort cui ha mostrato i documentari della sua vera
religione: quella in cui lui, e lui soltanto, appare come un
dio, un superuomo, un tempio alla vanità.
Il Cavaliere adora esibirsi con le barzellette persino più
di quanto non ami sfoderare canzoni melense dalle rime
scontate e la metrica zoppicante. E adora quelle adattabili
alla sua persona, persino in senso negativo, purché sia
possibile citare se stesso. È un laborioso riciclatore di
storielle di epoca fascista, barzellette adolescenziali,
erotiche, politiche e comunque autocelebrative. La prima
volta che mi sorprese con una performance di questo
genere fu quando raccontò con un dilatamento dei tempi
terribile la storiella di quel tale – che il Cavaliere identificò
naturalmente con se stesso – che superava indenne tutti i
disastri aerei, gli incidenti automobilistici, le aggressioni
sanguinarie, sicché alla fine lo devono abbattere con una
fucilata in fronte affinché possa finalmente morire come
ogni essere umano. Tutto ciò che evoca il suo
superomismo lo manda in visibilio. Il suo però non è un
superomismo muscolare, come quello mussoliniano, ma
seduttivo, da ristorante, da night club, da crociera, da festa
in villa.
Preferisce quel genere di barzellette in cui un prote-
stante, un cattolico, un ebreo e un musulmano viaggiano e
uno deve essere buttato fuori. O in cui deve fare il
miracolo più sorprendente. Oppure le storielle sui viaggi
di nozze, del genere amato dai ragazzi delle scuole medie
davanti alle latrine nel quarto d’ora di ricreazione. Silvio
pensa che qualsiasi descrizione o allusione scabrosa e
volgare, filtrata dalla sua abilità di narratore diventi per ciò
stesso elegante, accettabile. È un narratore infaticabile e
implacabile, con un repertorio memorizzato, organizzato,
rinnovato, enciclopedico: tutte le barzellette del mondo gli
vengono recapitate ogni giorno in forma schematica dai
collaboratori che frugano fra libri, Internet, vecchi film,
spettacoli televisivi.
Lui legge, sceglie, rielabora e prova e riprova più volte
davanti a loro che annuiscono. Fino a un certo punto della
sua carriera non sbagliava i tempi del racconto, che era
proporzionato all’efficacia della battuta finale: il giusto
ritmo di questi spettacoli cui nessuno può sottrarsi
dimostrava fino al 2000 un equilibrio narrativo che era
anche sintomo di buona salute mentale. Poi però ha perso
il senso della misura e ha immaginato di essere un grande
attore teatrale, leggero ma geniale, uno che ammalia le
folle e che può tenere il palcoscenico a suo piacere per
un’ora, due, una notte, senza interruzione, come quando
fa sesso con una stanca escort che non vede l’ora di tornare
a casa e non subire più le infinite docce fredde cui è
costretta fra l’inizio e la fine degli amplessi.
La sua presunzione di poter durare tantissimo sia
nell’attività sessuale che in quella di narratore di
barzellette, dunque, ha fatto sì che si dilatassero i tempi
dei racconti fino a farli diventare banalissimi romanzi
ripetitivi, pesanti, prevedibili. Nel corso degli anni ho
assistito a decine di queste performance durante le quali ti
chiedi solo che faccia fare quando finalmente si sarà
arrivati al momento risolutorio di un finale già scontato,
annunciato, alluso.
Questi aspetti sono importanti se si vuole spiegare il
rapporto incestuoso fra Berlusconi e gli italiani, maschi e
femmine che non soltanto lo adorano, ma che restano
muti e ciechi di fronte ai suoi eccessi, alle sue gaffe, alle
sue indecenze e alle sue miserie. Le sue maniere da
vecchio intrattenitore da avanspettacolo fanno parte della
sua immagine così come lui l’ha costruita e accreditata. E
quell’immagine è calibrata sulla base, sul calcolo degli
ascolti televisivi, degli indici di gradimento, della
pubblicità.
Anche la sua infanzia, di cui a lungo parleremo in questo
libro dando la parola a Berlusconi stesso e a sua madre,
appare angelicata, una fanciullezza da romanzetto
edificante, ma al tempo stesso furba, affaristica: il ragazzo
industrioso che vende ai compagni i compiti di scuola per
il giorno dopo, impegnandosi a restituire i soldi se non
dovessero raggiungere la sufficienza, cosa che accade con
una certa frequenza. Ma nei suoi racconti d’infanzia,
corretti da vecchi compagni di scuola, lui è il bambino
d’oro, il giovane semidio, il campione della bontà e
dell’operosità, l’irresistibile. Quando era dai salesiani
coglieva ogni occasione, nel corso della vita scolastica e del
collegio (per un lungo periodo dormì in camerata con i
suoi compagni), per poter apparire in pubblico, che si
trattasse di accogliere un ospite illustre, oppure di recitare
una poesia o un discorso. La qualità di quel che faceva da
studente era in genere sufficiente o appena al di sopra del
minimo indispensabile, ma poi riusciva a strappare voti
eccellenti alla fine dell’anno sia perché si impegnava in
modo molto intenso, sia per la sua non meno intensa
politica di pubbliche relazioni. Cercava sempre di fare
buoni affari, sia vendendo le dispense degli appunti delle
lezioni universitarie, sia portandosi a casa dalla strada del
mercato tutte le cartacce raccolte per terra che poi
riduceva a palle di cartapesta vendute, nell’immediato
dopoguerra, come combustibile per stufe e camini.
Ricostruendo a posteriori la propria magica e semidivina
infanzia, eccolo descriversi come precoce imprenditore di
spettacolo con un temperino in mano per scolpire
marionette dalla corteccia degli alberi e facendo poi
pagare ad amici e parenti il biglietto. Alla madre e al padre
ripeteva continuamente di aver bisogno di fare affari da
solo, di essere il capo, di non poter tollerare superiori, di
non volere soci, di poter sviluppare la sua natura di
giovane aggressivo e costruttivo, seduttivo e indipendente.
Il padre Luigi disse che nella mania di comando del
figlio vedeva perfettamente tutto il suo carattere, talvolta
sgradevole, sprezzante, ma anche vincente. Sua madre mi
ha raccontato di averlo dovuto schiaffeggiare, già adulto,
per la sua arroganza. Mamma Rosa dev’essere stata una
madre che non le mandava a dire e che nelle occasioni
importanti non risparmiava gli schiaffi. Il Cavaliere
racconta che nel 1948, a dodici anni, partecipò attivamente
alla violentissima campagna elettorale da cui i comunisti
sarebbero usciti o vincitori o sconfitti, attaccando
manifesti anticomunisti sui muri milanesi. E poiché
copriva i manifesti dei comunisti con i propri, finì che
alcuni attivisti del partito gli dettero una brutta lezione
fisica (ciò probabilmente spiega anche la sua apparente
ossessione anticomunista). Ma quando tornò a casa pesto e
lacero, sua madre gli dette il resto per essersi ridotto in
quello stato ed essersi messo nella condizione di farsi
picchiare per strada. Ciò non gli impedirà, come vedremo,
di stringere un’amicizia ai limiti della relazione amorosa
con Vladimir Putin, ultimo capo della polizia segreta
comunista sovietica, restauratore del mito di Stalin nelle
scuole russe e nemico giurato di quei democratici
perseguitati che durante la dittatura comunista fuggirono
in Occidente «scegliendo la libertà». Putin li ha definiti
tutti traditori della patria e li ha marchiati a fuoco come
individui spregevoli e degni – questo non lo ha detto ma è
implicito – di essere uccisi (ha fatto un’unica eccezione per
l’ineludibile Aleksandr Solzenicyn, Premio Nobel e
monumento della dissidenza e della letteratura russe, a cui
ha concesso i funerali di Stato).
L’amico Vladimir infatti ha avuto l’accortezza nel luglio
2006 di far approvare dalla Duma, il Parlamento russo,
una legge che autorizza l’eliminazione fisica di tutti coloro,
russi o stranieri, che anche all’estero possano costituire
una minaccia per lo Stato. Tre mesi dopo l’approvazione
di questa legge che autorizza operazioni criminali e
segrete coperte dallo Stato, fu prima uccisa la famosa
giornalista Anna Politkovskaja e, dopo poche settimane,
l’esule Alexander Litvinenko che viveva a Londra e che era
la mia fonte riservata durante il periodo in cui fui
presidente della Commissione bicamerale d’inchiesta sul
dossier Mitrokhin. Quando Silvio Berlusconi si trovò di
fronte alla furia di Putin contro la Commissione
parlamentare che in Italia indagava sulla penetrazione
sovietica nel nostro Paese, non ebbe un attimo di
incertezza nello schierarsi di fatto al fianco dell’amico
Vladimir, contro il Parlamento del suo Paese e di cui era
espressione al governo.
In questo libro un capitolo illustra in modo dettagliato la
storia dell’amicizia fra Berlusconi e Putin, all’ombra del
più grande business dei nostri tempi, che è quello
energetico. Se in un primo momento aveva scelto l’edilizia
come attività in grado di fornire alti profitti, e poi la
pubblicità per lo stesso motivo, dagli inizi del nuovo
millennio Silvio Berlusconi ha differenziato le sue priorità
di uomo d’affari e si è gettato a corpo morto nel business
energetico: gasdotti, estrazione, distribuzione, con una
partecipazione così personale a questioni di politica
statale, da compiere visite private dall’amico Putin che
escludono il governo che guida, il ministro degli Esteri, le
commissioni Esteri di Camera e Senato. Berlusconi, come
Luigi XV, ha una sua personale politica estera che non
rende conto a nessuno, applaudita dai suoi e per la verità
poco osteggiata dalla parte ex comunista dell’attuale
coalizione di sinistra, storicamente favorevole a rapporti
speciali con la Russia.
Finge anche di non capire che Stati Uniti e Regno Unito
sono estremamente preoccupati e ostili alla sua politica
energetica, non per motivi d’affari e di concorrenza, ma
perché scorgano due effetti perversi nel suo matrimonio
con Putin: l’Italia (come la Germania finché è stata
governata anche dai socialisti filorussi dell’SPD) ha varcato
la soglia della dipendenza energetica dalla Russia, che la
rende ricattabile sul piano politico; inoltre, agendo di fatto
come un agente della politica russa, produce per conto di
Mosca un volume di affari enorme a favore dei russi, che
essi poi spendono in tecnologia militare e atteggiamenti da
grande potenza, situazione che alla lunga può comportare
gravissimi problemi strategici e fa ricomparire lo spettro
di una possibile futura guerra di cui nessuno sente il
bisogno. A questa obiezione i berlusconiani rispondono
furiosamente, coprendo ed esaltando il loro leader nello
stesso modo in cui lo coprono e lo esaltano a proposito del
sesso: Berlusconi fa gli interessi propri ma anche del suo
Paese, e chi lo combatte e lo ostacola – per esempio
americani e inglesi – lo fa soltanto per gelosia, per propria
impotenza e invidia nei confronti del nostro caro e amato
leader.
Il caro e amato leader del resto, come testimoniava il
padre Luigi e implicitamente conferma fra tante parole
d’amore e ammirazione Mamma Rosa, non tollera per sua
natura i controlli, vede male le critiche, non sopporta
«lacci e lacciuoli», vuole fare da solo, se ne fotte di
tradizioni e regole, non ha alcun rispetto sostanziale –
anche se obtorto collo è costretto a un rispetto rituale –
per regole, regolamenti, tradizioni democratiche e in
definitiva per Camera, Senato, Presidenza della
Repubblica, Costituzione. L’idea che una democrazia per
sua stessa natura debba consistere in una divisione di
poteri equilibrati, i cosiddetti checks and balances, pesi e
contrappesi, è da lui rifiutata attraverso l’introduzione del
concetto volontaristico e personalistico della cosiddetta
«politica del fare», la quale prescinde totalmente dal «che
cosa» fare, ma antepone ostilmente e con arroganza la
necessità del caro leader di fare quel che vuole alla
necessità di controllare e correggere quel che lui vuol fare.
Per lui è intollerabile da un punto di vista psicologico e
antropologico il concetto per cui una democrazia, per sua
natura, rallenta e non accelera i processi, dal momento che
li sottopone a controllo, mediazioni, contributi, correzioni.
Naturalmente esiste un limite alla misura desiderabile di
questo processo fisiologico di rallentamento della
democrazia, ma Berlusconi non lo prende in discussione:
lui vuole che il popolo lo ami, rida alle sue barzellette, gli
mandi idealmente le proprie figlie per una ripassata
notturna, lo adori per i suoi summit internazionali, gli
perdoni e anzi esalti le sue continue figure di merda di
fronte alla comunità internazionale, lo certifichi come il
buon padre di tutti, l’amministratore delegato di tutti,
l’amante di tutte le donne, il padre di tutte le figlie, il
capitano di ogni squadra di calcio specialmente il Milan e
la Nazionale, il miglior oratore, il più sentimentale e
tenero degli amici, il più generoso e disinteressato dei
miliardari.
I suoi nemici più rozzi e meno acuti pensavano e
scrivevano – credendoci – che il Cavaliere fosse in grado
di ipnotizzare attraverso il tubo catodico usando metodi
simili a quelli del viennese dottor Mesmer, che alla fine
del Settecento aveva fama di penetrare nelle menti dei
pazienti attraverso la scoperta del «magnetismo animale».
Non sapendo spiegare e non volendo ammettere le ragioni
del suo successo, molti hanno detto, pensato e scritto
questa sciocchezza: che Berlusconi sappia somministrare
messaggi subliminali attraverso le sue televisioni. In lui
non c’è niente di subliminale.
Silvio Berlusconi si è calibrato, costruito, dosato e
abbigliato usando come parametro il personaggio
televisivo. È stato un divoratore e un produttore di
televisione. Della tv non è mai stato un innovatore o uno
sperimentatore sofisticato, ma il contrario: ha acquistato e
diffuso vecchi film, ha comprato con somme enormi
personaggi che avevano già raggiunto la notorietà nel
servizio pubblico della RAI. Non ha mai usato il suo
enorme potere televisivo, cosa che gli rimproveravo ogni
volta che abbiamo avuto l’occasione di toccare questo
argomento nelle nostre sterili discussioni, per promuovere
cultura, per affrontare in modo onesto e completo i grandi
casi della storia e della politica. Non aveva e non ha il
minimo interesse per la promozione di quell’oggetto per
lui misterioso che si chiama cultura. In un discorso agli
autori di libri di successo a Segrate, quando diventò
proprietario della più grande e antica casa editrice italiana,
la Mondadori, disse brutalmente a scrittori e saggisti: «E
adesso, ragazzi, al lavoro. Rimboccatevi le maniche e
producete. Io faccio profitto con i vostri libri e voi fate
profitto con le vostre royalties. Quindi basta con la pigrizia
e i pensieri troppo profondi. Scrivete e portate i vostri
manoscritti».
La sua televisione è sempre stata una rimasticatura di
quella che già c’era, ma possibilmente a un livello sempre
inferiore, trash e popolare, senza rischi di novità e
andando sul sicuro con prodotti già sperimentati
attraverso l’evoluzione dei gusti popolari degli anni
Sessanta e Settanta, come prova il fatto che abbia speso
fiumi di denaro semplicemente per comprare magazzini
di vecchi film e magazzini di vecchie star che spesso, una
volta trapiantate dal servizio pubblico a quello privato,
perdevano il loro appeal e fallivano miseramente. In
pratica, acquisiva personaggi televisivi con lo stesso
criterio con cui ingaggiava calciatori. E il risultato finale
del profitto era pubblicità, dividendi e la diffusione di
un’immagine personale forte e saldamente radicata, come
un prodotto ben noto, strategia che ha costituito la
premessa naturale per il suo sbarco in politica di cui
vedremo i dettagli, ma che era certamente nelle sue corde
fin dalla giovinezza, quando aveva già sognato di diventare
un giorno il manager per di più amato dell’intero Paese e
di spacciare i suoi interessi personali per interessi generali.
In questa confusione fra pubblico e privato, conoscendolo,
devo dire che è persino sincero: da vero narcisista ignora
che esistano dei limiti, delle frontiere, delle righe per terra.
Il narciso non riesce mai a definire la separazione fra il sé
e il resto del mondo, esattamente come fa il bambino che
conosce soltanto se stesso e i propri bisogni, scambiando
anche la pioggia e il freddo come parti del suo corpo.
Berlusconi è un bambino evolutissimo ed estremamente
scaltro nel soddisfare le sue esigenze e il suo ego, ma
proprio per questo è assolutamente al di là di quella linea
che permette alle persone adulte di comprendere confini e
separazioni, regole e limiti. Per lui ogni ostacolo è un
sopruso. E forse, a causa del fatto che gli attacchini
comunisti lo picchiarono da ragazzino, tende a dare
sempre la colpa di tutto ai comunisti (che di colpe
autentiche ne hanno molte), anche quando questa sua
tendenza diventa comica e grottesca. Ma ha fatto in modo
che tutti i comunisti che guardano le sue televisioni e che
fanno il tifo per la sua squadra di calcio, il Milan, finissero
talvolta per avere nei suoi confronti una certa indulgenza,
se non tenerezza.
Quello del calcio è ovviamente un aspetto squisitamente
italiano, perché possedere una squadra e portarla alla
vittoria, investire fortune per comprare divi del pallone,
significa assicurarsi l’attenzione di un intero popolo che al
mattino e alla sera si rifugia nei bar, litiga e si azzanna per
definire le formazioni, e discute di calcio senza
interruzione, sintonizzato sulle stazioni specializzate.
Berlusconi appare negli stadi come un imperatore romano
che abbia schierato in campo i suoi gladiatori, con cui ha
un rapporto strettissimo, da allenatore, da stratega, da
capitano: tutti i ruoli sono i suoi e non ne lascia molti agli
altri.
Anche quando cerca di calzare i panni del grande
statista, non sa evitare gli atteggiamenti dell’uomo di
spettacolo, da piccolo palcoscenico. Sono infiniti i filmati
degli incontri internazionali in cui non sa trattenersi
dall’apparire come il padrone di casa anche quando è solo
un invitato. Chiama e si fa rispondere, ammicca, ride,
lancia battute in una lingua che nessuno ha mai saputo
decifrare, ma che dovrebbe essere nelle sue intenzioni una
sorta di inglese. Con il francese se la cava meglio per via
delle tante canzoni imparate a memoria e poi cantate in
gioventù nelle crociere e durante il suo decantato periodo
estivo alla Sorbonne a Parigi, quando però finì per
mescolarsi col personale d’avanspettacolo facendosi
inghiottire dal mondo delle spogliarelliste.
Il Cavaliere adora rivedere e ritoccare il proprio passato
di giovane prodigio e poco manca che racconti di essere
stato trovato in un cesto sulle acque di un Naviglio, di
discendere da un dio della cintura milanese, di aver
discusso con i dottori del tempio, certamente di aver
camminato sulle acque, resuscitato qualche moribondo e
guarito lebbrosi e paralitici.
Berlusconi è dunque l’arcitaliano allo stato puro. Se non
avesse un accento sgraziatamente brianzolo potrebbe
essere un personaggio di Alberto Sordi. Oppure far parte
del ciclo cinematografico di Amici miei: basterebbe
l’episodio, unico ed esilarante del pullman pieno dei
vecchioni, che lo sostenevano nella sua attività edilizia, che
arrivano in cantiere con le loro signore ingioiellate e
avvinazzate, scendono e cominciano a pisciare contro il
muro del portico così, per far festa, per far casino, per
mostrare quanto lo amano e si fidano di lui. Basterebbe la
sua carriera di studente chansonnier a Parigi quando suo
padre ne perde le tracce e si rivolge all’ambasciata, che lo
rintraccia a casa di una streapteaseuse (allora non si
chiamavano escort) per cui lui fa il ganzo, il convivente, la
guardia del corpo e il buttafuori. Si dà arie da fico, pronto
a prendere a pugni i marines americani ubriachi che
allungano le mani. E poi la scena, vera o falsa che sia, di lui
che dipinge i muri delle case che sta vendendo e quando
arrivano i clienti fa finta di essere suo cugino, sparisce e
ricompare vestito da cugino del cugino in abiti civili e col
fiatone.
Certo, queste sono le storie edificanti, furbette,
italianissime, un po’ cialtrone e un po’ vincenti della sua
vita. Una mamma piccolissima che un giorno s’incavola
con lui, sale su una sedia e gli molla una sberla da fargli
girare la testa. E lui che si mette a urlare che è un uomo,
ormai, è già presidente di questo e di quello, e lei minaccia
di dargli un’altra sberla garantendogli che gliela darebbe
anche se fosse presidente della Repubblica.
Il Cavaliere è per una grande parte degli italiani come il
test delle macchie d’inchiostro che non significano niente,
ma nelle quali ognuno vede se stesso. Ora, Berlusconi
vince, diventa ricco, cade, risorge, munge la mucca per
nutrire la sorellina neonata mentre la madre, sempre
eroica, marcia nella neve e tornando in treno salva una
donna ebrea dalla furia di un nazista (uno degli episodi più
gettonati della biografia berlusconiana), Berlusconi che
elargisce denaro ai poveri, che regala buste con
cinquemila euro alle ragazze che lo chiamano «papi», e poi
tutto quell’esercito di energumene con le tette di fuori
venute dall’Est, che fanno a gomitate per conquistare le
sue grazie.
Basta leggere la cronaca minuto per minuto che Patrizia
D’Addario ha raccontato nel suo libro Gradisca, Presidente1
sulla notte di sesso e di docce, per capire che abbiamo a
che fare non tanto con un tipo eccezionale, ma con un
uomo che racchiude in sé, esaltato all’ennesima potenza, il
peggio del peggio dell’italiano un po’ bauscia, che però
all’occasione è anche napoletano, strazia la chitarra e canta
l’ammore con il core, e si circonda di un corpo di ballo di
signorine tutte uguali, indistinguibili, intubate nel tubino
Armani, senza gioielli e poco trucco come piacciono a lui.
Sceglie la compagna della notte frugando nelle mutandine
mentre parla d’altro. Parla d’altro ma sullo sfondo, come
se fossero le vampe di fuoco di un pacifico caminetto, le
lingue di due lesbiche in amore decorano la stanza. Il
piano suona in sottofondo mentre l’imperatore, come lo
chiama Veronica Lario, si avvia verso la camera da letto
(con il «lettone di Putin») e la santa processione delle
fanciulle in tubino, sacerdotesse imenee, lo segue a
distanza mentre lui tiene per le braghette la prescelta e la
tasta, la infibula, la sonda, la spinge, le ordina di
distendersi sul lettone e chiude la porta. È la scena in cui
tutti si dileguano, ma restano pronti a esistere. Il
pianoforte suona nel buio accordi e melodie da coito. Il
letto cigola, chissà se c’è stata la punturina. Probabilmente
sì perché, dice la D’Addario, lui cavalca come un montone
e dai una, dai due e dai tre, ogni tanto si addormenta sul
pezzo e la partner pensa che abbia avuto un coccolone
mentre invece sta solo russando. Si alza, si fa una doccia
gelida, la impone alla disgraziata che starnutisce e si
ammala e poi la cavalca ancora, appassisce, si assopisce,
dorme come un pupo, si risveglia, chiede il caffè. Vuole
l’aranciata e poi è pronto di nuovo a saltare addosso alla
creatura catturata e noleggiata, ma che vorrebbe solo
calarsi fuori con una corda e sparire.
E poi la mafia. Berlusconi giura e spergiura di non aver
mai avuto nulla a che fare con lui, e potrebbe forse anche
avere ragione. Ma è certo che ha una iella terrificante. A
me raccontò, e risultò poi una balla, che il famoso stalliere
Mangano era già lì, nella tenuta di Arcore, che curava i
cavalli come un bravo fattore, mentre era già inseguito da
mandati di cattura per omicidio. Poiché me lo disse in un
periodo in cui avevo ancora una certa fiducia in lui, scrissi
e sostenni questa versione, che mi provocò insulti di fuoco
e derisioni da parte di persone come Marco Travaglio. Poi,
riascoltando i nastri dell’intervista che mi aveva dato sua
madre nel 2000, ritrovai le stesse parole: Silvio trovò
questo Mangano dentro la villa e ignorava chi fosse e i suoi
precedenti. Poi saltò fuori che questo Mangano non era
stato affatto trovato fra le selle e le zolle, ma fu assunto
attraverso Marcello Dell’Utri il quale, essendo palermitano
e occupandosi di una squadra di calcio locale, si trovò per
forza di cose, così si disse, esposto a incontri con la mafia.
La versione ufficiale fu un po’ modificata: chi lavora con i
siciliani si trova necessariamente ad avere a che fare con la
mafia, un po’ come chi lavora con gli altoatesini si trova
per forza ad avere a che fare con gente di lingua tedesca.
Tesi che ha una sua consistenza e una sua evidente
fragilità. Poi saltò fuori che Mangano aveva avuto
l’incarico dalla mafia di rapire Berlusconi, o almeno un
suo ospite, e poi i suoi figli. Ora, questo è strano: la mafia
siciliana non è la malavita dei pastori sardi e non pratica il
rapimento, e comunque mai fuori dalla Sicilia. Eppure
nasce una storia confusa in cui questo Mangano, che non
era già lì ma fu fatto credere si trovasse lì, che era un
rapitore ma non rapì nessuno, diventò una sorta di angelo
custode dei figli di Berlusconi, che accompagnava a scuola
guidando la macchina del Cavaliere. Intanto Dell’Utri è
sotto processo per vicende di mafia, è già stato condannato
in primo grado ed è in attesa, mentre questo libro va in
stampa, del processo d’appello. Dell’Utri, un placido
bibliofilo dall’eloquio lento e prudente e dal carattere di
ferro, grazie al quale non perde mai le staffe, è l’uomo che
per conto di Berlusconi trasformò nell’estate del 1993 la
società Publitalia nel partito politico Forza Italia,
riciclando e convertendo la capillare organizzazione di
raccolta di ordini pubblicitari in un’organizzazione
territoriale capillare e formata da elementi
disciplinatissimi, in quanto dipendenti, impiegati,
procacciatori di pubblicità, dirigenti. Moltissimi di loro
diventeranno deputati e senatori.
Ma torniamo alla mafia. I rapporti personali fra Dell’Utri
e Mangano sono stati dimostrati, anche se il primo
afferma (Mangano nel frattempo è morto di cancro
mentre scontava l’ergastolo) che si trattava di rapporti
innocenti basati sulla comune passione per i cavalli e le
scommesse sulle corse equestri. Sta di fatto che Mangano
fu arrestato, processato, riconosciuto colpevole di una
serie di efferati omicidi, condannato al carcere a vita e
morì piantonato dagli agenti di custodia in una clinica.
Mangano è anche la causa della sventurata frase
pronunciata da Berlusconi che lo qualificò come «eroe»,
fatto che diventò presto un marchio a fuoco per la sua
immagine e che gli viene ricordato ogni volta che
l’argomento mafia torna di attualità.
Ma la questione dell’«eroismo» di Mangano ha una
spiegazione, secondo il Cavaliere, relativamente
ragionevole. Egli sostiene che, quando Mangano si trovava
in carcere e gravemente malato, alcuni magistrati
tentarono di fargli rilasciare una deposizione in cui
affermasse che Berlusconi era un mafioso in affari con la
mafia e che lui ne era al corrente e anzi svolgeva il ruolo di
suo controllore per conto dell’organizzazione. L’«eroismo»
di Mangano sarebbe consistito nel resistere a questa
richiesta, che avrebbe comportato per lui il vantaggio di
un immediato ricovero in un ospedale specializzato in
oncologia, che gli avrebbe garantito tutte le cure
necessarie e un trattamento umano più accettabile.
Secondo la versione di Berlusconi il criminale Mangano
rifiutò di mentire per trarne un vantaggio personale,
sicché restò in cella fin quasi al giorno della sua morte, dal
momento che il suo ricovero avvenne soltanto
nell’ultimissima fase della malattia. Per questo motivo,
sostiene il Cavaliere, anche se non c’è il minimo dubbio
che si trattasse di un grande criminale e di un killer della
mafia, Mangano si comportò eroicamente perché non
volle trarre vantaggi da una bugia che avrebbe massacrato
Berlusconi e garantito a lui migliori condizioni di vita.
L’imprudenza con cui parlò dell’«eroismo» di Mangano gli
valse meritate contumelie: restava il fatto che aveva
elogiato un pluriassassino con cui aveva condiviso un
passato oscuro, nato nelle stalle e concluso con l’esplosione
di una bomba contro il muro di cinta della sua proprietà.
Il Cavaliere è un mentitore molto scaltro e organizzato,
e lo teorizza. Dice di doversi difendere e che alla guerra si
va come alla guerra. Di fatto ha causato e accentuato la
frattura del nostro Paese in due e il suo progetto di essere
il più amato dagli italiani si è realizzato solo in parte.
Come vedremo più avanti, berlusconismo e
antiberlusconismo nelle loro forme più ossessive sono
diventati due piaghe della nostra società, o meglio
un’unica piaga della stessa malattia.
1. Patrizia D’Addario, Maddalena Tulanti, Gradisca,
Presidente.Tutta la verità della escort più famosa al mondo,
Aliberti, Reggio Emilia 2009.
) ( 1 2 0 ( 1 2 / 2 * , $  ' ,  6 , /9 , 2
%(5/86&21,

Sarebbe del tutto inutile scrivere un libro su Silvio


Berlusconi (ce ne sono decine) senza affrontare insieme i
due fenomeni che accompagnano questo inconsueto e al
tempo stesso italianissimo personaggio. E cioè: il
filoberlusconismo cieco e assoluto come una religione e
l’antiberlusconismo altrettanto cieco e assoluto come una
religione. Questi due fenomeni connessi sono alla fine
persino estranei al personaggio Berlusconi: sono lo
specchio, spaccato in due, dell’Italia alla fine del 2009.
Per meglio spiegare quel che intendo sarà utile ricorrere
a un esempio utilizzato dalla psicologia della Gestalt e
noto a tutti: quello del disegno di un vaso che può essere
però visto come due profili umani che si fronteggiano. Il
punto è che se vedi il vaso non vedi i profili e viceversa.
Si potrebbe costruire una gag teatrale in cui due
personaggi litigano fino a uccidersi perché non riescono a
comprendere che là dove uno vede i due profili, l’altro
vede invece un vaso da fiori e soltanto quello. In realtà il
disegno è neutrale, entrambe le interpretazioni sono
valide, ma è la dimostrazione che il cervello umano non è
in grado di percepire allo stesso tempo sia il vaso che i due
volti, ma può farlo soltanto in fasi successive o per alcune
persone, non riuscirci mai.
Alla fine del primo decennio del nuovo secolo, gli
italiani, nella loro stragrande maggioranza, sono divisi in
maniera molto drammatica allo stesso modo, e si tratta di
una separazione che li rende furiosi. Chi vede Berlusconi
come un portatore di significati positivi lo fa ormai in
maniera tetragona, impermeabile a qualsiasi
ragionamento, direi patriottica e in genere anche piuttosto
aggressiva (e questo, come vedremo, è un elemento di
novità). Ovviamente quello che succede nel campo
opposto è lampante: la percezione di Berlusconi come
agente del male è altrettanto e forse più radicata, ma quel
che importa è prendere nota che i due campi sono
completamente ciechi nei confronti dell’altro disegno.
Vorrei chiarire subito: non sto prendendo una posizione
da “pesce in barile”, equidistante e fintamente neutrale. È
proprio il contrario: io ho lasciato clamorosamente e
apertamente Berlusconi e il suo partito, gli ho rivolto gravi
e pesanti accuse e mi auguro, per il bene dell’Italia, che
quest’uomo esca dalla scena politica e lo faccia in modo
politico, visto che gode indubbiamente di una
legittimazione democratica, anche se in questo senso ha
barato molto: ha modificato silenziosamente la
Costituzione materiale, e ora protesta che è tempo di
aggiornare quella formale a sua immagine e somiglianza,
un po’ come si fa l’upgrade di un software quando è
disponibile un aggiornamento su Internet.
Dunque non sono affatto neutrale: ho fatto la mia scelta
e ho deciso – dopo essere uscito dalle file del partito di
Berlusconi – di battermi apertamente contro il suo
governo, i contenuti e lo stile del suo modo di fare il
presidente del Consiglio dei ministri (che non è un
“premier” o un “primo ministro”, benché lui giochi invece
con questi due attributi cui non ha costituzionalmente
diritto), contro la sua personale e arbitraria politica estera
filorussa, contro l’effetto pubblico del suo stile di vita
privato, contro il costante progetto di degradazione della
figura delle donne, contro la vocazione alla dittatura
interna al suo partito e la sterilizzazione del Parlamento,
della Costituzione e del ruolo del presidente della
Repubblica. Tutto ciò l’ho dichiarato pubblicamente più
volte e dunque, quando parlo dell’incomunicabilità
tragicomica degli italiani divisi dall’effetto Gestalt, non
intendo affatto sostenere che la figura di Berlusconi sia un
disegnino in sé neutrale che può essere guardato
onestamente in un modo o nell’altro, tanto è soltanto una
questione di punti di vista.
E aggiungo che da qualche anno mi sento
profondamente umiliato dal tassista parigino, dalla mia
vicina di casa negli Stati Uniti, dal giornalista inglese, o dal
turista spagnolo, perché tutti trovano il modo di
comunicarmi ridendo e irridendo, o mostrandosi
compunti come a un funerale, che l’immagine, la persona,
la presenza, l’azione internazionale di Berlusconi
costituiscano uno schiaffo all’Italia e anche un pericolo, un
cattivo esempio e la prefigurazione di quel mostro
orwelliano, di cui si parla sempre molto ma che è difficile
definire, che è la telecrazia, il potere esercitato attraverso
lo schermo televisivo. Dico subito che non credo affatto
che Berlusconi sia arrivato dove è arrivato soltanto grazie
all’accesso ai media e perché è un magnate della tv. Penso
piuttosto che Berlusconi sia un eccellente comunicatore e
che la sua eccellenza consista specialmente nell’abbassare e
mantenere basso il livello del suo uditorio, sicché il suo
messaggio possa essere compreso in maniera elementare
ma efficace da tutti. Il messaggio da solo poi non basta e
occorrono anche l’emozione, il trucco di scena, la
teatralità, l’abilità da palcoscenico, tutte doti che
Berlusconi possiede, anche se a un livello che non supera
di molto gli intrattenitori alberghieri delle serate estive. La
capacità comunicativa gli porta il consenso liberatorio di
tutti quegli italiani che, per decenni, hanno vissuto la
politica in modo irato, vendicativo, ostile, perché la
politica per definizione in Italia è incomprensibile,
misteriosa, riservata a una casta, nemica del popolo che
chiede “cose concrete”. E a questa elementare richiesta
Berlusconi ha risposto prontamente inventando una
formula vuota ma pienamente soddisfacente, che è quella
della “politica del fare”. Una politica che così espressa non
significa assolutamente nulla: fare cosa? Con quali soldi?
Con quale progetto? In vista di quale idea generale di
Paese e di futuro? Non si sa. Anzi, non si deve sapere. La
politica del fare è di per sé fumo negli occhi ma che dà in
pasto al popolino (non saprei come altro chiamarlo,
benché sia un popolino anche alto-borghese) l’immagine
mussoliniana dell’uomo infaticabile che nella notte, a
lume di candela, mentre l’Italia dorme, lavora e risolve i
problemi, uno dopo l’altro. E quando il Paese si risveglia,
lui si rade, si lava i denti, siede sul gabinetto, fa una doccia
ed è pronto come nuovo a fare, fare e ancora fare, senza
dormire, senza nemmeno riposare, instancabile,
inossidabile, con i suoi capelli appiccicati alla testa come
una protesi di plastica di un colore indefinibile.
La “politica del fare” ha un precedente filosofico, quello
del pragmatista americano William James, amato da
Giovanni Papini e dal sindacalista rivoluzionario Georges
Sorel, ispiratore dei fascismi. Secondo il pragmatismo di
James, tutto ciò di cui ha bisogno il politico è la “volontà di
credere” e di adeguare – e imporre – la sua azione alle
circostanze. In diverse interviste Benito Mussolini disse
che William James era uno dei tre o quattro filosofi che
più avevano influito sulla sua vita. Un articolo sul Duce del
1926 dell’americano «Political Journal Quarterly», poi
sviluppato in un libro, si intitolava The Prophet of the
Pragmatic Era in Politics (Il profeta dell’era pragmatica in
politica). Questa era la “politica del fare” negli anni Venti.
Sarebbe troppo facile cedere alla battuta e dire che
l’unica cosa politica che Berlusconi fa veramente in modo
professionale sono i fatti suoi, il fare per se stesso. E,
paradossalmente, anche questo aspetto utilitaristico,
personale, parassitario è percepito dal suo popolo come
una virtù: ecco un uomo che è inseguito da accuse
giudiziarie di corruzione, in costante pericolo di galera,
che vive camminando su una corda sopra un lago pieno di
coccodrilli, eppure questo diavolo d’un uomo, mentre si
aggiusta i processi e fa affari con Putin, allo stesso tempo
fa il bene di tutti, risana il Paese, riforma la giustizia a sua
immagine e somiglianza ma con vantaggio generale,
diventa sempre più ricco ma promette di condividere
sprazzi di benessere o almeno di parare per tutti la valanga
della crisi economica.
Quindi nessuna equidistanza rispetto a quest’uomo e a
ciò che rappresenta. Tuttavia isolare la persona e il caso
Berlusconi dal contesto dell’Italia in cui persona e caso si
sviluppano e assumono le proporzioni che hanno,
vorrebbe dire barare. In questo libro descriverò alcuni
aspetti fondamentali della vita e della politica
berlusconiana, ma quel che mi importa di più è l’Italia in
cui questa politica si svolge e si sviluppa, prende
consistenza e, almeno finora, vince.
C’è un punto per me fondamentale che tutti gli studi e i
pamphlet su Berlusconi trascurano. Ed è il vuoto
pneumatico, benché saltuariamente isterico,
dell’opposizione di sinistra. La sinistra si è sempre opposta
a Berlusconi in modo personale, trattandolo come un
singolo caso umano. Un caso giudiziario, un caso
caratteriale, un caso finanziario, industriale, sessuale,
comportamentale, diplomatico, ma sempre e soltanto un
caso. Per questo ha perso sempre miseramente e seguiterà
a farlo, fino a diventare insignificante. La sinistra non ha
mai non dico capito, ma nemmeno tentato di capire le
ragioni del successo politico del Cavaliere, che sono
ragioni spesso estranee persino alla sua volontà razionale.
Sarei tentato di dire hegelianamente che Berlusconi si è
fatto gonfiare le vele dal vento della storia perché ha avuto
l’accortezza di issarle là dove sarebbe passato quel vento,
ma sarebbe una spiegazione troppo teatrale e pomposa.
Diciamo più semplicemente che Berlusconi ha saputo
dare voce a quel che una larghissima parte degli italiani
voleva, a differenza delle sinistre.
Nemmeno ciò che resta del vecchio Partito comunista
ha saputo fare una semplice e spietata analisi, al termine
della quale avrebbe dovuto idealmente prendersi a schiaffi
davanti a uno specchio. Ricordo che, quando esisteva il
vecchio Partito comunista, che certamente non amavo ma
che consideravo una delle cose più serie dell’Italia di
allora, esisteva anche il settimanale del partito, «Rinascita»,
che era grigio e noioso, con una grafica severa e scostante,
ma con caratteri chiari e limpidi. Dopo ogni tornata
elettorale italiana, a distanza di qualche settimana, si
poteva leggere su «Rinascita» un’analisi dettagliata e
spietata di quel che era accaduto: tabelle, percentuali,
numeri, statistiche, grafici, analisi, commenti oggettivi e
privi di qualsiasi trucco ideologico o propagandistico. Era
quello il PCI della realtà, lo stesso partito regolarmente in
grado di battere il Viminale la sera delle elezioni fornendo
dati precoci e centrati, perché poteva vantarsi di affondare
le radici nel Paese più o meno come la Chiesa e l’Arma dei
carabinieri.
Quel partito era capace di radiografare l’Italia e di
prendere decisioni e formulare strategie che partissero dal
principio di realtà, e non dalle fantasie. Oggi non abbiamo
a sinistra nulla del genere: né un centro di ascolto
dell’Italia oscura, né un centro di elaborazione di un modo
di parlare a quell’Italia sconosciuta.
La sinistra italiana, ideologica o giustizialista, ha
preferito la scorciatoia. Attaccare per molti anni l’uomo
dipingendolo con le tinte più feroci (e se vogliamo quasi
tutte perfettamente appropriate), ma di fatto attaccando
una parte importante e talvolta maggioritaria del Paese
che sta con Berlusconi. La sinistra, incapace di affrontare e
fronteggiare la crescita del fenomeno berlusconiano, ha
optato per la politica dello struzzo e ha attaccato a testa
bassa, oltre a Berlusconi, i suoi elettori, del tutto
impassibile di fronte al fatto che una larga fetta di quegli
elettori erano gli stessi che prima avevano votato per lei.
Nel frattempo l’intellighenzia di sinistra non è riuscita a
sottrarsi alla tentazione di dire che chi vota per il Cavaliere
o è un imbecille, o è un disonesto, oppure nel migliore dei
casi non sa nulla ed è disinformato. E questo perché
appare ovvio che, se una persona è onesta, intelligente e
informata, non può certamente essere berlusconiana. È
stato un grave errore di miopia. Questo pregiudizio
altezzoso ricorda una vecchia barzelletta dell’Italia fascista:
«Il Duce ha detto che il perfetto italiano è intelligente,
onesto e fascista. Ma poiché la perfezione non è di questo
mondo, se è intelligente e fascista non è onesto, se è
onesto e fascista non è intelligente e se è onesto e
intelligente non è fascista». La sinistra italiana, forse senza
saperlo, ha applicato la struttura di questa storiella ai
berlusconiani: se sono onesti e intelligenti, e informati,
non possono votare per il Cavaliere. Se sono berlusconiani
non possono che essere sciocchi, o disinformati o
disonesti.
Questo errore madornale ha aggravato l’effetto Gestalt
del vaso e dei due profili. Tutta quella larga parte dell’Italia
che si sente rappresentata da Berlusconi e che non è
stupida, né disinformata e tantomeno disonesta, si è
sentita e si sente profondamente offesa dal vuoto
snobismo di certa sinistra e in genere
dall’antiberlusconismo radicale che non ha mai voluto
affrontare e discutere questo problema: come mai il seme
berlusconiano attecchisce anche fra persone colte, buone,
intelligenti e oneste?
Se la sinistra, o anche semplicemente chi davvero vuole
liberarsi di Silvio e del suo ingombrantissimo peso, avesse
avuto l’umiltà, la dolorosa pazienza e l’intelligenza di
affrontare il problema degli italiani che appoggiano
Berlusconi, invece di riempire soltanto di contumelie lo
stesso Cavaliere per i suoi capelli tinti, i tacchi alti e la
parlata brianzola, le gaffe e le avventure di letto, avrebbe
potuto passare alla fase successiva di un tale duro e
necessario esercizio. Quella di elaborare un messaggio
indirizzato proprio agli italiani che votano e applaudono
Berlusconi, mettendosi in aperta concorrenza con lui.
E qui dobbiamo prendere nota di un secondo e
conseguente punto. Che consiste proprio nel “parlare al
cuore”. Il cuore, nel senso dei sentimenti semplici, è un
organo molto elastico e dilatabile, non ha una forma
molto definita, ma è quell’insieme di sensibilità sulle quali
in America ha puntato Obama, vincendo. Il fatto è che in
tutto il fronte antiberlusconiano che si schiera in
Parlamento e nel Paese, sui giornali e nelle televisioni
(sempre meno, perché stavolta Berlusconi ha giocato duro
e ha chiuso o ovattato molte bocche) non c’è traccia –
encefalogramma piatto – di un messaggio complessivo
che equivalga a un sogno. La sinistra, di sua natura e per
sua storia e tradizione, fa sognare. Essere di sinistra
significava fino a qualche decennio fa, anche se in modo
vago e indistinto, aspirare a un mondo migliore,
fantastico, irreale (anche se poi il socialismo reale era un
unico campo di prigionieri politici costellato di lager e di
ospedali psichiatrici per chi non si uniformava – ma in
Russia ancora oggi per chi non si uniforma – alla parola
dell’amato leader e del partito guida).
Ma in Italia, in Francia, nell’Europa occidentale e negli
Stati Uniti, la sinistra ha sempre avuto questa caratteristica:
il sogno, l’utopia, l’irrealizzabile, la rivoluzione, i
movimenti, le grandi sfide anche quando erano posticce,
fallimentari, o inutilmente generose. Invece, nulla. La
guerra che la sinistra italiana ha condotto contro
Berlusconi è stata rabbiosa, sarcastica, sprezzante,
insultante, ma vuota. Essa prima di tutto ha rinunciato a
contendere a Berlusconi il suo elettorato, una nuova
prateria del tutto diversa dai pascoli elettorali della Prima
Repubblica. Capiva la portata politica dell’impatto
televisivo berlusconiano ma non ha trovato il modo di
crearne uno proprio, e più che altro di individuare un
leader. L’ultima vera grande guida che ha avuto la sinistra
italiana è stato Enrico Berlinguer e – in uno spazio di
nicchia assediato dalle stesse truppe politiche e
giornalistiche che poi hanno vanamente dato l’assalto a
Berlusconi – è stato Bettino Craxi l’ultimo uomo politico
contro il quale l’attacco da sinistra è stato efficace e
devastante, nel primo sistema a tenaglia, politico e
giudiziario.
Del resto, come vedremo, Craxi è stato il sostenitore di
Berlusconi, colui che gli ha permesso di conquistare le
frequenze televisive in cambio di un appoggio continuo e
robusto, e che ha sempre guardato a Berlusconi con quel
misto di affetto e di disprezzo che spesso emergeva dalle
sue confidenze, di cui in questo libro si trovano alcuni
esempi. Ma Craxi, a differenza di Berlinguer, non
incantava le masse. Incantava soltanto socialisti che non
vedevano l’ora di sganciarsi dal dominio anche psicologico
e ideologico dei comunisti e di rompere il vecchio schema
del vero bipolarismo che funzionava in Italia, cioè quello
della Democrazia cristiana e del Partito comunista,
ciascuno con i propri alleati e sempre all’interno di uno
schema di gioco in cui i due partiti maggiori trovavano e
mantenevano un’intesa fra loro, quello che poi si è
chiamato consociativismo e che storicamente è la
conseguenza della comune rinuncia, in piena guerra
fredda, a un confronto devastante che avrebbe potuto
abbattere le dighe che contenevano una continua voglia di
guerra civile.
La voglia di guerra civile, anche se mentale e non fisica,
ma sempre oltre i normali limiti di una competizione
politica anche dura nelle democrazie occidentali, è una
delle caratteristiche italiane che si sono trasmesse di
generazione in generazione nell’ultimo secolo e che
ancora riverberano sullo sfondo della lotta politica del
periodo berlusconiano. A tal proposito, è bene fare una
precisazione, o meglio una correzione importante. Si sta
diffondendo, alla fine della prima decade del
Ventunesimo secolo, una sorta di mantra secondo cui
l’Italia si trova sotto i tacchi truccati del Cavaliere da
quindici anni, cioè da quando nel 1994 il suo ingresso
ufficiale in politica portò alla sua prima vittoria e al primo
governo. Questo mantra dice il falso. È vero che
Berlusconi è politicamente presente e anche incombente
da allora – e come vedremo anche da un anno prima, dal
1993 – ma è anche vero che la sua presenza al governo è in
questo periodo di soli sette anni, contro gli otto governati
dal centrosinistra: governò appena otto mesi nel 1994 per
essere poi rovesciato dal cosiddetto ribaltone, poi cinque
anni pieni dal 2001 al 2006 e, infine, mentre questo libro
va in stampa, un anno e mezzo dalle elezioni che ha vinto
nel 2008. E soltanto in questo ultimo anno e mezzo, libero
quasi interamente (fatta eccezione, cioè, per la dissidenza
forte ma quasi soltanto personale dell’ex leader di Alleanza
nazionale, ora presidente della Camera, Gianfranco Fini)
dal peso di alleati insofferenti nei suoi confronti – come
era accaduto nel suo primo governo di legislatura quando
Casini e Fini lo contestavano e lo correggevano
infastidendolo – Berlusconi ha manifestato la sua natura
di leader non democratico, non parlamentare, di un
populismo tendenzialmente simile a quello del suo grande
amico Vladimir Putin. L’uomo che ha rivalutato Stalin, ha
difeso e difende il passato dell’Unione Sovietica, reprime
la stampa libera, riempie il Parlamento, la Duma, con i
suoi uomini reclutati prevalentemente fra le forze armate
e i servizi segreti. Berlusconi preferisce, come tendenza
personale, riempire il Parlamento di belle ragazze e
innocenti ragazzoni reclutati non per le loro qualità
intellettuali ma secondo gli stessi criteri di sex appeal che
si usano per selezionare attricette e veline, showgirl e
presentatrici, “ragazze immagine” e miss Italia. Poiché in
Italia la laurea è svalutatissima e raggiunta da una quantità
inutilmente enorme di cittadini, è per lui facile creare una
casta di ragazze sessualmente attraenti, laureate in
qualcosa, e poi sottoposte a una settimana di lezioni
intensive durante le quali hanno il compito di apprendere
il contenuto di libretti e manuali scritti ad hoc.
Ma la visione berlusconiana della democrazia è
effettivamente putiniana e corrisponde sia alla pratica del
suo amico russo, di cui è palesemente un partner
personale, come dimostrano le sue visite non ufficiali e
non di Stato, sia a quello che lui ha sempre pensato e
coltivato fin dalla giovinezza: ossia che la democrazia
parlamentare italiana era fradicia e poteva essere sfondata
con una serie di abili mosse.
Il lettore troverà nelle pagine che seguono le
“premonizioni” di questo programma personale che
coltivava evidentemente da molti anni, anche se soltanto
dal posto di comando è cominciato a diventare una realtà.
Esse sono descritte specialmente dalla madre Rosa, la
quale mi ha raccontato del suo sconcerto quando
l’intraprendente Silvio le confessò che il vero obiettivo
della sua vita non era costituito soltanto dagli affari, ma dal
sogno di entrare in politica come vincitore e dedicare alla
cosa pubblica lo stesso tipo di cura che applica alle
aziende.
l 3 5 2 9$  $  & $ 3 , 5 (  & + (  7 , 3 2  ˆ
%(5/86&21,{

Conobbi Silvio Berlusconi quando andai a intervistarlo


per «La Stampa». Era il 1991 e lui era soltanto
l’imprenditore, il proprietario dell’impero Mediaset, il
campione del self made man, un caso italiano del tutto
anomalo. Fu simpaticissimo e divertente. Paolo Mieli,
direttore allora de «La Stampa», mi chiese di fargli
un’intervista a tutto campo, che descrivesse l’uomo e la sua
storia. Chiesi e ottenni facilmente un appuntamento e
arrivai ad Arcore. Il colloquio secondo gli accordi sarebbe
durato un’ora. Dopo quattro ore ero ancora lì ad ascoltare
le sue storie e a vagare con lui nei suoi possedimenti. Mi
sembrò un uomo gioviale, pieno di energia, decisamente
simpatico. Non snocciolava barzellette a raffica come fa
oggi, ma raccontò invece la sua storia.
Dopo tanti anni ricordo bene ciò che mi colpì. Prima di
tutto il fatto che si era inventato una televisione destinata
agli appartamenti che vendeva, e che quell’impianto a
circuito chiuso aveva cominciato ad allargarsi. Poi lui e i
suoi fidi che correvano in macchina su e giù per i paesi di
montagna portando le videocassette con il primo o il
secondo tempo del film che trasmettevano quasi
simultaneamente, dando così l’impressione di una
televisione nazionale, invece che di un pulviscolo di
televisioni private acquistate o incorporate una dopo
l’altra.
Poi mi colpì molto l’invenzione di Publitalia, una società
di pubblicità creata come una società di servizi: Berlusconi
andava dal salumiere del piccolo paese e gli proponeva un
contratto cui non si poteva dire di no.
«Lei non mi dà una lira, mi dà soltanto l’esclusiva per la
pubblicità del suo negozio. Fra un anno facciamo i conti,
vediamo quanto sono aumentate le sue vendite e su quello
io prendo una percentuale». Il salumiere firmava. Che cosa
aveva da perdere? In quel modo vendeva di più, incassava
e volentieri pagava la percentuale alla società che aveva
promosso la sua salumeria. Così tutte le piccole imprese
locali e poi via via ancora più grandi. Man mano che le
televisioni berlusconiane crescevano, aumentavano anche
i fatturati di questa pubblicità creata dal basso, localmente.
Roba del tutto inaccessibile alla grande pubblicità di Stato
rappresentata dalla Sipra. Questa società me la ricordavo
bene dai tempi in cui lavoravo all’«Avanti!» negli anni
Sessanta, quando i socialisti per la prima volta, e anche
molto affamati di potere e sottogoverno, posti e cariche,
andarono al comando ottenendo anche una pletora di
inutili vicepresidenze ovunque fosse possibile piazzare un
vicepresidente. La Sipra era una stanza blindata che
vendeva gli spazi pubblicitari della RAI in regime di
monopolio e taglieggiava i grandi clienti obbligandoli a
«diversificare» la loro pubblicità pagando degli annunci
del tutto fuori mercato e dunque finti sui quotidiani di
partito. In questo modo i partiti politici si facevano pagare
le spese dei giornali dalle industrie e ricavavano
abbastanza da finanziare molto più della sola
pubblicazione. Anzi, i giornali di partito erano dei cavalli
di Troia: tu, grande imprenditore di salumi, di profumi, di
automobili, vuoi che io, la Sipra, faccia comparire le tue
macchine, i tuoi profumi, i tuoi panettoni su Carosello e
nei vari contenitori pubblicitari? Benissimo: allora vorrà
dire che tu comprerai anche degli spazi pubblicitari
sull’«Avanti!». E anche sulle riviste del partito che non
vendono una copia, pagandole quel che ti chiediamo noi.
In cambio avrai anche la pubblicità che desideri. Puro
taglieggio. E in regime di totale monopolio. Sicché gli
imprenditori sapevano che, se volevano promuovere i
loro prodotti, dovevano pagare la stecca ai partiti
attraverso la società monopolista che vendeva gli spazi
della RAI, gli unici che a quell’epoca contavano davvero. Ed
erano ben contenti di farlo: “o mangi questa minestra o
voli dalla finestra”, e pagavano. Anzi, si mettevano in fila
per pagare. Sgomitavano. Impararono poi presto che
conveniva andare direttamente dall’interessato, il partito
al potere o al sottopotere, comunisti inclusi, e offrire
direttamente il «contributo al giornale». Io ti pago pronta
cassa e tu mi fai avere dalla Sipra la mia pubblicità.
Insomma, la pubblicità monopolista di Stato era diventata
il pusher dei partiti, permettendo la corruzione sotto la
falsa ma ineccepibile forma dell’acquisto di spazi
pubblicitari inutili. Chi poteva biasimare le grandi case
industriali e artigianali se pagavano della pubblicità a tutta
pagina su riviste, rivistine e quotidiani che nessuno
leggeva? Era un sistema che permetteva ai partiti di
scegliere e privilegiare alcuni industriali e castigarne altri,
esercitare la minaccia e il ricatto, operare di fatto la
concussione e mostrarsi ragionevolmente disponibili alla
corruzione, purché avvenisse in forme accettabili.
Sulla scena irruppe dunque questo matto, questo
outsider, che aveva trasformato una televisione di palazzo
in una televisione di paese, poi di cittadina, di città, di
regione, di montagna e che insieme alle televisioni faceva
crescere le proposte ai salumieri, alle imprese di piccola e
media stazza, che mai avrebbero potuto aspirare a vedere i
loro spot sui privilegiati canali della RAI.
Questo, confesso, mi piaceva. Vedevo l’uomo, la sua
genialità, la sua sfrontatezza libertaria nell’andare
controcorrente e costruire a mani nude un sistema che
avrebbe creato concorrenza e dunque apertura nel mondo
della pubblicità. Naturalmente Berlusconi era sostenuto e
protetto da Bettino Craxi, doveva tutto a lui. Craxi era, a
sua volta, un altro cavallo matto che attraversava
controcorrente come un salmone la politica italiana dei
partiti tradizionali, facendo del suo partito, il decrepito e
polveroso PSI, un piccolo gioiello di costosissima
modernità, abbattendo simboli ferrosi come la falce e il
martello, ripulendo la vecchia direzione del Partito
socialista in via del Corso, che diventò funzionale,
milanesizzata, foderata di plastica e di moquette. Craxi e
Berlusconi si integravano, anche se il primo mi disse più
volte di averne piene le palle delle continue richieste del
secondo che – l’appetito vien mangiando – voleva
sfondare e passare dalla dimensione artigianale a quella
nazionale e poi internazionale. Non starò qui a rifare la
storia delle frequenze, degli spazi, delle forzature. Voglio
parlare dell’effetto che a me fece l’imprenditore
Berlusconi a quell’epoca.
Arcore: Berlusconi aveva avuto quella reggia e quella
tenuta per un boccone di pane (cinquecento milioni non
in contanti ma in azioni non quotate in borsa che poi
furono ricomprate alla metà del loro valore quando la
Casati cercò vanamente di monetizzarle), certamente
grazie alla giovane età della Casati e alla mediazione di
Previti, il quale era a sua volta figlio di una delle persone
di cui si serviva abitualmente Berlusconi per intestare
società di comodo. Allora, nel 1991 queste cose non le
sapevo e rimasi semplicemente incantato, come tutti, dalla
ricchezza, vastità, eleganza, regalità della magione
dell’uomo che tutti a quell’epoca (ma ancora oggi, benché
sia presidente del Consiglio) chiamavano “il Dottore”. In
Italia c’è il vezzo di chiamare Gianni Agnelli “l’Avvocato”,
Carlo De Benedetti “l’Ingegnere” e Silvio Berlusconi “il
Cavaliere”. Ma la sua cerchia più ristretta lo chiama “il
Dottore”.
La mia intervista con il Cavaliere durò una giornata
intera. Dell’uomo avevo udito soltanto descrizioni molto
oscure: un amico di Craxi dal passato imprenditoriale a
tinte fosche, forse con inconfessabili legami mafiosi.
Poiché a «la Repubblica» avevo già assistito a un linciaggio
continuo e senza soste nei confronti di Craxi (con il quale
io stesso dissentivo in molte cose, ma che non poteva certo
essere considerato e ridotto alla figura di un delinquente),
volevo vedere con i miei occhi chi fosse questo
personaggio. Ricordo un uomo allegro, esuberante,
amichevole, curioso di me quanto io lo ero di lui, molto
comunicativo e con le idee chiare. Mi raccontò della sua
infanzia povera, della sua abilità a costruire, del primo
appartamento che vendette, dei prestiti della Banca Rasini
(di cui vedremo più avanti in dettaglio, visto che si trattò
di un istituto di credito che ebbe certamente, e non si sa se
consapevolmente, rapporti con la mafia), di quando si
faceva sorprendere dai compratori ancora in tuta mentre
dipingeva le pareti per poi ricomparire da un’altra porta
sostenendo di essere il proprio cugino; e poi di questo suo
modo allegramente aggressivo, sfacciato e senza
ripensamenti di realizzare le sue idee.
Quel giorno Berlusconi si avvicinò all’autista e gli
abbottonò la giacca, senza dire una parola. Poi si girò e
tornò verso di me. L’autista svenne, restando in piedi
come un cavallo addormentato e l’unico segno di vita
erano le orecchie diventategli rosse come un paio di
peperoni. Quello stesso autista, poi rianimato con i sali, mi
avrebbe riaccompagnato all’aeroporto più tardi, lasciando
“il Dottore” a sua volta impettito e sempre con il suo
sorriso a ventiquattro carati, in piedi sulle scale,
educatamente, ad attendere che io sparissi all’orizzonte
prima di rientrare nel suo castello.

Poi qualcuno bussò alla porta. Entrarono nella grande


sala due signori con un enorme pacco che conteneva vari
prototipi di giacche da riposo per i giocatori del Milan, sua
squadra del cuore fin dall’infanzia (Berlusconi confessa
che al botteghino di San Siro si faceva più piccolo per non
pagare il biglietto quando entrava allo stadio con il padre
Luigi) e che aveva comprato anche per fare un piacere al
papà, un po’ come aveva acquisito «il Giornale», con
dentro Montanelli, sempre per fare contento il padre che
stravedeva per Indro. Quello era dunque il momento in
cui il Milan, inteso come squadra di calcio personale,
entrava come macchina di scena su quel grande
palcoscenico, sotto forma di due emissari dello sponsor. I
due, silenziosi e intimoriti disposero le giacche sul
gigantesco tavolo ovale su cui avevamo mangiato, ma da
cui era sparita ogni traccia del nostro banchetto. Mentre
stavano per dire qualcosa, Berlusconi prese il telefono
interno e disse a qualcuno: «Sia gentile, mi porti giù le
calze speciali che uso per il jogging. Quelle celesti, le
dispiace?» I due ambasciatori dello sponsor restarono
impacciati, in attesa di una parola del “Dottore”, che
invece mi offrì il caffè mentre arrivavano i calzini.
Sembravano normali calze sportive, ma il Cavaliere
cominciò a parlare illustrandole al pubblico, come se
fossero la Ferrari delle calze, ergonomiche, elastiche,
supportative, fascianti, protettive contro sbalzi termici.
Tutti ascoltavano con compunzione. I due sponsor
approfittarono di una pausa per disporre meglio le
giacche: rosso-bianche con riga nera, idem ma con colori
più forti, o con la riga più sottile. Berlusconi guardò tre
camerieri che assistevano allo spettacolo: «Indossate quelle
giacche per favore», disse loro. I tre eseguirono con
movimenti rapidi e onorati.

Erano tempi durissimi per le questioni televisive. Lo


stesso giorno della mia intervista ad Arcore, Berlusconi
aveva registrato un’intervista televisiva con Mike
Bongiorno che andò in onda alle venti e quaranta su
Canale 5. Disse che la sua televisione aveva cambiato
l’Italia, aveva creato occupazione e migliorato «tutti gli
aspetti della vita democratica del Paese» vendendo spot
elettorali ai partiti, e annunciò anche finalmente: «Adesso
con la diretta farò anche un telegiornale». Di lì a poco
infatti avrebbe varato il TG diretto da Enrico Mentana, un
bravo giornalista televisivo che proveniva dalla seconda
rete RAI in quota ai socialisti, e che però fu subito un TG

professionale, competitivo, leggermente orientato a


sinistra. Si disse allora che a Berlusconi erano stati concessi
la diretta nazionale e il telegiornale, ma che la sinistra e in
particolare il PCI avessero ottenuto come bilanciamento
per tale concessione di avere una longa manus sulle
redazioni berlusconiane.
Come «macchina comunicativa» adorava allora, e adora
oggi, sostantivare i verbi usando la forma all’infinito – «un
volere», «un fare», «il credere» – con l’articolo davanti,
accartocciandosi poi in maniera buffa e quasi patetica in
una serie di subordinate e di congiuntivi di cui perde
facilmente il controllo. Tuttavia, malgrado questi
provincialismi da capo d’azienda che cerca di apparire più
rinascimentale che giapponese, Berlusconi faceva largo
uso di citazioni e di parole greche e latine. Così, invece di
dire simpatia, diceva «syn pathos», oppure sottolineava
con enfasi il fatto che lui d’estate si ritirava in isolati angoli
della Terra dove, in compagnia dei fedeli Confalonieri e
Dell’Utri, leggevano classici di ogni sorta, come se si
fossero dovuti preparare una seconda volta alla maturità. È
nota, del resto, la loro passione quasi maniacale per
Erasmo da Rotterdam, condito con letture intense di
«Dante, Carducci, Cicerone, Erasmo e i Vangeli in greco e
in latino».

Per le televisioni fu naturalmente sostenuto, spalleggiato


e coperto dalle manone di Bettino Craxi. Però (questo
pensavo osservando questo brianzolo latineggiante come
un personaggio manzoniano) Berlusconi incarnava bene il
nuovo borghese che entra a gamba tesa nei salotti buoni,
fracassa la cristalleria, ma sa fare le cose e si beffa dei
grandi nomi, dell’aristocrazia dell’Old Money, cui
contrappone il suo status di nuovo ricco laborioso e
autocrate, che cura ogni minuscolo particolare, fino alle
calze dei giocatori, e alla fine vince. Scrissi allora:

Sembrava che i Rizzoli, i Mondadori, i Rusconi


dovessero cambiare la faccia della televisione. Invece è
finita che i grandi editori si sono scornati per mancanza di
idee e anche di umiltà. E intanto lui, l’homo novus, il
venditore porta a porta, quello che lavorava ai fianchi
massaie e detersivi, quiz e sindaci di paese, se li è pappati
tutti, o li ha fatti arretrare. Da Rusconi avrebbe rilevato
Italia 1, da Mondadori Rete 4 e da Rizzoli gli stabilimenti
di Cologno Monzese.

E annotavo anche:

Il Berlusca ha sudato molto e non ha avuto paura di


affrontare prove fantozzesche: apre il ballo dei dipendenti
della Standa, premia gli anziani della sua azienda, fa
fervorini sulla puntualità, racconta storielle scollacciate ai
soli uomini e bacia la mano alle signore, firma autografi, si
fa fotografare con le massaie, passa il sabato a Milanello e
la domenica alla partita.

Nel settembre di quasi vent’anni fa me lo ritrovai


davanti con tutte le sue buffe manie, l’umiliazione
dell’autista, il gioco delle tre giacche, i calzini
aerodinamici, i ritiri in latino e greco, la sua voglia di
apparire, il suo orgoglioso complesso di inferiorità
trasformato in complesso di superiorità; incarnava ai miei
occhi il borghese allo stato puro, anzi allo stato
primordiale, autentico. E che fosse uno che ci sapeva fare,
appariva evidente e indubbio. Mi sembrava anche chiaro
che contro il “Perluscone” si muovesse l’aristocrazia statica
della vecchia borghesia, figlia della classe che aveva
prodotto ma che non produceva più. Inoltre mi sembrava
credibile, allora, il suo discorso sulla differenza fra servizio
pubblico televisivo e televisione commerciale. La
televisione commerciale ha tutto il diritto di essere trash,
generalista, superficiale, cotillons e paillettes: non chiede
una lira, ma soltanto impone – se non si cambia
velocemente canale – di vedere la pubblicità. In cambio
offre film gratis, spettacoli, notizie, intrattenimento
familiare. La televisione del servizio pubblico, diceva
allora Berlusconi, lo stesso che poi si sarebbe smentito in
maniera scandalosa, dovrebbe al contrario garantire
qualità, informazione neutrale indipendente e completa,
produrre cultura, promuovere il nuovo, esplorare il
futuro: è per questo che vive della tassa detta “canone
televisivo”.

E fu poi proprio con Silvio Berlusconi, dieci anni dopo,


che mi trovai nella grande chiesa di Tunisi dove si
svolsero i funerali di Bettino Craxi, fuggito in esilio,
inseguito da un mandato di cattura. Quello fu per me un
momento di sentimenti controversi e strazianti. Craxi
aveva una casa ad Hammamet in cui ero andato due volte
per intervistarlo quando ero un inviato de «la Repubblica»
e avevo conosciuto meglio l’uomo poi chiamato “il
cinghialone”, che lasciò la pelle alla fine della più
incredibile e crudele partita di caccia politica che si sia
svolta finora in Italia. Craxi era stato soave, elefantesco,
generoso, giocoso, timido, dinoccolato. Sua moglie gli
cambiava il costume bagnato coprendolo con un
asciugamano mentre lui col dito sollevato ci spiegava la
sua visione del mondo su una spiaggia arroventata e un
mare di un azzurro fuori misura, in cui si entrava
precipitando in un amnios africano e limpido. Craxi in
passato (lo seppi da lui e poi me lo confermò il leader
socialista calabrese Giacomo Mancini) mi aveva difeso
dalla demenziale accusa che stava maturando nei servizi
speciali che combattevano le Brigate rosse, secondo cui io
sarei stato uno dei grandi capi occulti dell’organizzazione
rivoluzionaria comunista. Ricordo anche che lui non era
tanto scandalizzato da questa accusa, quanto incuriosito:
voleva sapere quanto ci fosse di vero. E quando gli dissi
che non c’era assolutamente nulla, salvo il fatto che io
avevo sempre fatto parte dell’estrema sinistra non
comunista, mi era sembrato un po’ deluso. Comunque il
Craxi che avevo conosciuto io era un uomo gigantesco e
infantile al tempo stesso, del tutto privo di quella capacità
di incantare i piccoli borghesi che invece fu, ed è, la
principale qualità politica di Silvio Berlusconi. Craxi era
cresciuto in un PSI di guerra, aveva gestito la sezione
socialista di Sesto San Giovanni, detta «la Stalingrado
d’Italia», dove andava ogni mattina all’alba in tram. Craxi
non ha mai guidato, non ha mai avuto simpatia per le cose
tecniche, tecnologiche e costose. Nella sua casa di
Hammamet si dormiva come carcerati perché i letti erano
poco più che pagliericci sistemati in loculi di cemento.
Quando lo accusarono di aver accumulato e sepolto un
tesoro gigantesco, o anche piccolo, io non ci credetti e non
ci credo tuttora. Craxi aveva un altro vizio, e non era la
ricchezza per se stesso, e neanche le donne o il gioco o le
corse dei cavalli: spendeva fiumi di quattrini per
finanziare movimenti di liberazione, antifascisti spagnoli,
resistenti greci e poi cileni, ma più che altro finanziava a
piene mani l’OLP di Yasser Arafat di cui era diventato
intimo, dopo un passato giovanile, insieme al suo capo e
mentore Pietro Nenni, filoisraeliano. E a me il Craxi
mussoliniano che si atteggiava a spada dell’Islam non
piaceva affatto.
Il Craxi di Sigonella che impedì agli americani di
catturare i luridi assassini di un paralitico il cui corpo fu
messo a scolare tutto il suo sangue sulla fiancata della
Achille Lauro (che così sconciamente colorata vidi entrare
nella rada di Port Said), non mi piaceva e non mi è mai
piaciuto. Ma certamente Craxi compì in maniera sgraziata,
a spallate, con una visione romantica che gli permetteva di
identificarsi in Giuseppe Garibaldi, di cui era un cultore e
di cui si sentiva l’erede, una conversione a trecentosessanta
gradi del socialismo, che dai tempi della Resistenza era
andato a rimorchio dei comunisti. E lo fece in modo
orgoglioso, originale, cercando diverse radici culturali in
alternativa al marxismo, e occhieggiando in maniera
abbastanza spudorata anche a Mussolini socialista e
rivoluzionario che faceva sdraiare le donne sulle
traversine per impedire la partenza delle tradotte che
portavano i soldati all’imbarco per la guerra di Libia del
1912.
Quando Craxi si sentì stringere il cappio al collo,
pronunciò alla Carnera dei deputati un celebre discorso in
cui sfidò tutti i segretari dei partiti presenti in Parlamento
a dichiararsi innocenti dal reato di finanziamento illecito
degli stessi partiti. Più tardi, i suoi detrattori cercarono di
far passare quel discorso per qualcos’altro; come se Craxi
avesse detto: «Io ho rubato, ma avete rubato tutti». In
realtà, egli sosteneva che in Italia i comunisti, con i loro
rifornimenti illegali da Mosca, e i democristiani, con il
libero accesso alle casse delle industrie di Stato, avevano
pesantemente alterato le regole del gioco democratico,
costringendo i partiti minori con ambizioni di forte
crescita a esercitare lo stesso taglieggio, la stessa mungitura
da fonti illegali cui tutti avevano fatto ricorso.
Naturalmente, nel corso dello sviluppo di questo sistema
banditesco di taglieggio cui attingevano non soltanto i
partiti, ma i caporioni delle cosiddette «correnti», e poi i
singoli politici, il finanziamento «per il partito» era
diventato spesso un pretesto per riempirsi le tasche, in
molti casi. Sicché si assisté anche all’esibizione di una
grottesca doppia morale fra chi diceva: «Sì, ho taglieggiato,
ma l’ho fatto per il partito», e chi veniva colto con le mani
nel sacco perché l’aveva fatto per sé, o anche per sé.
La mia opinione allora, come oggi, era che è molto più
colpevole chi «ruba per il partito» anziché chi lo fa per sé,
perché i furti che hanno alterato le sorti stesse della
democrazia italiana sono quelli che hanno condotto poi
alla scomparsa dei partiti democratici che avevano
ricostruito l’Italia, un po’ come i dinosauri si sono estinti a
causa di un meteorite che li ha fatti fuori tutti in un sol
colpo. E in questo caso, pensavo allora e penso oggi, la più
grave responsabilità morale cade proprio sul Partito
comunista, che negli anni Quaranta e Cinquanta
certamente era una compagine al servizio dell’Unione
Sovietica, di cui eseguiva passivamente le direttive
(compresa quella, detta della «svolta di Salerno», con cui il
PCI per ordine di Stalin appoggiò la monarchia e Badoglio),
e in quanto tale riceveva potentissime iniezioni di denaro
destinate all’organizzazione, a stampa e propaganda, al
proselitismo e al mantenimento di un gigantesco apparato
in parte anche militare, iniezioni che indussero i partiti
che contrastavano il PCI a rastrellare altrettanto denaro, e
forse di più, per far fronte al «pericolo comunista».
Quella macchina infernale non si è mai fermata,
malgrado la tempesta e gli effetti speciali di Mani pulite
nei primi anni Novanta, sicché si può dire ancora oggi che
il tasso di finanziamento illecito, ovvero criminale, da
parte dei partiti è lo stesso di prima e forse maggiore. E
questa è anche una delle ragioni della popolarità di
Berlusconi presso l’uomo della strada: un imprenditore
ricchissimo, uno dei più ricchi del mondo, non ha bisogno
di rubare per fare politica, né di fare politica per rubare. E
questo aspetto al Cavaliere è stato sempre chiarissimo,
tanto è vero che ancora oggi lui si presenta al suo vasto
pubblico come il campione dell’«antipolitica» e il nemico
dei partiti e della partitocrazia, come dimostra anche il
fatto che si è rifiutato tenacemente di chiamare «partito» il
suo Popolo della libertà, risultato della fusione a freddo fra
Forza Italia e Alleanza nazionale. Mentre Craxi faceva
politica, Berlusconi faceva affari. E certamente grazie a
Craxi poté sfondare e ridurre in briciole tutte le barriere di
legge che regolavano le frequenze televisive, come
vedremo più avanti nel nostro racconto.
Ma all’epoca della mia intervista, nel 1991, il Cavaliere
non si atteggiava a politico e anzi mi spiegò in modo
molto convincente che le sue reti dovevano per forza di
cose essere generaliste e non avere alcuna identità
partitica: i clienti non hanno colore politico e la pubblicità
meno che mai. Anzi, mi disse che tutti i partiti erano in
debito con lui per gli spazi pubblicitari durante le elezioni
e che il più lento a pagare era il Partito comunista.
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SILVIO BERLUSCONI: C’era una collina che dominava il paese


– che si chiamava Oltrona San Mamette – e sulla collina
una casa colonica. Io andavo lì a mungere le vacche e in
cambio portavo a casa una caldarina di latte, pagato in
natura: qualche volta mi davano latte e qualche altra la
cagliata del giorno prima. La strada che scendeva da
questa collina passava sotto il camposanto con luci e
fuochi fatui e io correvo per la paura. Nella casa dei miei
zii, che ci ospitavano in soffitta, c’era mia zia, Mamma
Teresa, che ci raccontava storie popolate di diavoli e
fantasmi. Lo faceva quando il ceppo era piazzato nel
mezzo del camino dopo la cena, e ci aveva tutti intorno a
prendere il caldo. Al centro del focolare pendeva il sidel, il
secchio appeso al chiodo con il mestolo di rame da cui
tutti bevevano. Mamma Teresa raccontava storie di
uomini che avevano i piedi caprini e di diavoli che
entravano dalle finestre, individui che entravano e
uscivano dalle bare.
Scappando dai fantasmi davanti al cimitero, inciampavo
e mi facevo dei buchi nelle ginocchia, e qualche volta
perdevo la caldarina con il latte da dare alla sorellina
appena nata. La mia è stata l’infanzia di un bambino che
ha conosciuto la guerra, con un padre espatriato in
Svizzera e una madre con due figli piccoli cui badare, oltre
a due anziani: la mamma di mio padre e il suo, di padre.
Lei manteneva tutti con il lavoro di segreteria della Pirelli.
Mia madre ogni mattina, all’alba, prendeva la corriera per
andare a Milano fermandosi a Lomazzo dove c’erano le
Ferrovie della Nord e scendeva a piazzale Cadorna per poi
arrivare alla sede della Pirelli. E alla sera rifaceva tutta la
strada all’inverso, d’estate e d’inverno. Mia sorella è nata
quando avevo sette anni e facevo la seconda elementare.

Un giorno mia madre aveva difeso su un treno una


donna ebrea che i nazisti stavano portando via: prese per
le braccia il tedesco con il mitra urlandogli di lasciarla
stare. Quello allora disse: «Togliti o ammazzo anche te.
Sparo». E lei: «Sì, ma poi tu da questa carrozza non scendi
vivo». Il tedesco se ne andò lasciando libere sia la donna
che mia madre.
Mia madre, incinta, doveva anche fare chilometri nella
neve per tornare alla sera. A volte qualcuno la metteva in
sella sulla bicicletta, qualche volta la faceva a piedi, perché
prima aveva la bambina nella pancia e poi la bambina da
allattare. Si viveva di quello che dava la terra ed era
pochissimo. I cugini ci avevano ospitato in una soffitta
sotto il tetto rotto e, durante i temporali, la casa si
riempiva di bacinelle e crescevano le macchie di umidità.
La sera stavamo tutti a letto con la coperta fino agli occhi
con sopra solo le tegole e il rumore della pioggia battente.
Per andare al bagno bisognava scendere e attraversare il
cortile. La pompa dell’acqua era in un pozzo tenebroso in
cantina con una corda con cui mandavi giù il secchio e poi
lo ripescavi. In cambio, c’era la libertà di correre sui prati,
riempirsi la pancia di ciliegie e intagliare la corteccia dei
pini per farne burattini. Io mi ero fatto tutta una serie di
marionette con il temperino e invitavo i bambini e la
gente intorno alle mie rappresentazioni. Poi, a otto anni,
recitavo anche all’oratorio dove c’era un teatro enorme
perché aveva duecentocinquanta posti.
Sono nato nel 1936 e quando avevo quattro anni è
scoppiata la guerra. La domenica andavo alla messa delle
undici per osservare da dietro il collo di un signore che mi
ricordava quello di mio padre e mi faceva venire da
piangere. Mio padre si era trovato in Svizzera quasi per
caso: era stato prima in un campo per rifugiati e poi era
andato a lavorare in una famiglia. Le sue lettere arrivavano
ogni due o tre mesi, le facevano passare in qualche modo
dalla frontiera: Oltrona San Mamette è tra Varese e Como,
la frontiera non è lontanissima e si pagavano coloro che ti
portavano la lettera. Ricordo il ritorno degli zii e di tutti gli
uomini di Oltrona che erano scappati in Svizzera perché i
tedeschi li deportavano o li fucilavano. C’era una discesa
che da San Mamette portava alla strada tra Appiano
Gentile e Lurate Caccivio, dove passava il tram che
portava fino a Como: da lì arrivavano coloro che
rientravano in Italia. Per circa un mese passai ore ogni
giorno su un paracarro, avevo ricevuto solo delusioni.
Erano lacrime tutte le volte che il tram andava via e non
c’era mio padre. Poi finalmente è arrivato, l’ho
riconosciuto da lontano, ho fatto un balzo incredibile tra le
sue braccia e gli sono stato addosso, e questo è rimasto
nella mia memoria. Quindi il ritorno in città nella nostra
casa senza mobili perché erano stati rubati dal magazzino,
in una via di Milano davanti alla sede del Partito
comunista.
Nella stessa via Volturno c’erano case abbattute, a una
mia zia avevano demolito la rampa delle scale e doveva
salire al suo appartamento con una scala a pioli. I nuovi
mobili furono fatti da un amico falegname, brande, puff,
tavoli di compensato, io che con il seghetto del traforo
arrotondavo gli spigoli, e poi l’acquisto di una camera per
mia sorella, i risparmi di tutta la famiglia e il difficile avvio
perché mio padre aveva faticato a trovare lavoro.
Poi, finalmente, era tornato nella banca dove lavorava
prima che andasse militare. Mio padre portava a casa un
dolcificante, lo faceva cuocere e da una bottiglia se ne
tiravano fuori altre tre o quattro che lui vendeva ai suoi
compagni di lavoro. Ci arrangiavamo, si escogitavano
espedienti, come facevano tutti per sopravvivere. Due
volte la settimana c’era il mercato. Io andavo a raccogliere
tutta la carta che trovavo, la mettevo a macerare nella
vasca, ne facevo delle palle di carta e poi le andavo a
vendere come carburante: una volta sono arrivato a casa
con un etto di mortadella Bologna ed era la prima volta
che entrava in casa una prelibatezza di quel genere, un
lusso sfrenato.
Io avevo l’incarico di curare mia sorella. Poi è arrivato
Paolo, il mio fratellino a quindici anni di distanza ed ero io
la sua balia, visto che mia madre non aveva tempo. Poi, a
poco a poco, è tornato il benessere, mio padre è diventato
procuratore, quindi abbiamo rifatto la cucina con le
piastrelle rosa, e lì mangiavamo. Ho dormito sul divano
fino a sedici anni quando siamo andati nell’altra casa. La
domenica si mangiava con la tovaglia buona, c’erano i fiori
che compravamo al mercato e il rito della messa al
patronato di sant’Antonio dove don Eugenio mi incantava
con le sue prediche. La passione per il Milan nacque
perché mio padre andava con i suoi amici allo stadio e mi
portava con sé: prendevamo il tram e mi facevo piccolo
piccolo per entrare a San Siro con il biglietto di mio padre.
Questa è stata la mia infanzia in quella casa di via
Volturno che mia madre chiamava «la casa della felicità»,
perché aveva i suoi tre figli tutti insieme.
Sempre in quell’appartamento abbiamo poi avuto una
donna a ore, Esterina, che faceva i lavori pesanti e il
bucato. Io ero addetto ai pavimenti con lo spazzolone,
andavo a fare la spesa, le scarpe si facevano risolare, il mio
cappotto era rivoltato da uno di mio padre, il primo
vestito con i pantaloni lunghi era rivoltato, cosa che ha
suscitato le ironie di qualcuno più ricco, poiché aveva gli
occhielli alla rovescia. Le calze erano rammendate e
ricordo che le mie zie suore dicevano: «Ma tu guarda quel
fieu chi, com el mandan in gir», come lo mandano in giro. Poi
mio padre ha cominciato a guadagnare in maniera diversa
e abbiamo avuto il grande momento dell’automobile: un
nostro vicino aveva una vecchia Augusta e decise di
prendere una 1100 FIAT e convinse mio padre a prendere
l’Augusta, e ci fu una riunione di famiglia con mia madre
che diceva: «Ma no, Luigi, non possiamo». E lui diceva:
«Non posso certo andare in banca con una macchina,
continuerò ad andare in tram perché chissà cosa dicono se
vedono che ho una macchina». Alla fine comprò la
macchina, e partimmo perché mia madre aveva il vanto di
far vedere che aveva la macchina ai nostri parenti, i quali
ci accolsero come quelli che hanno fatto fortuna.
Mentre stavamo andando via mia madre sbatté la
portiera e la portiera cadde a terra. Quando si rompevano
le freccette per la svolta destra o a sinistra io ero addetto a
tirare fuori la mano. Eravamo sull’autostrada da Milano a
Como e le macchine ci facevano segnali con il clacson,
c’era fumo per un’incrinatura nel radiatore. Vennero a
trainarla con un cavallo e noi prendemmo il treno e poi il
mio primo taxi che ci accompagnò a casa. Mio padre disse:
«Be: Rosa te vedet, sem partì in macchina e sem turnà in
macchina», ti ho fatto partire in macchina e ti ho fatto
ritornare in macchina. Mia sorella, a due anni, cadde in un
mastello dove stavano lavando i panni, io l’ho salvata ma
rimase per tre giorni fra la vita e la morte, con le dita di
mia madre fra i denti che le teneva la bocca aperta a forza
per farla respirare. Arrivò il medico che le disse: «Lei ha
salvato la vita di sua figlia». Era intossicata da tutta
quell’acqua con la lisciva, un’acqua grigia e sporca. Ero
diventato il ragazzo di Milano e i ragazzi del paese mi
dicevano: «Milanese mangia cistun, va foera di coilun». Il
cistun è il cuore del cavolo, il torsolo del cavolo: milanese
mangia cistun, perché i milanesi mangiavano anche quello.
Mangiavamo il pane di miglio e il pane bianco l’avevo
visto dopo uno o due anni. Quando facevo la terza e
prendevo un bel voto, mio nonno mi portava in bicicletta
a Como: una bicicletta con i freni con le bacchettine di
ferro e ogni tanto saltava una vite e non frenava più. C’era
miseria ma era anche un’Italia piena di orgoglio: io avevo
una gran voglia di riuscire e pensavo che sarei riuscito a
fare qualche cosa di importante.
La posizione di mio padre in banca migliorava e
andammo ad abitare in una bella torre di viale Zara dove
ho avuto finalmente la mia camera da solo: quattro
camere da letto, un appartamento di cui ero fierissimo.
Poi l’avventura dell’università: lì ho cominciato a fare
diversi mestieri, a guadagnare soldi.
Anche quando facevo le scuole medie davo lezioni ai
bambini delle elementari, venivo pagato con uova e burro.
Quando eravamo a Oltrona San Mamette il burro lo si
faceva raccogliendo la panna dal latte che arrivava fresco,
si agitava e alla fine avevamo il burro che sembrava una
cosa straordinaria. Il regalo della seconda elementare è
stato un astuccio di legno con il coperchio che si sfilava,
una penna rossa e sei pennini, il mio regalo di Natale. Si
faceva l’acqua frizzante con le buste dell’Idrolitina, il
massimo del lusso. Andavo a prendere le viole per mia
madre, aspettavo che tornasse dalla corriera e d’estate con
la nonna andavamo a raccogliere l’insalata matta con il
temperino e poi ne regalavamo la metà al padrone del
prato.
Ricordo la cerimonia del frumento con la trebbiatrice,
che arrivava con i soldati dietro perché c’erano stati degli
attentati: c’erano tutti i ragazzi del paese perché si
introducevano le spighe di grano e uscivano fuori le balle
di paglia da un lato e il grano dall’altra parte e si pranzava
con il pane di miglio e le mele verdi che erano succose e
andavo in giro a cercare le mele per portarle a questi
militari. Davo lezioni ai ragazzi della mia casa o di quella
di fronte, facevo fare i compiti, sono sempre stato capace
cli insegnare. Poi mi fu regalata da una mia zia una
macchina fotografica e per un po’ ho fatto fotografie su
richiesta di don Eugenio, che era il sacerdote dell’oratorio.
Andavo anche a fare fotografie ai matrimoni, facevo un
libro e me lo facevo pagare un po’ più caro di quel che mi
era costato. Poi, al liceo, c’era un amico di mio padre che
faceva cornici d’arte e un fratello che le vendeva. Sono
andato insieme a questo signore e da lì è nata la passione
per i quadri, perché frequentavo questi corniciai: la
raccolta che ho adesso affonda le radici in questo contatto
diretto con chi commerciava.
Poi, durante il periodo natalizio, andavo ad aiutare in
qualche negozio che vendeva stampe e quadri in centro e,
finito il liceo alla fiera di Milano, andavo a fare le
dimostrazioni di elettrodomestici e guadagnavo tanti soldi
che mettevo sul comodino di mio padre: quasi
cinquantamila lire al giorno che allora erano una bella
somma, insomma arrivavo a guadagnare più di
cinquecentomila lire in dodici o tredici giorni, ed esibivo
le novità di questa ditta che si chiamava Chiminello e poi
Lincol italiana: ero il più bravo e prendevo il doppio o il
triplo degli altri.
Ricordo il giorno dell’annuncio che la guerra era finita,
c’era tutto il paese, suonavano le campane, tutti a dire che
era finita la guerra e io ricordo che avevo una simpatia per
una ragazza che lavorava a un telaio in un ammezzato
sulla piazza del sagrato. Tutti ripetevano che era finito il
conflitto e io dicevo: «Torna mio papà, torna mio papà».
Ho sempre avuto un grandissimo trasporto. Poi anche lì,
come dicevo, facevo tante cose, andavo a mungere le
vacche, andavo a raccogliere il grano, andavo a fare le
fascine, sono sempre stato impegnato, poi mi davo da fare
per mettere a posto le sedie della chiesa. Mia madre poi,
dopo l’episodio della mia sorellina, non se l’è più sentita di
allontanarsi da casa e aveva trovato un posto lì, per cui
faceva dei lavori in Comune. Ho sempre giocato poco,
credo di avere sottratto solo il tempo per lo sport
all’attività del lavoro e dello studio altrimenti sono sempre
stato impegnato o a studiare oppure a lavorare. Poi ho
anche fatto da studente qualche cosa sulla riviera adriatica,
sempre durante il periodo estivo. Non ho mai fatto il
professionista, sono sempre stato un dilettante per periodi
brevi, poi ho fatto delle presentazioni al Miramare di
Rimini, a Cattolica. Facevo delle serate durante l’estate, in
cui intrattenevo la gente, cantavo con una paglietta
francese alla Maurice Chevalier e cantavo tutte le canzoni
francesi di allora. Poi ho portato in Italia per primo le
canzoni di Aznavour e di Bécaud perché ero andato per
l’appunto a Parigi, e lì mi hanno consegnato, fresca di
stampa, la musica di Les feuilles mortes. Poi mi sono
imbattuto in Henri Salvador per cui ho portato tutte le sue
canzoni in Italia, poi è arrivato lui a cantarle ma io
riproponevo tutte le sue canzoni fra cui la sempiterna
Dans mon île, ce n’erano di bellissime. Adesso ho un po’ il
collasso delle corde vocali e mi è successo cantando
perché l’anno scorso, l’inverno passato, in autunno, mia
figlia Marina mi ha sentito cantare con Fedele a Bermuda
e allora mi ha detto: «Ma papà, lasciamo un disco per un
domani, un tuo disco». Allora mi sono messo in contatto
con Five Music e mi hanno detto: «Guardi che non
sappiamo se lei fa un disco in quanti lo comprano». Allora
ho deciso di farlo e se ci fossero stati degli utili li avrei dati
in beneficenza. Mi hanno combinato di andare con un
pianista che è venuto ad Arcore, un giorno ho cantato per
due ore e mezza, e sono andato in una sala di incisione il
giorno dopo. Dopo di che mi è venuta una cosa alle corde
vocali che non mi è ancora passata, si è creata quindi una
situazione che non credo sia più nemmeno recuperabile,
dovrei andare da un foniatra ma non riesco più a cantare,
non ho più voce.

PAOLO GUZZANTI: E IL DISCO?

Il disco non l’ho fatto perché quelle erano tutte prove,


avevo delle registrazioni sfuse perché a metà mi
interrompevo, tra l’altro tra fare le prove di incisione e
fare un disco ce ne vuole, non solo per me ma anche per
l’orchestra, per il pianista. Dovevo anche andare a una
trasmissione televisiva ma poi è arrivato il momento delle
elezioni e non mi hanno lasciato più andare perché è
scattata la preparazione per le elezioni regionali e non è
stato più possibile andare a fare le trasmissioni in
televisione, e quindi ho fatto uno sforzo inutile e mi sono
rovinato la voce. Facevo tutte le canzoni vere di Parigi che
sono bellissime, poi ce n’erano alcune che conoscevo solo
io. Alcune canzoni francesi accennate e cantate. Io non so
se poi porterà a qualche cosa, va bene che tu sei un mago...
Io tra l’altro sono molto affascinato dai film di quei
periodi, dai film di De Sica, Ladri di biciclette, da tutti i film
di quell’epoca, di quell’Italia povera, adesso non si può
capire come allora l’aver perso una bicicletta fosse un
dramma totale, l’aver perso una bicicletta era la fine della
possibilità di vivere, non potevi andare a lavorare, non
potevi andare a casa. Ricordo che il primo segno tangibile
di ricchezza è stato quello di aver ricevuto poi in regalo un
pallone. Quando ho avuto il pallone, con tanto di stringa,
avevo il diritto di fare le squadre io, quindi ti trovavi giù tu
ma quell’altro sceglieva, poi sceglievi tu poi lui, il fatto del
diritto del pallone, le prime scelte, si giocava sul
marciapiede e quando la palla andava in casa della signora
del piano terreno, noi avevamo finito di giocare perché
c’era la madre che diceva: «Per favore, ma devono andare
da un’altra parte a giocare». Poi ci sono tante altre cose, dai
salesiani ho vinto un po’ di gare, per esempio dovevamo
collocare gli abbonamenti di «Gioventù Missionaria»,
allora andavamo nelle case a suonare i campanelli e io ho
vinto con grande distacco perché avevo abbonato tutto il
mio quartiere. Ricordo che vinsi con un distacco enorme e
ho vinto un pacchetto di cinque chili di caramelle che poi
ho distribuito.
Ero quello a cui tutti i professori facevano la corte
perché ero il più fecondo, quello che aveva doti di
simpatia riconosciute dagli altri studenti e, anche nel
rapporto con i professori, ero un ragazzo che si presentava
bene, era molto attento a farsi accettare, a farsi stimare e
quindi ero l’assistente ideale per un professore, perché ero
molto attento, non ero un adulatore. Ero nel giusto, quindi
praticamente tutti i professori con cui ho dato esami mi
hanno chiesto di fare da assistente. A questo punto ho fatto
delle cose per quanto riguarda anche il diritto
commerciale, c’è stata da parte mia anche questa voglia.
Ho ricordato ieri che avevo capacità di sintesi per cui,
quando finivo un esame, avevo messo a punto un
riassunto, il cosiddetto “bigino”, e la libreria antistante
l’università degli studi di Milano aveva i miei diritti che
erano naturalmente senza nome perché era considerata
una scorciatoia non onorevole, e anche per uno studente
non era onorevole studiare sul bigino. Però era molto utile
perché sintetizzava intelligentemente le venti-venticinque
pagine di un testo e poteva rivelarsi molto utile per
l’apprendimento. Il bigino non esclude la lettura del testo,
inizialmente almeno una volta la si deve fare, ma poi ti dà
un grandissimo supporto nell’apprendimento, perché devi
leggere, poi apprendere, ricordare e saper trasmettere,
quindi nelle fasi della conoscenza la sintesi era un
elemento importante. Io lo facevo in quel senso e in quel
senso ho ricevuto poi pochi diritti d’autore che destinavo
sempre a cose di beneficenza.
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SILVIO BERLUSCONI: Alla fine dell’università un cliente della


banca, dove ormai mio padre era il direttore responsabile,
spiegò a mio padre che lui costruiva ma non aveva il
talento per fare l’immobiliare. Mio padre me ne parlò e
allora andai nell’azienda che faceva case e restai qualche
mese per capire i fondamentali, poi mi presentai a questo
signor Canali ed entrai come responsabile vendite. Dopo
diventai direttore commerciale, poi direttore generale
abbastanza in fretta e poi socio del signor Canali.
Con Canali comprammo il primo terreno con mio
padre che mi dette quasi tutta la sua liquidazione e
andammo ad acquistare da un ingegnere mandatario dei
proprietari un terreno che costava, credo, centottanta
milioni: mio padre mise insieme trenta milioni della sua
liquidazione anticipata e la Banca Rasini fornì la
fideiussione per la parte che non eravamo riusciti a
versare e cominciammo la costruzione risparmiando sulle
spese. L’ufficio era senza bagno e la mia prima impiegata
era la figlia del portiere che scriveva «à telefonato» senza
l’acca e con la a accentata. Un giorno le ho detto: «Scrivimi
tutti quelli che hanno telefonato su un quaderno», e lei ha
riempito tutto il quaderno come se fosse un castigo,
scrivendo «à telefonato».
L’arredo mi fu regalato dal signor Rasini, un vecchio
ufficio di mio padre in Banca Rasini, che conservo ancora,
e poi la moquette la andai a recuperare in uno stand da un
amico che lavorava in fiera. Alla fine l’azienda lasciava
infatti le moquette che non servivano più e io me la caricai
sulle spalle, la misi sulla macchina dell’amico che mi aiutò
a stenderla. Fu la prima ditta con un nome pomposo,
avevo ventitré anni, e la chiamai Cantieri Riuniti Milanesi.
Quando c’era il signor Canali dicevo: «Cantieri Riuniti è
lui, e Milanesi sono io!» La baracca di vendita fu
recuperata in un cantiere, la pittura di un bellissimo
azzurro, l’arredo interno lo recuperai gratis, ricordo
ancora la stampa di Modigliani, la donna con il collo
lungo, e mentre stavo finendo di pitturare arrivarono i
primi due clienti. Io non potevo farmi trovare a torso
nudo anche se ero un ragazzo muscoloso: all’università
avevo fatto pugilato, canottaggio, devo avere fatto 11,08 sui
cento metri e poi palestra vicino al cimitero
Monumentale.
Quando questi entrarono io mi trovai sorpreso e venni
fuori facendo credere che non fossi io. Mi dissero: «Ma lei
assomiglia stranamente a quel ragazzo...» E io risposi: «Se
non ci si aiuta tra di noi... sì, è mio cugino». Uno dei primi
appartamenti mi fu comprato dalla signora Confalonieri,
la mamma di Fedele Confalonieri che venne, io misurai il
prato perché prato era, e dissi: «Qui verrà il giardino, qui
ci sarà la casa, qui il cortile, qui comincia il suo box». Lei
tornò a casa, dopo avermi dato fiducia perché aveva una
grande simpatia nei miei confronti, era nella cerchia degli
amici perché era la sorella di Borghi, telefona a mia madre
e le dice: «Signora Rosella, suo figlio è proprio bravo, mi
ha fatto vedere tutto, ha misurato tutto, mi ha fatto vedere
la casa e il giardino, il cortile, poi mi ha fatto vedere i box
ma i box non ci stanno! Ma fa nient mi gu cumprà anche i
box, ma fa nient, non si preoccupi!» Poi naturalmente i box
c’erano perché quando non ci sono ostacoli la dimensione
non si riesce a percepire nella sua interezza e qui comincia
questa avventura.
Credo che Milano 2 sia venuta fuori praticamente senza
difetti. Tutta la gente che ha preso appartamenti lì è stata
felicissima di vivervi, pochissimi hanno lasciato,
pochissimi appartamenti sono in vendita, il prezzo è
sempre stato tale da aver fatto fare un grandissimo affare a
chi ha optato per l’acquisto, i figli sono venuti su molto
bene e si sono allontanati da Milano 2 soltanto quando
sono arrivati a un livello di scuola che lì non era presente.
Anche per quanto riguarda il sistema fiscale, Milano 2 ha
innovato rispetto a quello che avveniva nel passato, per
tutta l’edilizia in tutta Italia, in quanto tutti i rogiti, tutti gli
atti di acquisto, sono stati effettuati a prezzo reale. Questo
è un orgoglio per me. Cosa succedeva? Quando si
costruiva un appartamento questo veniva consegnato
all’acquirente, il rogito veniva spostato nel tempo e
normalmente il prezzo dichiarato andava dal cinquanta al
trenta per cento di meno del valore reale, era la prassi
universale seguita in Italia. Anche qui ho innovato
completamente con molte difficoltà nei confronti dei
clienti, mi sono accorto che per esempio il cliente non
veniva a fare il rogito se questo non si faceva subito e se
volevi fare il rogito dovevi fargli uno sconto, perché lui
non voleva apparire come proprietario di un
appartamento di quell’entità. Ho introdotto allora la
novità assoluta di consegnare l’appartamento solo al
cliente che ne fosse diventato legittimamente proprietario
attraverso il rogito.
Quindi sempre con il solito coraggio, ho innovato
rispetto alla prassi vigente per cui alla fine della
costruzione il cliente andava dal notaio e il notaio
consegnava le chiavi dell’appartamento, un’innovazione
che mi attirò un mare di critiche così come tante altre
cose, davo per esempio la garanzia di un anno agli
acquirenti, su tutto ciò che riguardava l’appartamento e
tutto questo appesantiva fortemente i costi, ragione per la
quale ero fortemente criticato all’interno dell’associazione
dei costruttori. Poi mi accusarono di abituare male i clienti
perché, per esempio, garantendo il verde eseguivo dei
giardini con degli alberi di alto fusto che erano costosi,
perché spostare e piantare alberi di dodici metri non è
semplice, ma il discorso vero è che quando io ho preso
Milano 2 era un prato senza un albero ed è venuto fuori
un parco. Ho ricevuto quindi attacchi forti che dicevano
che Berlusconi aveva rovinato un parco e non sapevano
che era il contrario: il parco lo avevo inventato io. Mi
accusarono comunque di rovinare i parchi perché ci avevo
costruito delle case dentro, c’erano articoli di giornali
stranieri che dicevano che la sinistra italiana accusava
Berlusconi di avere rovinato i parchi italiani e gli alberi
che avevo immesso in questi parchi rappresentavano un
inserimento così massiccio da fare sì che effettivamente le
case fossero state costruite dentro un parco, il che era un
mio orgoglio e vanto. Ricordo alcuni articoli sul «Corriere
d’Informazione» di Milano, per i quali dovetti andare lì e
conobbi Rizzoli che si scusò con me perché allora il
direttore aveva pubblicato degli articoli totalmente
inventati. Ci fu la famosa guerra delle rotte aeree, in cui
praticamente fui accusato di avere spostato le rotte degli
aerei in decollo da Linate, per non passare sulle mie case e
danneggiare gli altri. Fu una storia lunghissima che occupò
i giornali per diverso tempo, che mi portò a delle accuse
cocenti e che mi impegnò moltissimo. Cosa era successo?
Era successo che quando noi acquisimmo il quartiere ogni
tanto passava un aereo, non è che passasse sopra, passava
in tangente al quartiere, ma erano dei passaggi sporadici,
quasi un divertimento. Un certo giorno mi telefonano dal
quartiere dicendo: «Guardi da questa mattina non so cosa
succede ma siamo sorvolati dagli aerei». Non è possibile,
mi precipito il giorno dopo e praticamente andiamo a
vedere quali aerei sono partiti da Linate e tutti gli aerei
passano sopra il nostro quartiere. C’era un quartiere in
costruzione contestualmente a Milano 2 che si chiamava
Milano San Felice, che aveva una parte di aerei, quelli che
decollavano da Linate e andavano verso Roma, che
facevano una svolta, viravano e passavano sopra a San
Felice. La signora Bonomi, con le sue conoscenze, era
riuscita a fare cambiare con una disposizione del
Ministero dell’Aeronautica le rotte in partenza
dall’aeroporto di Linate.
Qui c’era il quartiere di San Felice, gli aerei partivano e
quando andavano a Roma facevano così; lì c’era Milano 2,
un po’ più avanti, lei era riuscita a ottenere una direttiva di
volo in cui praticamente gli aerei invece di fare queste
rotte, a seconda delle direzioni, dovevano proseguire dritti
verso di loro e solo qui cambiare rotta, il che quindi era
quello che si era fatto sempre. Io allora presentai una
protesta presso l’aeronautica civile, raccolsi nella zona la
protesta e le firme di tutte le entità e quindi del Comune
di Brugherio, del Comune di Cernusco sul Naviglio, del
San Raffaele che aveva già uno spazio lì, e in questa
protesta naturalmente misi dentro tutte le situazioni che
avevano subìto un danno da una convergenza di tutto il
traffico aereo in partenza da Linate sulla stessa rotta.
Mentre un traffico di un certo numero di aerei è
sopportabile perché suddiviso nell’arco di tutta la giornata,
se concentri tutto il traffico aereo lì diventa una cosa
impossibile da sostenere.
Di fronte alla giustezza delle mie osservazioni, facendo
tutto come al solito io, andando a Roma, da ragazzo che
non conosceva nessuno – io andavo a Roma e non
conoscevo nessuno – riuscii a ritornare sulle rotte
precedenti a quello che era stato fatto. Apriti cielo da parte
di San Felice, degli abitanti interessati e di tutta la stampa
milanese. Fui accusato di avere cambiato le rotte, ipotesi di
corruzione, processi, una cosa incredibile, è come la storia
della Mondadori, la storia della SME, io sto dalla parte della
ragione tant’è vero che è rimasto tutto così e lo è ancora
oggi. Questa storia durò un anno intero di passione perché
è chiaro che non potei più vendere una casa, non so se mi
spiego, chi comprava delle case sotto le rotte degli aerei?
Inficiava completamente il valore dell’operazione. Se hai
una casa e improvvisamente ti passano sopra cinquanta
aerei al giorno, non la compri. Quindi ci fu una lotta
straordinaria, ancora adesso c’è qualcuno che mi butta
addosso delle accuse perché nei libri che si fanno su
Berlusconi, si parla ancora di questo fatto, Berlusconi che
ha fatto cambiare le rotte di Linate. È vero, ho fatto
riportare le rotte come erano prima. In ospedale non
potevano sopportarlo e poi non c’è niente di peggio di
farti notare una cosa, un rumore, tu magari stai lavorando
a casa tua, c’è uno con il trapano fuori e tu te ne freghi, ma
se qualcuno entra da te e ti dice: «Ma come fai a lavorare
con il rumore di questo trapano?», da quel momento lo
senti e non ce la fai più. Poi avemmo difficoltà enormi per
costruire la zona sud, poi per costruire la zona nord, ogni
volta dovevamo fare delle battaglie vere e proprie in
Comune, in comitato di controllo regionale, in Regione,
perché c’era una legislazione che consentiva a tutti i partiti
di avere dei passaggi, quindi se tu non pagavi, e siccome io
non ho mai pagato, mai, mi ritrovavo tutto molto difficile.
Mio padre mi diceva sempre: «Piuttosto che fare male,
meglio non fare». Anche a Milano io non ho pagato, hanno
pagato per me... Comunque, insomma, è stata dura, che
guerra. [...]
A Milano 2 è cominciata la televisione interna, per
mettere in grado le mamme di potere seguire i propri
ragazzi in tutte le situazioni, e quindi nasce un impianto
centralizzato di televisione.

PAOLO GUZZANTI: Le telecamere per poter permettere alle madri


di vedere dove stavano i propri figli?

Sì, da casa, una televisione a circuito chiuso, nata


appunto con l’intento di fare vedere la piscina, la palestra,
il campo giochi, la scuola; era un servizio in più, una città
modello, avanzata. Milano 2, per intenderci, ha anche il
riscaldamento centralizzato: un’unica centrale garantisce il
caldo a tutto il quartiere.
Io ho lanciato Milano 2 con una grande
sponsorizzazione, per cui ho innalzato di colpo il livello
dell’Edilnord Centri Residenziali al livello di grandi
aziende operanti in Italia. La presentazione al pubblico di
Milano 2 fu a opera di Esso Standard Italiana, Monte dei
Paschi di Siena, Riunione Adriatica di Sicurtà, Edilnord
Centri Residenziali, il che conferiva alla mia impresa lo
status di grande azienda, di azienda di primo livello. Se ci
mettiamo lì ci sarebbero un sacco di storie da raccontare.
Da parte di tutte queste aziende c’era interesse nella
realizzazione di Milano 2, la Esso Standard Italiana aveva
interesse a costruire la centrale termica e a essere
fornitrice di tutto il riscaldamento. La Riunione Adriatica
di Sicurtà ad assicurare tutte le case e tutto il
comprensorio, anche questo è un contratto che dura nel
tempo; il Monte dei Paschi di Siena a finanziare tutta la
parte dei mutui e ad avere l’esclusiva di una filiale
all’interno del quartiere che esiste ancora adesso. Io che
realizzavo Edilnord Centri Residenziali, ma nessuna di
queste aziende si prendeva la responsabilità di uscire con il
proprio nome, sponsorizzando per la prima volta
un’iniziativa residenziale, che si sapeva fino da allora,
avrebbe potuto suscitare un mare di contrasti perché era
nel clima di quegli anni, di avere tutta la stampa di sinistra
e tutti i partiti della sinistra contro. Io che avevo questa
pagina e la portavo nella direzione dell’altra, dovevo fare
le pagine con le altre due, la mia e senza Esso Standard
Italiana, quindi andavo a visitare la Esso Standard Italiana
portando il progetto della pagina senza la Esso, perché
dovevo chiedere a loro. Sono arrivato la sera prima di
dover dare il via alla presentazione, in cui praticamente
nessuna delle tre aveva deciso, tutte facevano dipendere la
decisione dall’altra, perché era una cosa nuova, perché
pensavano di poter intervenire in una situazione, in
un’avventura piena di critiche; quindi nessuna di loro si
sentiva autonomamente sospinta. Mancava forse la
decisione, in qualche caso il coraggio, si trattava di aziende
in cui non c’era l’imprenditore, c’erano dei manager, dei
funzionari e quindi nessuno di loro se la sentiva di
assumersi la responsabilità di andare a fare una cosa sulla
quale avrebbero anche potuto attirarsi delle critiche. Tutte
le case si sentivano rincuorate dalla presenza delle altre,
per cui Monte Paschi ci stava se ci stava Riunione Adriatica
di Sicurtà ed Esso e lo stesso discorso valeva per tutte le
altre. Io, quindi, il giorno conclusivo sono andato a Roma
alla Esso, a Siena dal Monte Paschi, praticamente lasciando
a tutti l’assicurazione che le altre due ci stavano. Era come
giocare con le tre carte e alla fine, con l’assicurazione che
le altre due ci stavano, perché non dicevo niente meno del
vero, però era pur vero che si trattava della storia
dell’uovo e della gallina. Finalmente riuscii a fare quadrare
i conti e alle otto di sera, con già prenotata la pagina sul
«Corriere della Sera», che era importantissimo allora,
erano ancora i tempi in cui quando si affermava una cosa
si diceva lo ha scritto il «Corriere della Sera»: ebbi dalla
Esso l’ok al lancio. Il giorno dopo feci un salto di rango
come azienda perché venne fuori questa pagina che
conservo ancora da qualche parte.
Fu un avvenimento con un mercato che rispose e con
una lunga avventura di costruzione a risolvere tutti i
problemi che si manifestano nell’inizio di vita di una
nuova città, dovetti affrontare dal problema delle maestre
a tutto l’impianto del centro commerciale, alla vendita dei
negozi del centro commerciale, a differenziare le locazioni
a seconda delle potenzialità di quel mercato per il singolo
negozio, per cui a certi negozi ho dovuto cedere anche
gratuitamente i locali perché era importante avere il
negozio, ma non si riusciva ad avere quella quantità di
vendita che giustificasse il negozio. Poi l’albergo, il
residence, la costruzione degli uffici che erano necessari
per vivificare il quartiere, c’è molta gente che adesso
lavora lì e che abita lì, poi i parcheggi centrali. Poi c’è stata
una grande battaglia che non è stata vinta perché alla fine
l’ho abbandonata. C’era un grande centro diversificato per
mostre, la sinistra ha vinto e non mi hanno lasciato
ultimare quello che sarebbe stato il completamento
vivificante della piazzetta sul lago, quindi il quartiere che
ha sia gli impianti sportivi, che gli uffici che portano
movimento e vivificazione, non aveva e non ha potuto
essere quel centro di attrazione che sarebbe potuto essere.
Milano Vende moda che ebbi lì una volta, con moltissima
vita, belle ragazze, modelli... ci sarebbe dovuta essere la
moda, poi le manifestazioni dell’artigianato, della pittura,
degli occhiali; ci doveva essere un palazzo per mostre
preziose che non mi hanno lasciato costruire per miopia
pura, poi io sono passato alla televisione e non ho più fatto
nulla. È stata una lotta che è durata cinque o sei anni con
una resistenza da parte loro e poi anche da parte degli
abitanti del quartiere che alla fine hanno preferito fare una
scelta di tranquillità, per un quartiere più residenziale. [...]
Raggiunto un certo livello e cominciando da metà
Brugherio e soprattutto con Milano 2 il traguardo era
quello di riuscire ad affermare un nuovo progetto
urbanistico, una nuova formula urbanistica per cui la
tensione, anche nel lavoro con i miei giovani collaboratori,
con i miei compagni architetti era quella di fare Milano 2,
ma di avere dentro di noi l’orgoglio di dire inventiamo
una formula urbanistica nuova che è la città dell’epoca
delle automobili, perché da quando sono state create le
automobili non si è cambiata la struttura della città, i nuovi
quartieri si fanno ancora come si facevano una volta,
strade, case, le automobili in mezzo alle strade. Facciamo
vedere che intervenuta l’automobile come protagonista
della vita di tutti, l’automobile stessa può essere tenuta in
una situazione di soccorso ma non di ingombro, per cui
eccoti la città tutta tua, tutta pedonale, dove i bambini
possono uscire di casa e andare a scuola senza incontrare
le auto, possono andare al parco giochi senza correre
rischi, i ciclisti possono girare e percorrere anche distanze
che a piedi non sono opportune, il tutto senza pericoli.
Quindi l’invenzione della città e delle auto sotto i ponti,
dei grandi spazi verdi, delle piste per pedoni, delle piste
ciclabili e della città che avesse in sé delle distanze, che
calcolavamo per i bambini, non superiori a trecento metri
dall’abitazione all’asilo. Tutto un lavoro certosino fatto con
la volontà e l’orgoglio di inventare una nuova formula
urbanistica che doveva essere la formula urbanistica della
civiltà e dell’automobile. Questa formula ha trovato
compimento quando ci siamo dedicati a Milano 3 che
doveva essere il perfezionamento di una formula
urbanistica.

Avete costruito all’estero o progettato altre città?

No, le abbiamo progettate ma poi non le abbiamo


realizzate, abbiamo progettato una città per Beirut 2, poi
c’è stata la guerra e non siamo riusciti da quel punto di
vista, ma anche perché la guerra che eravamo costretti a
combattere qui ci impediva di fare qualsiasi cosa.
Mi impegnai nella realizzazione di un quartiere, il
quartiere Edilnord a Brugherio e fu anche il mio primo
impatto con la pubblicità, l’invenzione di tutti gli slogan.
Centro Edilnord non mi piaceva come nome, ma
praticamente mi fu imposto dal fatto che i progetti erano
partiti con quel nome. «Quando a Milano piove c’è il sole
al Centro Edilnord», avevo dei volantini che si aprivano e
c’era dentro uno che aveva gli occhi chiusi che poi si
aprivano con un giochino di cartone e c’era scritto: «Son
felice, son contento del mio nuovo appartamento». Feci un
concorso con la scuola del Castello Sforzesco per cui
riempii dei negozi in via Dante dove avevo posto la sede
della vendita del Centro Edilnord e stetti per parecchi
mesi con tutte le trovate dei ragazzi su questa nuova città
che era la prima città satellite di cui Milano si dotava. Non
dico che lotte, che guerre, ci furono anche delle azioni
penali con un Comune come quello di Brugherio dove
c’erano democristiani di sinistra che vedevano male
questo insediamento perché non c’era la volontà degli
abitanti di allargare la loro consistenza, di avere nuovi
cittadini che entrassero nel loro Comune. C’era un’ostilità
di base nella giunta comunale nei confronti di un nuovo
insediamento, quindi dovetti fare tante guerre perché
fosse approvato il programma edilizio; c’era da
combattere non solo con il Comune, ma con la Regione
Lombardia, esattamente come dopo per la televisione,
anche lì ci fu una guerra continuativa con carta bollata, la
licenza c’è, no la licenza è passata, c’è la norma che dice
questo, c’è la norma che dice quest’altro, una guerra
contro il potere e contro la burocrazia. Ogni cosa era una
guerra: richiedere il progetto, richiedere l’inizio lavori, le
visite dell’ufficiale sanitario, avere l’abitabilità, chiedere le
modifiche, avere l’accettazione della licenza da parte del
comitato regionale di controllo. È sempre stata la guerra
contro la politica, contro la partitocrazia, il comando dei
partiti, dovevi passare sotto le forche caudine di tutti i
partiti per avere l’ok in giunta. Quindi una guerra
disastrosa. Io avevo abbandonato le costruzioni in Milano
perché a Milano dovevi andare in Comune con la busta
con i soldi in ogni ripartizione, per avere l’approvazione di
Palazzo Marino sul progetto bisognava pagare in ogni
singola ripartizione. E non c’era differenza di partito, non
c’era assolutamente differenza di partito. C’era un signore
che era in via Volturno che riceveva tutti gli imprenditori
del PCI che volevano costruire e da lì bisognava passare,
non c’era altro modo; allora io disgustato da questo, non
costruii più niente nel Comune di Milano. Nel Comune di
Brugherio non c’è stato questo problema, ma c’erano altre
difficoltà; lì cominciò la grande avventura della
costruzione di questo centro per quattromila persone.
Costruiamo le prime quattro case, il primo condominio e
si blocca il mercato. Io avevo due soci e per convincerli a
cedermi un terreno a Milano fu un’avventura. Erano due
vecchi signori, capomastri che avevano realizzato molte
case nella Milano degli anni prima della guerra e che si
erano ritrovati poi benestanti con diverse proprietà, con
un ufficio in via Leopardi a Milano che era fatto di un
ingresso, un salone, una stanza e il bagno. Erano due
fratelli in grandissima sintonia tra loro che avevano delle
tecniche collaudate per non impegnarsi nei confronti di
nessuno; per cui io volevo che mi cedessero un terreno
vicino alle prime case che avevo fatto proprio per quella
continuità, che mi avrebbe consentito di avere
l’avviamento in via San Geminiano dove ho realizzato le
due più belle case della zona, dove adesso vivono ancora
mia sorella e mia madre. Loro non volevano cedermi
l’area, allora io facevo loro la corte perché me la cedessero
ma che restassero in società con me in modo che
l’avventura, agli inizi attiva, non avrebbe dovuto
cominciare con un esborso importante dal punto di vista
finanziario. Per cui loro entravano nell’avventura, ci
mettevano l’area, noi ci saremmo occupati dei costi
secondo gli stati di avviamento della costruzione e io
sapevo che avrei potuto realizzare praticamente senza
esborsi, perché confidavo nella capacità di vendere, per
cui gli acconti e le anticipazioni dei clienti in corso d’opera
sarebbero stati un autofinanziamento come è successo in
tutta la mia avventura edilizia. Praticamente la tecnica di
questi signori, tra l’altro simpaticissimi, era che si faceva
trovare soltanto uno di loro, l’altro si spostava nell’ufficio
retrostante o addirittura in bagno, e chi ascoltava finiva
ineluttabilmente la conversazione dicendo: «Glielo dirò a
mio fratello, quindi le sapremo dire perché devo parlare a
mio fratello, io da solo non posso decidere».
Quando arrivavi la volta successiva era l’altro fratello
che sosteneva che il fratello non gli aveva detto niente, e
allora bisognava ricominciare da capo finché vai una volta,
vai un’altra, poi la terza e la simpatia si trasformò in
amicizia e poi successivamente in affetto e io ebbi nei
signori Botta dei soci fedelissimi e importantissimi. Tanto
è vero che volevano coinvolgermi anche nelle loro
vacanze, perché poi era venuta loro la voglia di stare
sempre con me, ero diventato il loro cocco. Ricordo una
cosa che mi è venuta in mente adesso, a un certo punto il
signor Giovanni Botta mi disse: «Senta, noi dobbiamo
andare a Varazze, lei sa guidare lo ioc? Allora guarda, noi
facciamo così: stiamo in società anche sullo ioc, con i soldi
dei bosc, ci compriamo lo ioc (i “bosc” erano i box, lo “ioc”
lo yacht), marinai non ne abbiamo bisogno perché lei sa
guidarlo e stiamo insieme il sabato e la domenica. Allora li
convinco, non solo a cedermi il terreno, e me l’hanno
ceduto dicendomi: «Noi fatica non ne facciamo, su questo
terreno non c’è la licenza, lei deve fare la licenza, deve fare
il progetto, deve fare la costruzione, deve fare la vendita,
le diamo il terreno e lei ce lo paga», quindi io l’ottenni e
nemmeno su proposta mia, ma su offerta loro; quindi mi
diedero fiducia e mi consentirono il pagamento a rate del
terreno, mi sembra senza nemmeno una fideiussione.
Diciamo che il rapporto che si era instaurato fu un
rapporto che consentì di fare queste case, gli appartamenti
furono venduti tutti in corso d’opera, fu un’operazione
molto, molto brillante.
Ma c’era da coinvolgerli a questo punto nell’operazione
del Centro Edilnord che era un’operazione da fare
tremare i polsi perché coinvolgeva quattromila persone,
quindi un numero di appartamenti che poi saprò
precisare, adesso non so, e grande difficoltà
nell’acquisizione del terreno. Ce l’aveva una società che
doveva costruire lì un’azienda che costruiva motori per
fuoribordo, che peraltro non fu un’avventura fortunata e a
un certo momento decise di chiudere e di liquidare tutto il
suo patrimonio. A questo punto fu per me possibile
comprare quel terreno che aveva un’indicazione di
sviluppo edilizio, ma che non era ancora consolidato in
uno strumento definitivo.
Lì cominciò il calvario durato anni e anni. Fondo la
società, nella società riesco ad avere dei soci: i signori
Botta, il signor Canali, il signor Rasini, il momento era
drammatico per cui c’era tutta una serie di iniziative
contro chi mostrava di avere. Erano gli anni Settanta, gli
anni di piombo, quindi uno dei nostri soci, il
commendator Piccitto consiglia, impone, di passare
attraverso una società straniera. Allora si fonda una società
straniera svizzera a Lugano e io vengo nominato socio
accomandatario di una società in accomandita semplice di
cui tutto il capitale era tenuto a Lugano da questa società
che aveva come azionisti tutte queste altre persone
riparate da questo paravento assolutamente lecito perché
non andava contro nessuna norma dell’ordinamento
italiano. Io comincio quindi a fare la costruzione di questa
città, costruisco le prime quattro case, il primo
condominio, e inizio la vendita degli appartamenti in un
momento veramente difficile di stasi totale dell’edilizia e
di difficoltà assoluta per ottenere i mutui. Quindi
purtroppo finisce il periodo delle case d’oro di cui io
avevo goduto soltanto gli ultimi momenti con le case
costruite a Milano e mi inoltro in un’operazione di grande
entità, di grande volume sia come volume concreto di
case, ma anche come volume finanziario proprio nel
momento in cui inizia la grande crisi dell’edilizia.
Comincio a costruire queste quattro case con un
bellissimo progetto, mi avvalgo di giovani architetti che
erano miei compagni di scuola, di Guido Possa che
studiava con architetti che sono rimasti miei amici del
cuore e che lavorano ancora nell’azienda di famiglia, anzi
l’Edilnord è tornata dentro credo addirittura al
quarantotto o cinquantadue per cento per le vicissitudini
di mio fratello, con questi giovani io ho stravolto il
quartiere con criteri nuovi.
Allora creai un centro di progettazione per gli architetti
assolutamente all’avanguardia. Una realizzazione che
prevedeva la scuola, l’asilo, un centro sportivo, un centro
commerciale, una comunità di quattromila e passa
abitanti. Non è una cosa da poco, soprattutto è una cosa da
tanto per un ragazzo che aveva alle spalle soltanto la
realizzazione di quattro case a Milano e che non aveva
nessuna situazione finanziaria tale da pensare di potervisi
cimentare. Un grandissimo progetto che doveva
finanziarsi in corso d’opera, perché con i soci, quello che si
era riusciti a mettere insieme era soltanto il capitale per
acquistare il terreno, quindi si doveva autofinanziare la
realizzazione. A questo punto inizia la costruzione delle
case, io sposto la vecchia baracca che avevo verniciato nei
cantieri di Milano, la metto lì e questa volta non la
vernicio io, perché avevo ormai alle spalle una struttura.
La mia condizione personale era quella di un ragazzo
che era riuscito con l’avventura milanese a restituire a suo
padre e alla sua famiglia quanto gli era stato prestato, e che
era riuscito a ricavare dall’operazione milanese il capitale
per una quota all’interno di questa società. A questo punto
comincia la costruzione di queste quattro case con un
impianto urbanistico molto gradevole e il mercato si
ferma. Io invento formule di vendita con tutte le
indicazioni, mettendo in campo miei compagni di
università, amici degli amici, andiamo a vedere i clienti
che vogliono comprare case a Milano, prendiamo la targa
di tutti i clienti che vanno a visitare a Milano da quelle
parti, andiamo all’ufficio dell’ACI, arriviamo al proprietario
della macchina e lo invitiamo a venire a visitare il nostro
quartiere. Invento tutta una serie di tecniche di vendita,
piazzo un negozio nel centro di Milano, in via Dante ed è
una novità, perché nessuna iniziativa edilizia allora aveva
piazzato un negozio, tutte cose che adesso sono scontate,
ma che allora erano assolute novità.
Frequento il negozio durante tutta la settimana, la
mattina lavoro, il pomeriggio e verso sera ricevo gente,
organizzo di portarli a vedere le case, ma le vendite non
vanno. Vendo alcuni appartamenti, non avevo da parte dei
miei soci un grande supporto, tanto è vero che una volta
sto finendo un contratto di vendita con un acquirente e
arrivano i signori Botta e uno dei due, Giovanni, che aveva
del vecchio rustico, si appoggia sulla finestra che dava
nell’ufficio vendite e comincia a manifestare il suo
pensiero davanti al mio cliente chiedendogli se fosse
andato là ad abitare e dicendogli: «Bel coraggio»; gli chiede
se compra con il mutuo e chiede a me se c’era il mutuo.
Un disastro... Io ho recuperato la vendita purtroppo,
perché noi avevamo poche vendite ma si capì subito che
non si poteva pensare che il mercato della singola
abitazione potesse dare seguito a un’operazione grande
come la nostra.
Allora venne il giorno in cui in una riunione di tutti i
soci si ebbe l’idea di porre fine all’iniziativa, non era il
fallimento perché si sarebbe cercato poi di vendere il
terreno, ma si pagavano i conti, si finivano queste quattro
case, le si vendevano e poi si sarebbe sciolta la società.
Forse sarebbe significato anche per me la fine della mia
avventura di imprenditore nell’edilizia. I tempi erano
veramente terribili, io allora dissi che il mercato a Milano
non era importante, ma il mercato importante era a Roma
dove c’è la presenza di tanti enti, che io non conoscevo
affatto, che erano obbligati per statuto a impiegare i loro
fondi in edilizia. Io avevo un’idea in testa che riguardava
un ente, il fondo di previdenza per i dirigenti commerciali
che aveva come presidente il commendator Piero
Michiara, questo signore era anche l’amministratore
delegato e presidente della Manzoni Pubblicità. Quella era
l’azienda che aveva messo in palio il Premio Manzoni
Pubblicità per la migliore laurea, io avevo avuto occasione
di conoscerlo perché ero andato da lui a presentare la mia
tesi di laurea, avevo fatto praticamente un successivo
esame di laurea con lui, e gli avevo fatto un’ottima
impressione, tant’è vero che a suo tempo lui mi aveva
chiesto di entrare nella sua agenzia di pubblicità, mi aveva
detto: «Quando vuole un posto per lei c’è sempre».
Come mi era successo con i Botta, avevo mantenuto un
rapporto di devota familiarità, deferente familiarità nei
suoi confronti e avevo saputo per caso che lui era
presidente di questo fondo commerciale, allora gli ho
parlato e avevo chiesto se non fossero interessati a
comprare degli immobili da reddito, e lui mi aveva detto:
«È molto difficile perché noi abbiamo l’amministrazione
soltanto a Roma e quindi tutta la nostra amministrazione, i
nostri affitti eccetera, sono soltanto a Roma». Poi mi aveva
detto che a Roma «c’era tutto un giro che io non sono
riuscito a conoscere e debellare per cui temo che tutti i
miei dirigenti romani siano tutti intrigati in un giro ormai
annoso e che sia praticamente impossibile ottenere da
parte di questo fondo una decisione che rompa questo
giro di interessi e che vada ad allargare il mercato di
operatività che è quello di Roma», mi diranno: «Noi non
possiamo pensare di amministrare una serie di cento e più
appartamenti a Milano». Naturalmente risposi subito che
«avrei garantito io l’amministrazione, la locazione
completa per un certo periodo, che a Roma non vi danno
come garanzia, e garantisco io l’amministrazione, quindi
io praticamente garantisco il reddito di queste case». «Su
questa base», lui mi disse, «proviamo».
Quando allora ci fu questa riunione per dire che si
sarebbe chiusa la società, chiesi due mesi di tempo e dissi
che prima di chiudere l’iniziativa avrei voluto provare
questo nuovo mercato. In quel momento ero veramente
angosciato perché vedevo la possibilità di chiudere
l’azienda, di mandare a casa le persone che lavoravano con
me, una ventina di persone, i miei amici architetti; era una
situazione molto difficile e molto negativa, ma pensai a
quello che mi ha insegnato mia madre: «Da un male
bisogna far nascere un bene», allora mi misi a caccia di
questa possibilità, combinai di andare a Roma al fondo di
previdenza a presentare i progetti in accordo con il
commendator Michiara. Ci fu una riunione del comitato
tecnico di questo ente, io andai a Roma e presentai il tutto,
riscontrai un’incredibile freddezza, d’altronde prevista, da
parte di tutti, e il commendator Michiara si impuntò e
pretese che comunque si facesse una visita a Milano da
parte del consiglio di amministrazione del fondo perché
lui aveva visitato le case che non erano ancora finite, ma
aveva notato che negli appartamenti c’era tutta una serie
di trovate, siccome lui pensava che Milano era l’opposto di
Roma.
A Roma c’erano praticamente soltanto offerte di case in
affitto, perché c’era questo mercato dei fondi, a Milano
c’erano soltanto offerte di case in vendita, quindi non
c’erano enti che affittavano appartamenti, perciò lui
riteneva che io avrei potuto davvero garantire la messa in
vendita immediata di questi appartamenti e quindi la
convenienza e l’acquisto a buon prezzo ma con alto
reddito. Lui combinò di far venire questo consiglio a
Milano, venne a Milano un loro incaricato, vide che i
lavori erano arretrati, che c’era tutto il parco in mezzo alle
quattro case che erano fatte a ferro di cavallo secondo uno
schema molto piacevole che io poi ho seguito in altre
iniziative; dietro c’era la parte autorimesse e davanti un
giardino solo pedonale con un grande prato, con degli
inserimenti marmorei importanti.
Allora suggerì a chi era interessato a che questa
operazione non passasse, di anticipare la visita di un mese
rispetto al tempo previsto, a me fu dato l’annuncio come
un fulmine a ciel sereno che la commissione avrebbe
anticipato di un mese il momento previsto per l’incontro
in base al quale noi avevamo fatto il programma di
ultimazione delle case. Credo che ci rimasero quindici
giorni di tempo, ci scatenammo e lavorando sabato,
domenica, giorno e notte, facemmo uno sforzo incredibile
per finire tutti gli appartamenti campioni, completammo
ogni tipologia di appartamento, cosa che non si era mai
fatta come se fossero appartamenti abitati, portando
fotografie, asciugamani, servizi di piatti, servizi di posate,
cristallerie, quadri, piante e depredammo tutti gli
appartamenti miei e dei miei amici architetti, dei miei
parenti di tutte le cose che avevano in giro per poter
offrire la novità di far vedere ogni appartamento arredato
e vissuto in modo che desse l’idea di come potesse essere
una volta finito. Le case erano già a buon punto, ma c’era
tutto il giardino da fare e lavorammo di giorno e notte,
acquistammo del prato già fatto, riempimmo di fioriere
ogni ingresso, facemmo gli ingressi in legno [frase
incomprensibile, nda], assoldammo un portiere che era un
nobile fiorentino decaduto che si chiamava Griccioli, era
stato nella Legione straniera che divenne poi la macchietta
del condominio. Apro una parentesi, ci raccontò tutte le
sue storie. Era stato in Indonesia e diceva: «Che fatica,
andavamo fuori la notte nei villaggi con tutti che ne
facevano di tutti i colori, noi eravamo bravi, loro
scappavano da tutte le parti e ci davano cinque dollari a
testa, una fatica per portare indietro tutte queste teste!»
Mettemmo le poltrone negli atri, tutto un livello
rilevantissimo, poi naturalmente eravamo convintissimi
che quel tipo di appartamento non esistesse sul mercato,
come poi il mercato confermò perché li affittammo tutti
in un mese e mezzo come avevo detto con una tecnica di
vendita che poi racconto. Ci dicemmo allora pronti a
ricevere queste persone un certo sabato mattina. Arriva la
commissione composta da un amico e tanti nemici, ma
bisogna a quel punto far vedere che c’è già un interesse del
mercato all’affitto di questi appartamenti. Allora telefono a
tutti i miei parenti e li faccio venire, non tanto i finti
acquirenti, li invitavo a venire a visitare gli appartamenti
campione appena finiti in anteprima, dissi: «Siccome
viene una commissione da Roma, ho l’orgoglio di fare
vedere gli appartamenti affittati».
Arriva la commissione, visita appartamento per
appartamento, si sale ogni scala e si guarda, ci fermiamo
con l’offerta di un aperitivo nel soggiorno
dell’appartamento più bello, il vicepresidente che era il più
animato da una sua ostilità nei nostri confronti si
chiamava commendator Mancuso, vicepresidente del
Fondo di previdenza e vicepresidente dell’Associazione
dei commercianti, persona importante; me lo ricordo
sempre con la sigaretta in bocca con un pacchetto
marrone lungo, le sigarette più eleganti dell’epoca, mi
lanciava frecciate in continuazione per cui per esempio
disse: «Ho finito le sigarette, quante ore ci vogliono per
andarle a comprare?» Tutte stoccate di questo genere, e io
naturalmente a dirgli: «Qui ci sarà il centro commerciale».
A un certo momento va alla finestra e non si muove da lì
per un quarto d’ora e io comincio a temere e infatti,
quando si volta, con una faccia raggiante mi dice: «Molto
interessante, molto confortante l’interesse che questo
pubblico, persone gradevolissime, esprime visitando
questi appartamenti su cui non possiamo che essere
d’accordo che sono belli, ma c’è una signorina che è
entrata poco fa e incontrandoli li ha baciati uno dopo
l’altro esattamente come si fa con i parenti a un funerale».
Era successo che una mia cugina, telefonando a mia
madre, aveva saputo che tutta la famiglia era a Brugherio a
vedere gli appartamenti nuovi, allora per non sentirsi
esclusa dalla cerimonia, è venuta di corsa per sottolineare
che c’era anche lei e quindi incontrando tutti non poteva
esimersi dal baciarli e abbracciarli. Quindi era stato
scoperto l’inghippo.
Era tutto bellissimo, avevamo bagnato l’erba la mattina e
il prato era fantastico, avevo piantato due giorni prima
delle meravigliose betulle impalcate alte che avevo trovato
in Brianza in quella che era la zona dei posteggi, era per
l’epoca un’edilizia assolutamente imparagonabile a quegli
immobili che lo stesso fondo aveva comprato a prezzi
maggiori a Roma. C’è la riunione prevista per una
decisione, Michiara mi dice: «Guarda che Mancuso è
troppo forte, o tu riesci in qualche modo ad avvicinarlo e a
fargli cambiare opinione, oppure non ci sono i numeri nel
comitato per arrivare a una soluzione positiva».
Allora io riesco con una serie di domande a contattare
una segretaria del dottor Mancuso, ad aver un rapporto
amichevole con lei, e quando lui viene a Milano con il
treno con i posti fissati, mi faccio prenotare un posto
esattamente di fronte a lui al ristorante. Vado a Roma alla
mattina, si incendia il motore di un aereo a elica
dell’Alitalia, faccio questo viaggio con grande dolore
perché quella mattina mio padre aveva dei calcoli al rene.
Io sono da sempre legato da un affetto fortissimo a mio
padre e con le lacrime agli occhi decido di andare a Roma
perché lui va in ospedale per subire l’intervento di
asportazione dei calcoli.
Alla sera alle cinque arriva lui con la sua eterna sigaretta
in bocca, mi si siede davanti, io tengo aperto il giornale
perché temevo che vedendomi avrebbe cambiato posto.
Ricordo che vedevo il treno uscire dalla stazione Termini
e vedevo che ormai le altre persone che erano rimaste
ancora in piedi si stavano sistemando, poi finalmente dico:
«Buona sera dottor Mancuso». Lui mi guarda e durissimo
mi dice: «Oh, il mio nemico!» Questa è stata l’ouverture.
Poi ho sfoderato quello che potevo per rendermi
simpatico, l’ho lasciato andare a parare sulle cose che a lui
piacevano, ho poi scoperto quali erano le sue debolezze, e
abbiamo cenato insieme, alla fine della cena abbiamo
bevuto un whisky e mi ha raccontato che sono diventato il
suo prediletto per cui, da quel momento in poi, è stato un
mio grande amico, ha frequentato la famiglia, non mi ha
mai chiesto niente, mi ha detto che gli sarebbe piaciuto
avere un figlio come me ed è stato lui il mio più forte
sostenitore [frase incomprensibile, nda].
Io l’ho rassicurato molto sul fatto che ero certo che
poteva [frase incomprensibile, nda] ci siamo fatti delle
risate sulla cugina, ho cominciato proprio dalla cugina
dicendogli che lui mi aveva colpito al cuore e gli ho
spiegato che cosa volevo fare per affittare in fretta questi
appartamenti.
Volevo fare varie tecniche, inserzioni eccetera. C’era, in
quel momento, il fabbricato commerciale che aveva dei
meravigliosi pilastri in rosa martellinato, quindi erano i
portici della città con dentro tutti i negozi. Poi gli ho
spiegato quello che volevo fare, con una tecnica precisa
avevo incaricato delle signore [frase incomprensibile, nda]
erano dei prodotti di plastica, contenitori per cibi da
tenere in frigorifero. La tecnica era questa: la venditrice
faceva dei tè e invitava le signore, si passava dalla
mondanità al pettegolezzo e poi le signore facevano gli
ordini. Allora organizzai dei tè in questi appartamenti che
erano adatti, perché erano belli. Le signore erano attirate
dal fatto di vedere delle belle case con dei mobili di
Magistretti, perché ogni appartamento aveva una sua
speciale caratteristica.
Qualcuno era arredato con mobili antichi, altri secondo
lo stile inglese, un altro con mobili molto moderni di
Cassina e curato da Magistretti, un altro appartamento
curato da un altro architetto ancora; c’erano delle tende
particolari, dei pizzi, quindi praticamente era come andare
a visitare un’esposizione, molto interessante anche per chi
non volesse comprare l’appartamento.
A questo punto organizzavamo dei pullman che
portavano delle signore e molto spesso anch’io
partecipavo a questi cocktail e ciascuna si metteva in
campo per la ricerca di una famiglia amica che fosse
interessata; naturalmente sceglievamo le signore che
avevano i mariti che lavoravano da quella parte della città,
per cui era tutta una ricerca fatta ad hoc, all’insegna del
verde rispetto alla Milano senza alberi degli anni Settanta.
Questo lo racconto perché ha portato dei bei risultati, in
meno di due mesi siamo riusciti a completare l’affitto di
tutto il comparto, andare oltre il reddito previsto e quindi
il Fondo di previdenza ha fatto un’operazione
assolutamente buona con un incremento forte del valore
degli immobili. Allora abbiamo venduto a sessantamila
lire al metro quadro, adesso valgono tre milioni e mezzo,
quattro milioni gli stessi appartamenti.
A un certo momento si verifica questa scena: mentre
finiscono questi tè e ci sono le signore che scendono per
tornare a Milano, avendo noi elogiato l’eleganza di questo
quartiere che trovava riscontro nella nobiltà delle case e
nel livello degli arredamenti, arriva un pullman da cui
scendono barcollando dei vecchi signori cantando; in
mezzo a loro intravedo le sagome massicce dei due
commendatori Botta, erano andati a fare la mangiata
annuale. I Botta volevano mostrare loro l’orgoglio del
proprio figlio adottivo che aveva costruito questo
quartiere che si annunciava come un quartiere bellissimo
e modernissimo. Scendono tutti e, avendo mangiato e
bevuto abbondantemente, si distribuiscono sotto il portico
e ciascuno “onora” di una parte di se stesso i miei
meravigliosi e intonsi pilastri del portico facendoci sopra
pipì davanti alle signore.
È stata una cosa divertentissima: da una parte le signore
che escono, dall’altra arrivano i Botta con i loro amici, tutti
settantenni, e tutti ridendo e scherzando dandosi paccate
sulla spalla si avvicinano e tutti a fare pipì dicendo frasi
consuete: «Chi non piscia in compagnia è un ladro e una
spia».
È stata una scena indimenticabile! Poi ho spiegato che
non sarebbe mai più successo. Quindi ho evitato la
chiusura del quartiere, ho fatto questa cosa straordinaria di
una vendita cambiando assolutamente mercato, ho
affittato in meno di due mesi tutti questi immobili. Il fatto
che questi immobili fossero occupati ha fatto
immediatamente vivere il quartiere per cui si è instaurato
un ciclo virtuoso di gente che veniva a trovare amici che
abitavano lì, poi ho inventato per la prima volta la
pubblicità redazionale sui giornali e ho fatto diverse
pagine sul «Corriere della Sera», pagine che scrivevo
interamente io.
Le ho ancora. Presentavo una pagina con le foto del
quartiere e con degli articoli sui ragazzi, sui giochi, una
pagina redazionale completamente scritta. Per i primi
tempi ero assistito nell’impaginazione, che non conoscevo,
da un giornalista del «Corriere della Sera» che si chiamava
Ugo Longo e che mi dava soltanto i menabò, mi aiutava a
sistemare le fotografie. Dopo la terza pagina avevo
imparato a farlo e quindi me le sono costruite da solo.
Quando facevo una pagina sul «Corriere della Sera»,
arrivavano in una domenica anche cento famiglie a
visitare il quartiere e con delle difficoltà enormi per
ottenere le licenze, per ottenere i mutui. Ci misi circa otto
anni.
Ricordo l’episodio di una cascina dove dovevo costruire
gli impianti sportivi e non mi si voleva dare la licenza di
distruzione di una vecchia e inutile cascina, quindi anche lì
una battaglia incredibile. Una notte mi misi su un
caterpillar e la buttai giù io, non volevo che nessuno se ne
assumesse la responsabilità. Era una cosa logica, giusta,
costruire i campi da tennis, una club house che poi fu
costruita, l’avevo promessa anche ai clienti e c’era la
renitenza di questi a darmi qualunque possibilità di
concludere i miei lavori, poi alla fine arrivò il permesso,
ma si sono sempre attaccati a tutto. Io ho sempre lavorato
con una difficoltà enorme riguardo il comitato di
controllo di Milano, siccome non pagavo, avevo una serie
infinita di grane. Così quest’avventura, che è durata diversi
anni in controtendenza rispetto al mercato, ha creato un
quartiere sicuramente all’avanguardia rispetto all’edilizia
di allora. Il tutto fatto con una società straniera di cui ero
soltanto il socio accomandatario e fu un’operazione che
andò molto bene. Da lì poi ci fu il salto successivo alla
grande realizzazione di Milano 2. Tanto per dire come
lavoravo allora: stavo nel quartiere tutta la settimana, in
ufficio, poi alla sera nelle ore di punta andavo in via
Manzoni dove c’era l’ufficio centrale vendite, poi seguivo
anche la parte progetti, perché questi giovani miei amici
architetti che erano bravissimi, ma amletici, assediati dai
dubbi, e quando uscivo dall’ufficio tecnico il giorno prima
e avevamo deciso una certa cosa, ci tornavo il giorno dopo
[frase incomprensibile, nda]. Era come sospingere un
masso in salita e tutte le volte che io lo lasciavo e tornavo il
giorno dopo, il masso era tornato giù da dove era partito.
Lì facemmo anche l’edilizia su misura per cui ogni
appartamento aveva un’opzione lasciata libera al cliente
che poteva scegliere tra marmo, moquette, parquet e tutte
quelle modifiche tecniche che ho ricordato, dalle luci
automatiche, alle tapparelle elettriche, ai grandi balconi e
io passavo il sabato pomeriggio e tutta la domenica in
cantiere a ricevere i visitatori. Avevo quindi organizzato
una schiera di ragazzi che si chiamavano
“accompagnatori” per cui il cliente veniva nel quartiere, le
guardie lo accompagnavano nell’ufficio vendita, lì veniva
preso in consegna da un accompagnatore che in base alle
sue esigenze gli faceva visitare l’appartamento campione,
poi tornava indietro e andava dai venditori.
I primi anni ero il venditore principe, per cui ero lì,
vendevo io, facevo le trattative io. [Frase incomprensibile,
nda] un’impresa colossale per un ragazzo di quell’età, e
con l’avversione di tutte le autorità. Ebbi i giornali contro.
Le altre case furono vendute [frase incomprensibile, nda]
poi tutto il resto finì invece sul mercato frazionato e fu
un’operazione di grande valore. Dopo l’operazione di
Milano 2 studiai un nuovo programma attingendo alla
scuola Montessori, lo sottoposi al Comune e alla fine
dovemmo metterlo da parte perché il Comune non
accettò di avere lì una scuola materna, ma ci furono le
proteste di tutti gli altri abitanti e quindi fummo bloccati.
Poi ci fu l’avviamento di tutti i negozi, per cui dovemmo
sostenere i vari negozianti e poi tutta la gestione del
condominio per cui io avevo due sere alla settimana
assemblee condominiali.
Lì fui il legislatore della divisione delle spese su cui i
condomini sono pronti a fare delle guerre: la divisione del
riscaldamento di quartiere, la divisione della pulizia,
quindi un’esperienza in cui mi sono formato proprio in
trincea sentendo da vicino la signora Maria o il cavalier
Giuseppe che protestavano.
Quindi si arriva a capire che non è giusto che chi sta
all’inizio della strada paghi la stessa quota di pulizia e di
consumo della stessa rispetto a quello che sta in fondo,
perché lui sta in fondo, e quindi consuma tutta la strada e
quelli che vanno a trovarlo, percorrono tutto il viale e
buttano le carte in terra. Perché io devo pagare questo,
mentre sono all’inizio?
Adesso fa ridere, ma è una cosa da inventare perché si
parla del diritto di una comunità di quattromila persone,
quando uno ha fatto un anno di Bicamerale, sembra
ridicolo, però erano problemi. Il contratto con la vendita
in blocco al fondo di previdenza, per me è stato una
passione perché allora non avevo la cultura dell’avvocato,
per me andare da un legale che ti chiedeva una parcella di
“x” per cento sull’entità della vendita era una cosa che non
mi potevo permettere.
Adesso gli avvocati mi fanno molte sorprese, ma allora
ero laureato in legge e i miei soci dicevano: «Sai tu quello
che devi fare», e l’ho fatto tutto da solo. I contratti, la
vendita delle parti accessorie, è venuto fuori da me, e mi
sono scritto articolo primo, secondo in contraddittorio
dialettico [frase incomprensibile, nda] che aveva una sua
precisa esperienza perché avevano acquistato molte case.
Per un ragazzo dell’età di vent’anni, senza avere nessun
supporto, con i soci che ti criticano, un quartiere di quelle
dimensioni e la politica che ti fa la guerra! I condomini da
una parte, la politica che ti fa la guerra, i soci che
pretendono, il fisco che ti fa le visite, è stata un’esperienza
veramente allucinante. E ho costruito tutto con un’azienda
[frase incomprensibile, nda] e ho fatto un quartiere da
ventimila persone. Poi la grande avventura di Milano 2
che è veramente un quartiere modello ancora oggi, perché
urbanisticamente ha introdotto tutti i servizi di zona,
molto verde, tutte le tipologie di case di condomini
all’avanguardia e ancora oggi validissime.
Ma c’è stata la separazione assoluta del percorso
pedonale, del percorso ciclabile e dei percorsi per le
automobili, quindi un esempio di un quartiere che si fa ex
novo e che è visitato ancora oggi da molti urbanisti di
tutto il mondo. Ancora oggi l’Edilnord ha un ufficio e ci
sono delle visite, in certi momenti non passava giorno
senza una visita a questo quartiere. Ancora adesso, quando
ho delle angosce e voglio dare un senso alle cose che ho
fatto, vado mani in tasca a Milano 2 e la cosa mi rincuora,
perché ci sono più di diecimila persone che hanno trovato
qui un teatro di vita di altissima qualità con la possibilità
per i figli di andare ai campi giochi e di poterli vedere in
televisione in casa, di mandarli all’asilo, a scuola, agli
impianti sportivi, a imparare il tennis, il nuoto, fare
ginnastica; tutto in casa.
I ragazzi che hanno formato un’associazione per cui
risultava difficile ai genitori portarli al mare perché loro
stavano bene lì, avevano le loro amicizie. Siccome sono
quasi tutte famiglie giovani, hanno avuto i figli lì. Adesso,
per esempio, gli asili sono vuoti. Quella è stata una grande
avventura con tanti racconti e con troppe guerre, sempre e
comunque contro il potere, sempre e comunque contro
chi, di base, è invidioso.
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La Banca Rasini era stata fondata dai Borghi Ressi, era la


banca dei milanesi una di quelle banche familiari. Mio
marito vi entrò giovanotto, poi fece carriera, è diventato
procuratore di borsa, poi c’è stata la guerra. Quando è
tornato la banca era diventata proprietà di Rasini. Quando
lui è entrato in banca, Rasini era impegnato nelle relazioni
e lui si occupava di tutto. [...] Quando si è laureato con
centodieci e lode ha ricevuto una richiesta da Roma
perché lo volevano in diplomazia. Io dissi: «Eh Silvio mi
pare una bella cosa, dovresti accettare». E lui: «Mamma io
non voglio lavorare per gli altri, voglio lavorare per me
stesso, voglio fare cose che siano mie». Allora il papà:
«Spiegati, dì cosa vuoi fare?» C’era un cliente della banca, il
signor Canali che costruiva delle bellissime case a Sesto
San Giovanni.
Mio marito gli dice: «Ma senta, come mai lei non ha mai
pensato di mettersi in proprio?» E questo dice: «Preferisco
lavorare per conto terzi. Vengo dalla gavetta e quindi non
mi sento all’altezza, un domani, di fare tutto quello che
segue». E allora mio marito ha avuto subito un’idea: «No
guardi, se lei dovesse mettersi a costruire diversamente
avrebbe anche dei guadagni migliori». E pensò cosa poter
far fare a Silvio.
Lui e un altro cliente della banca avrebbero permesso a
Silvio di andare a vedere tutto quello che si faceva per
costruire le case. Sono quelli che hanno costruito le prime
case di San Gimignano dove siamo noi. Dopo sei mesi
questo ingegnere viene e dice a mio marito: «Suo figlio ne
sa più dopo sei mesi di me che sono quello che
costruisco».
Allora mio marito ha parlato sempre con Rasini per
vedere di farlo mettere in società. Silvio ha detto: «Sì, io
vengo ma voglio qualcosa di più dell’altro perché voglio
poter comandare». Noi abbiamo venduto tutto quello che
possedevamo e davanti a Rasini ha detto: «Silvio, io ti
affido tutto quello che abbiamo, fanne buon uso, tu sai che
non sei solo, siete in tre. Quando sarà il momento buono,
se saprai fare fruttare questi soldi devi considerare che ci
sono i tuoi fratelli che hanno diritto anche loro, perché
appartengono anche a loro». Poi certamente non
bastavano, perché Silvio non voleva assoggettarsi agli altri.
Allora Rasini, che gli vuole un bene dell’anima, ha detto:
«Io ti faccio una fideiussione in modo che hai i soldi
necessari a incominciare il lavoro». Silvio ha cominciato a
realizzare Brugherio, ha fatto tanto lavoro. E poi hanno
chiesto di poter aderire i commendatori Botta, costruttori
di Milano. Avevano già superato i settanta anni, adesso
sono morti, erano clienti della banca e hanno chiesto loro
di poter entrare perché subito quando hanno conosciuto
Silvio, hanno visto in lui la persona che ci sapeva fare. Così
sono diventati soci e hanno fondato la Cantieri Riuniti:
Canali, Silvio, i Botta, Rasini.
Nel frattempo ha comprato i terreni a Quattro Prati. Lui
aveva grandi idee. E mio marito diceva: «Ma come
faremo?» Quante notti senza chiudere occhio!
Insomma, morale, lui è riuscito e sono state costruite
quelle quattro case ai Quattro Prati e poi andava avanti a
Brugherio. Litigava con Canali perché cercava di spendere
poco per guadagnare di più e invece Silvio diceva che
bisognava fare cose diverse dagli altri, cose fatte bene in
modo che chi viene a vedere si renda conto che le porte, i
servizi sanitari, sono tutti ben curati. Poi ha conosciuto
Bongi, il conte Bongi. Lo chiamavano “l’angelo dei
bambini” perché dopo la guerra ha fatto tanta carità. Lui
era il proprietario del terreno di Milano 2.
Ha espresso a Silvio la volontà di vendere quei terreni
che Silvio ha deciso di acquistare. A Brugherio ha venduto
subito. Ai Quattro Prati la mamma di Confalonieri è stata
la prima a comprare due appartamenti sulla carta. Per far
nascere Milano 2 si è proposto di costruire lui il viale che
doveva condurre al cantiere. L’ha abbellito con piante, ci
ha portato dentro la terra, ha fatto le colline, lui ha sempre
tenuto alle cose belle, all’armonia delle cose.
Deciso a fare Milano 2 non ha voluto più soci. I soci sono
rimasti un po’ male, però hanno compreso che Silvio
desiderava fare da solo. Hanno diviso. A Rasini ha regalato
il dieci per cento, mi pare, su tutto quello che faceva a
Milano 2. E i Rasini abitano tutti a Milano 2. È una bella
città, sono venuti dall’estero tanti architetti a vederla; l’ha
creata lui, la gente che ci sta si trova bene.
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Egregio Direttore, ritorno sull’intervista che mi è stata


cortesemente concessa sul suo giornale a proposito di una
domanda di Paolo Biondani: «Ma perché il Cavaliere non
rivela i suoi primi finanziatori?», alla quale, secondo il
testo pubblicato, avrei risposto: «Questa domanda non la
capisco». Ricorderà bene lo stesso intervistatore che ebbi a
dire invece: «Che senso ha questa domanda nel contesto di
questa intervista?» E non aggiunsi quello che avrei
sicuramente aggiunto se ci fosse stata anche una insistenza
da parte del dottor Biondani. E cioè che l’inizio della
carriera imprenditoriale di Silvio Berlusconi è già stato
raccontato infinite volte e non c’è perciò nulla di
misterioso.
I primi passi dell’imprenditore Berlusconi furono la
costruzione di case a Milano e Brugherio. I primi
finanziamenti li ebbe naturalmente in banca con mutui e
fideiussioni. I primi finanziatori perciò furono gli
impresari edili milanesi Pietro Canali, Giovanni ed Enrico
Botta, il banchiere Carlo Rasini e il commercialista
Edoardo Piccitto, uno dei più noti e affermati
professionisti dell’epoca. Tutte persone peraltro legate a
Silvio e a suo padre da una profonda stima e amicizia,
consolidatesi poi negli anni grazie ai successi conseguiti
insieme.

Cordialmente
Marcello Dell’Utri1
1. Le origini della Fininvest, rubrica delle lettere, «Corriere
della Sera», 4 febbraio 1994.
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Silvio Berlusconi era il portaborse di Bettino Craxi. È


una costola del vecchio regime. È il più efficace riciclatore
dei calcinacci del pentapartito. Mentre la Lega faceva
cadere il regime, lui stava nel Mulino Bianco, col
parrucchino e la plastica facciale. Lui è un tubo vuoto
qualunquista. Ma non l’avete visto, oggi, tutto impomatato
fra le nuvole azzurre?
Berlusconi è bollito. È un povero pirla, un traditore del
Nord, un poveraccio asservito all’Ulivo, segue anche lui
l’esercito di Franceschiello dietro il caporale D’Alema con
la sua trombetta. Io ho la memoria lunga. Ma chi è
Berlusconi? Il suo Polo è morto e sepolto, la Lega non va
con i morti. La trattativa Lega-Forza Italia se l’è inventata
lui, poveraccio. Il partito di Berlusconi neo-Caf [Craxi-
Andreotti-Forlani, nda] non potrà mai fare accordi con la
Lega. Lui è la bistecca e la Lega il pestacarne.
Berlusconi mostra le stesse caratteristiche dei dittatori. È
un kaiser in doppiopetto. Un piccolo tiranno, anzi è il
capocomico del teatrino della politica. Un Perón della
mutua. È molto peggio di Pinochet. Ha qualcosa di
nazistoide, di mafioso. Il piduista è una volpe infida
pronta a fare razzia nel mio pollaio.
Berlusconi è l’uomo della mafia. È un palermitano che
parla meneghino, un palermitano nato nella terra sbagliata
e mandato su apposta per fregare il Nord. La Fininvest è
nata da Cosa nostra. C’è qualche differenza fra noi e
Berlusconi: lui, purtroppo, è un mafioso. Il problema è che
al Nord la gente è ancora divisa tra chi sa che Berlusconi è
un mafioso e chi non lo sa ancora.
Ma il Nord lo caccerà via, di Berlusconi non ce ne fotte
niente. Ci risponda: da dove vengono i suoi soldi? Dalle
finanziarie della mafia? Ci sono centomila giovani del
Nord che sono morti a causa della droga. A me,
personalmente, Berlusconi ha detto che i soldi gli erano
venuti dalla Banca Rasini, fondata da un certo Giuseppe
Azzaretto, di Palermo, che poi è riuscito a tenersi tutta la
baracca. In quella stessa banca lavorava anche il padre di
Silvio e c’erano i conti di numerosi esponenti di Cosa
nostra.
Bisognerebbe conoscere le sue radici, la sua storia. Gelli
fece il progetto Italia e c’era il buon Berlusconi nella P2.
Poi nacquero le Holding. Come potrà mai la magistratura
fare il suo dovere e andare a vedere da dove vengono quei
quattrini, ricordando che la mafia quei quattrini li fa con la
droga e che di droga al Nord sono morte decine di
migliaia di ragazzi che ora gridano da sottoterra? Se lui
vuole sapere la storia della caduta del suo governo, venga
da me che gliela spiego io: sono stato io a metter giù il
partito del mafioso. Lui comprava i nostri parlamentari e
io l’ho abbattuto. Quel brutto mafioso guadagna soldi con
l’eroina e la cocaina. Il mafioso di Arcore vuole portare al
Nord il fascismo e il meridionalismo. Discutere di par
condicio è troppo poco: propongo una commissione di
inchiesta sugli arricchimenti di Berlusconi. In Forza Italia
ci sono oblique collusioni fra politica e omertà criminale e
fenomeni di riciclaggio. L’uomo di Cosa nostra, con la
Fininvest, ha qualcosa come trentotto holding, di cui sedici
occulte. Furono fatte nascere da una banca di Palermo a
Milano, la Banca Rasini, la banca di Cosa nostra a Milano.
Forza Italia è stata creata da Marcello Dell’Utri.
Guardate che gli interessi reali spesso non appaiono. In
televisione compaiono volti gentili che te la raccontano su,
che sembrano per bene. Ma guardate che la mafia non ha
limiti. La mafia, gli interessi della mafia, sono la droga, e la
droga ha ucciso migliaia e migliaia di giovani, soprattutto
al Nord. Palermo ha in mano le televisioni, in grado di
entrare nelle case dei bravi e imbecilli cittadini del Nord.
Berlusconi ha fatto ciò che ha voluto con le televisioni,
anche regionali, in barba persino alla legge Mammì. Molte
ricchezze sono vergognose, perché vengono da decine di
migliaia di morti. Non è vero che pecunia non olet. C’è
denaro buono che ha odore di sudore, e c’è denaro che ha
odore di mafia. Ma se non ci fosse quel potere, il Polo si
squaglierebbe in poche ore.
Incontrare di nuovo Berlusconi ad Arcore? Lo escludo,
niente più accordi col Polo. Tre anni fa pensarono di farci
il maleficio. Il mago Berlusconi ci disse: «Chi esce dal
cerchio magico, cioè dal mio governo, muore». Noi
uscimmo e mandammo indietro il maleficio al mago. Non
c’è marchingegno stregato che oggi ci possa far rientrare
nel cerchio del berlusconismo. Con questa gente, niente
accordi politici: è un partito in cui milita Dell’Utri,
inquisito per mafia. «La Padania» chiede a Berlusconi se è
mafioso? Ma ci è andata fin troppo leggera! Doveva andare
più a fondo, con quelle carogne legate a Craxi.
Io con Berlusconi sarò il guardiano del baro. Siamo in
una situazione pericolosa per la democrazia: se quello va a
Palazzo Chigi, vince un partito che non esiste, vince un
uomo solo, il Tecnocrate, l’Autocrate. Io dico quel che
penso, lui fa quel che incassa. Tratta lo Stato come una
società per azioni. Ma chi si crede di essere: Nembo Kid?
Ma vi pare possibile che uno che possiede centoquaranta
aziende possa fare gli interessi dei cittadini? Quando
quello piange, fatevi una risata: vuol dire che va tutto
bene, che non è ancora riuscito a mettere le mani sulla
cassaforte. Bisogna che Berlusconi-Berluscosa-Berluskaz-
Berluskaiser si metta in testa che con i bergamaschi io ho
fatto un patto di sangue: gli ho giurato che avrei fatto di
tutto per avere il cambiamento. E non c’è villa, non c’è
regalo, non c’è ammiccamento che mi possa far cambiare
strada... Berluscoso deve sapere che dalle nostre parti la
gente è pronta a fargli un culo così: bastano due secondi, e
dovrà scappare di notte. Se vedono che li ha imbrogliati,
quelli del Nord gli arrotolano su le sue belle ville e i suoi
prati all’inglese e scaraventano tutto nel Lambro.
Berlusconi, come presidente del Consiglio, è stato un
dramma.
Quando è in ballo la democrazia, a qualcuno potrebbe
anche venire in mente di fargli saltare i tralicci dei
ripetitori. Perché lui con le televisioni fa il lavaggio del
cervello alla gente, col solito imbroglio del venditore di
fustini del detersivo. Le sue televisioni sono contro la
Costituzione. Bisogna portargliele via. Ci troviamo in una
situazione di incostituzionalità gravissima, da Sudamerica.
Un uomo ha ottenuto dallo Stato la concessione delle
frequenze tv per condizionare la gente e orientarla al voto.
Non accade in nessuna parte del mondo. È ora di mettere
fine a questa vergogna. Se lo votate, quello vi porta via
anche i paracarri.
Se cade Berlusconi, cade tutto il Polo, e al Nord si
prende tutto la Lega. Ma non lo faranno cadere: perché
sarà pure un figlio di buona donna, ma è il loro figlio di
buona donna, e per questo lo tengono in piedi. Ma il
poveretto di Arcore sente che il bidone forzitalista e
polista, il partito degli americani, gli va a scatafascio. Un
massone, un piduista come l’arcorista è sempre stato un
problema di “Cosa sua” o “Cosa nostra”. Ma attento,
Berlusconi: né mafia, né P2, né America riusciranno a
distruggere la nostra società. E lui alla fine avrà un piccolo
posto all’Inferno, perché quello lì non se lo pigliano
nemmeno in Purgatorio. Perché è Berlusconi che dovrà
sparire dalla circolazione, non la Lega. Non siamo noi che
litighiamo con Berlusconi, è la Storia che litiga con lui1.
1. Le frasi contenute nel testo sono state pronunciate
testualmente da Umberto Bossi fra il 1994 e il 1999, cioè
durante le tensioni del primo governo Berlusconi, dopo la
rottura fra Bossi e il Cavaliere nel dicembre 1994 e prima
della loro riappacificazione alla fine del 1999 (in Marco
Travaglio, Peter Gomez, Berlusconi, stampa in proprio,
2003).
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3$ ' $ 1 , $ {   

1. Il 26 settembre 1968, la sua Edilnord sas acquistò dal


conte Bonzi l’intera area dove lei, signor Berlusconi,
edificherà Milano 2. Lei pagò il terreno 4250 lire al metro,
per un totale di oltre tre miliardi di lire. Questa somma,
nel 1968, quando lei aveva trentadue anni e nessun
patrimonio familiare a disposizione, era di enorme
portata. Oggi, tabella Istat alla mano, equivarrebbe a oltre
38.739.000.000 lire. Dopo l’acquisto, lei aprì un gigantesco
cantiere edile, il cui costo arriverà a sfiorare i cinquecento
milioni al giorno, che in quattro-cinque anni edificherà
l’area abitativa di Milano 2. Tutto questo denaro chi
gliel’ha dato, signor Berlusconi? Chi si nascondeva dietro
le finanziarie di Lugano? Risponda.

2. Il 22 maggio 1974 la sua società Edilnord Centri


Residenziali sas compì un aumento di capitale che così
arrivò a seicento milioni di lire (4,8 miliardi di oggi, fonte
Istat). Il 22 luglio 1975 – un anno dopo – la medesima
società eseguì un altro aumento di capitale passando dai
suddetti seicento milioni a due miliardi (quattordici
miliardi di oggi, fonte Istat). Anche in questo caso, che è
solo l’esempio di alcune delle tante e fortissime
ricapitalizzazioni delle sue società, signor Berlusconi,
vogliamo sapere da dove e da chi le sono pervenuti tali
ingentissimi capitali in contanti. Se lei non lo spiega,
signor Berlusconi, si è autorizzati a ritenere che sia denaro
di dubbia origine, denaro dall’orribile odore.

3. Il 2 febbraio 1973, lei, signor Berlusconi, fondò un’altra


società: la Italcantieri srl. Il 18 luglio 1975 questa sua piccola
impresa diventò una spa, con un aumento di capitale a
cinquecento milioni. In seguito, quei cinquecento milioni
diventeranno due miliardi, e lei farà in modo da emettere
anche un prestito obbligazionario per altri due miliardi.
Nell’arco di nemmeno tre anni, una sua società forte di un
capitale di venti milioni, appunto Italcantieri srl, si
trasformerà in un colosso, moltiplicando per cento il suo
patrimonio. Come fu possibile? Da dove prese, chi le
diede, in che modo entrò in possesso, signor Berlusconi, di
queste fortissime somme in contanti? Risponda. Lo
spieghi.

4. Il 15 settembre 1977 la sua società Edilnord sas, signor


Berlusconi, cedette alla neocostituita Milano 2 spa tutto il
costruito di Milano 2 più alcune aree ancora da edificare.
Tuttavia, quel giorno lei decise anche il contestuale
cambiamento di nome della società acquirente. Infatti
l’impresa Milano 2 spa cominciò a chiamarsi così proprio
in quella data. Quando fu fondata a Roma, il 16 settembre
’74, rispondeva al nome Immobiliare San Martino spa,
“forte” di un milione di lire di capitale e amministrata da
Marcello Dell’Utri, il suo “segretario”. Sempre il 15
settembre 1977, quel milione salirà a cinquecento, il 19
luglio 1978 a due miliardi. Un’altra volta: tutto questo
denaro da dove arrivò?

5. Signor Berlusconi, il cuore del suo impero, la


notissima Fininvest, lei sa bene che nacque in due tappe. Il
21 marzo 1975 a Roma lei diede vita alla Fininvest srl, venti
milioni di capitale, che l’11 novembre diventeranno due
miliardi con il contestuale trasferimento della sede a
Milano. L’8 giugno 1978, ancora a Roma, lei fondò la
Finanziaria di Investimento srl, soliti venti milioni,
amministrata da Umberto Previti, padre del noto Cesare. Il
30 giugno 1978, quei venti milioni diventeranno
cinquanta, e il 7 dicembre diciotto miliardi (ottantuno
miliardi di oggi). Il 26 gennaio 1979 le due Fininvest si
fonderanno. Ebbene, questa gigantesca massa di capitali da
dove arrivò, signor Berlusconi?

6. Signor Berlusconi, lei almeno una volta sostenne che


le ventidue holding alla testa del suo impero societario
vennero costituite da Umberto Previti per pagare meno
tasse allo Stato. Nessuno dubiterà mai più di queste sue
affermazioni, quando lei spiegherà per quale ragione
affidò consistenti quote delle suddette ventidue holding
alla società Par.Ma.Fid. di Milano, la medesima società
fiduciaria che nel medesimo periodo gestì il patrimonio di
Antonio Virgilio, finanziere di Cosa nostra e grande
riciclatore di soldi sporchi per conto di Alfredo e Giuseppe
Bono, Salvatore Enea, Gaetano Fidanzati, Carmelo Gaeta e
altri boss della mafia siciliana operanti a Milano. Perché la
Par.Ma.Fid.?

7. È universalmente noto che lei, signor Berlusconi,


come imprenditore è nato col “mattone” per poi
approdare alla tv. Ebbene, sul finire del 1979, lei diede
incarico ad Adriano Galliani di girare l’Italia ad acquistare
frequenze televisive, e infatti Galliani si diede molto da
fare. Iniziò dalla Sicilia, dove entrò in società con i fratelli
Inzaranto di Misilmeri, frazione di Palermo, nella loro
Retesicilia srl. Soltanto che Giuseppe Inzaranto, neo-socio
di Galliani, era anche marito della nipote prediletta di
Tommaso Buscetta, che nel 1979 non è un “pentito”, è un
boss di prima grandezza. Questo lei lo sapeva, signor
Berlusconi? Sapeva di aver sfiorato i vertici della mafia?

8. È certo che a lei, signor Berlusconi, il nome


dell’Immobiliare Romana Palano non può risultare
sconosciuto. Certo ricorda che nel 1974 la suddetta società,
dodici milioni di capitale, finì sotto il suo controllo
amministrata da Marcello Dell’Utri. Fu proprio sui terreni
posseduti da questa immobiliare che lei edificherà Milano
3. Così pure ricorderà, signor Berlusconi, che nel 1976 quel
piccolo capitale di dodici milioni salirà a cinquecento e il
12 maggio 1977 a un miliardo. Inoltre lei modificherà
anche il nome a questa impresa, che diventerà la notissima
Cantieri Riuniti Milanesi spa. Ancora una volta: da dove
prese, chi le fornì i 988 milioni (cinque miliardi d’oggi) per
quest’ennesima iniezione di soldi?

9. Lei signor Berlusconi, certamente rammenta che il 4


maggio 1977 a Roma fondò l’Immobiliare Idra col capitale
di un milione. Questa società che possiede beni
immobiliari pregiatissimi in Sardegna, l’anno successivo –
era il 1978 – aumentò il proprio capitale a novecento
milioni di lire in contanti. Signor Berlusconi, da dove
arrivarono gli 899 milioni che fecero la differenza? E poi:
da dove, da chi, perché lei entrò in possesso delle
stratosferiche somme che le permisero di far intestare
all’Immobiliare Idra proprietà in Costa Smeralda – ville e
terreni – il cui valore è da contarsi in decine di miliardi?
Dica la verità, signor Berlusconi. Sveli anche questo
mistero impenetrabile.

10. Signor Berlusconi, in più occasioni lei ha usato – vedi


l’acquisto dell’attaccante Lentini dal Torino Calcio, per
esempio – la finanziaria di Chiasso denominata Fimo.
Anche in questo caso, come in precedenza per la
finanziaria Par.Ma.Fid., ha scelto una società fiduciaria al
cui riguardo le cronache giudiziarie si sono largamente
espresse. La Fimo, infatti, era la sede operativa di
Giuseppe Lottusi, riciclatore di soldi sporchi dalla cosca
dei Madonia, e Lottusi il 15 novembre del 1991 verrà
condannato per questo a vent’anni di reclusione. Ebbene,
la transazione per l’acquisto di Lentini, tramite la Fimo,
avvenne nella primavera del 1992. Perché la Fimo, signor
Berlusconi?1
1. «la Padania», 19 agosto 1998.
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Al primo ministro della Repubblica italiana sono state


rivolte dieci domande circa le sue relazioni con una
ragazza minorenne invitata più volte anche a cene
ufficiali. Fino a ora si è rifiutato di rispondere. Si potrebbe
fare uno sconto al signor Silvio Berlusconi, chiedendogli
di rispondere a sette domande. Signor Berlusconi,
potrebbe rispondere pubblicamente a queste domande?

Premessa:

La Banca Rasini di Milano, di proprietà negli anni


Settanta di Carlo Rasini, è stata indicata da Sindona, e in
molti documenti ufficiali di magistrati che hanno indagato
sulla mafia, come la principale banca utilizzata dalla mafia
per il riciclaggio del denaro sporco nel Nord-Italia.
Di questa Banca sono stati clienti Pippo Calò, Totò Riina
e Bernardo Provenzano, negli anni in cui formavano la
cupola della mafia.
In quegli stessi anni il signor Luigi Berlusconi lavorava
presso la Banca, prima come impiegato, poi come
procuratore con diritto di firma e infine come direttore.

1. Nel 1970, il procuratore della banca Luigi Berlusconi


ratifica un’operazione molto particolare: alla Banca Rasini
acquisisce una quota della Brittener Anstalt, una società di
Nassau legata alla Cisalpina Overseas Nassau Bank, nel cui
consiglio d’amministrazione figurano Roberto Calvi, Licio
Gelli, Michele Sindona e monsignor Paul Marcinkus.
Questo Luigi Berlusconi, procuratore con diritto di firma
della Banca Rasini, era suo padre?

2. Sempre intorno agli anni Settanta il signor Silvio


Berlusconi ha registrato presso la Banca Rasini ventitré
holding come «negozi di parrucchiere ed estetista», è lei
questo signor Silvio Berlusconi?

3. Lei ha registrato presso la Banca Rasini, ventitré


«Holding italiane» che hanno detenuto per molto tempo il
capitale della Fininvest, e altre quindici holding, incaricate
di operazioni su mercati esteri. Le ventitré holding di
parrucchiere, che non furono trovate a una prima
indagine della guardia di finanza, e le ventitré Holding
italiane, sono la stessa cosa?

4. Nel 1979 il finanziere Massimo Maria Berruti che


dirigeva e poi archiviò l’indagine della guardia di finanza
sulle ventitré holding della Banca Rasini, si dimise dalle
fiamme gialle. Questo signor Massimo Maria Berruti è lo
stesso che fu assunto dalla Fininvest subito dopo le
dimissioni dalla guardia di finanza, fu poi condannato per
corruzione, eletto in seguito parlamentare nelle file di
Forza Italia e incaricato dei rapporti delle quattro società
Fininvest con l’avvocato londinese David Mills, appena
condannato in Italia su segnalazione della magistratura
inglese?

5. Nel 1973 il tutore dell’allora minorenne ereditiera


Anna Maria Casati Stampa si occupò della vendita al
signor Silvio Berlusconi della tenuta della famiglia Casati
ad Arcore. La tenuta dei Casati consisteva in una tenuta di
un milione di metri quadrati, un edificio settecentesco con
annesso parco, villa San Martino, di circa cinquecento
metri quadri, centoquarantasette stanze, una pinacoteca
con opere del Quattrocento e Cinquecento, una biblioteca
con circa tremila volumi antichi, un parco immenso,
scuderie e piscine. Un valore inestimabile che fu venduto
per la cifra di cinquecento milioni di lire
(duecentocinquantamila euro) in titoli azionari di società
all’epoca non quotate in borsa, che furono da lei
riacquistati pochi anni dopo per duecentocinquanta
milioni (centoventicinquemila euro). Il tutore della Casati
Stampa era un avvocato di nome Cesare Previti. Questo
avvocato è lo stesso che poi è diventato suo avvocato della
Fininvest, senatore di Forza Italia, ministro della Difesa,
condannato per corruzione ai giudici, interdetto dai diritti
civili e dai pubblici uffici, e che lei continua a frequentare?

6. A Milano, in via sant’Orsola 3, nacque nel 1978 una


società denominata Par.Ma.Fid. La Par.Ma.Fid. è la
medesima società fiduciaria che ha gestito tutti i beni di
Antonio Virgilio, finanziere di Cosa nostra e riciclatore di
capitali per conto dei clan di Giuseppe e Alfredo Bono,
Salvatore Enea, Gaetano Fidanzati, Gaetano Carollo,
Carmelo Gaeta e altri boss – di area corleonese e non –
operanti a Milano nel traffico di stupefacenti a livello
mondiale e nei sequestri di persona.
Signor Berlusconi, importanti quote di diverse delle
suddette ventitré Holding verranno da lei contestate
proprio alla Par.Ma.Fid. Per conto di chi la Par.Ma.Fid. ha
gestito questa grande fetta del Gruppo Fininvest e perché
lei decise di affidare proprio a questa società una parte
così notevole dei suoi beni?

7. Signor Berlusconi da dove sono venuti gli immensi


capitali che hanno dato inizio, all’età di ventisette anni, alla
sua scalata al mondo finanziario italiano?

Vede, Signor Berlusconi, tutti gli eventuali reati cui si


riferiscono le domande di cui sopra sono oramai prescritti.
Ma il problema è che i favori ricevuti dalla mafia non
cadono mai in prescrizione, i cittadini italiani, europei, i
primi ministri dei Paesi con cui lei vuole incontrarsi,
hanno il diritto di sapere se lei sia ricattabile o se sia una
persona libera1.
1. L’8 luglio del 1999, Carlo Cosmelli per la Fondazione
Critica Liberale pone sette domande a Silvio Berlusconi.
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%$1&$5$6,1,

La Banca Rasini: qual è la sua vera storia? Quando è che


diventa mafiosa, prima o dopo aver prestato denaro a
Silvio Berlusconi?
Quando si parla di Banca Rasini a proposito della
carriera di Berlusconi, la banca in cui aveva sempre
lavorato suo padre Luigi e che poi concesse a Silvio una
fideiussione, la questione è sempre la stessa: dal momento
che è sicuro che a un certo punto questa banca diventa una
banca della mafia, come testimonia anche Michele
Sindona nella sua celebre intervista, i soldi che il Cavaliere
ebbe in prestito e con cui cominciò la sua attività edilizia,
erano o non erano soldi della mafia? Per quello che è dato
capire, i prestiti a Berlusconi precedono l’arrivo dei
mafiosi nella piccola banca milanese che poi fu inglobata
nella Banca popolare di Lodi nel 1992.
Il padre di Silvio Berlusconi, Luigi, era un procuratore
con diritto di firma che aveva svolto l’intera carriera in
quell’ufficio e certamente fu grazie alla sua influenza e al
suo buon nome, almeno secondo la versione familiare che
però non risulta scalfita dalle date, che il giovane Silvio
ottiene un importante prestito, dopo aver già investito la
liquidazione paterna di trenta milioni. Oltre ai tre
Berlusconi, il padre e i due figli Silvio e Paolo, avevano il
loro conto nella Rasini anche le società svizzere che
partecipavano alla Edilnord, con cui Berlusconi cominciò
la sua carriera di uomo d’affari.
La sua vita, del resto, è scandita da tre tipi di affari:
l’edilizia (con alcune invenzioni urbanistiche e non da
palazzinaro romano), la pubblicità televisiva e per ultimo
la distribuzione di energia. Non si capirebbe altrimenti
l’intero percorso affaristico e poi politico di Berlusconi: un
uomo che prima ha avuto bisogno della politica di Craxi
per scardinare le leggi che esistevano sulle frequenze
televisive e che poi ha scelto di entrare in politica
personalmente per proteggere i propri affari e passare alla
terza fase, quella energetica, da posizioni che non possono
essere discusse né controllate da alcuno.
Se torniamo al primo, giovane Berlusconi ancora
costruttore e alle prime armi, ma estremamente ben
finanziato, scopriamo che la Banca Rasini, almeno stando
a una famosa e spietata inchiesta di «The Economist» del
21 luglio 2003, avrebbe costituito il terreno favorevole per
operazioni illecite: la piccola banca faceva parte di un
gruppo di dieci banche e istituti di credito che si
occuparono del finanziamento di centotredici miliardi di
lire ricevute dalla Fininvest di Silvio Berlusconi fra il 1978
e il 1983.
Tutto ciò fa parte di una zona grigia in cui accuse e
controaccuse, difese a oltranza e sprezzanti nuove accuse
si accavallano. Quel che appare certo è che Berlusconi
abbia registrato presso la famosa piccola banca ben
ventitré curiose holding, che erano per lo più negozi di
parrucchiere e saloni di bellezza.
Anche la banca, come gli affari di Berlusconi, subisce
varie trasformazioni. Nel 1970 Dario Azzaretto, il figlio di
Giuseppe, entra nell’istituto di credito come socio di
Rasini, mentre il padre di Silvio controfirma
un’operazione di acquisizione che porta la Rasini in
contatto con un gruppo di persone che diventeranno poi
famose: Licio Gelli, Michele Sindona, Roberto Calvi e
monsignor Paul Marcinkus dello IOR vaticano, lo stesso che
secondo il presidente emerito Francesco Cossiga
sovrintendeva al cambio dei fondi in dollari ricevuti dal
Partito comunista a Mosca, in genere dalle mani del signor
Ponomariov. Due di questi personaggi, Calvi e Sindona,
faranno una brutta fine: il primo impiccato sotto il ponte
dei Frati Neri a Londra e il secondo nella sua cella con la
classica tazza di caffè avvelenato. Tre anni dopo la banca
diventò una spa e Rasini la lasciò al controllo degli
Azzaretto, per poi abbandonarla del tutto nel 1974, mentre
l’istituto di credito realizzava profitti grandiosi.
La faccenda diventa più complicata, per non dire
esplosiva, quando altra bella gente comincia a ruotare
intorno alla “banchetta”, di cui papà Luigi ai bei tempi
d’oro e soltanto milanesi aveva fatto il procuratore. Accade
il 14 febbraio, giorno di San Valentino del 1983. La polizia
fa una retata di mafiosi stanziati a Milano e arresta diversi
ricchi correntisti della ex Rasini: Luigi Monti, Antonio
Virgilio e Robertino Enea. Nella stessa occasione si scopre
che nel piccolo ma facoltoso istituto di credito hanno i
loro depositi gentiluomini come Totò Riina e Bernardo
Provenzano. Ne segue un caso giudiziario clamoroso e la
Banca Rasini appare nel processo che portò alla condanna
di alcuni dirigenti bancari, come il luogo in cui la mafia
siciliana stiva e ricicla i suoi tesori, confermando così quel
che aveva detto Sindona prima che un caffè corretto lo
facesse fuori. Riferiscono Travaglio e Gomez nel loro
Berlusconi del 2003, che il 30 maggio 1983 la guardia di
finanza di Milano redige un rapporto investigativo del
seguente tenore:

È stato segnalato che il noto Silvio Berlusconi


finanzierebbe un intenso traffico di stupefacenti dalla
Sicilia, sia in Francia che in altre regioni italiane
(Lombardia e Lazio). Il predetto sarebbe al centro di
grosse speculazioni in Costa Smeralda avvalendosi di
società di comodo aventi sede a Vaduz e comunque
all’estero. Operativamente le società in questione
avrebbero conferito ampio mandato ai professionisti della
zona1.

L’inchiesta è archiviata nel 1991 dal gip di Milano Anna


Cappelli.

Abbiamo accennato a un’importante intervista di


Sindona sulla Banca Rasini. Si tratta di quel che il famoso
bancarottiere disse al giornalista americano Nick Tosches
che passò con lui due mesi visitandolo nel carcere di
Voghera fra l’agosto e il settembre del 1985. Tosches
pubblicò poi un libro, Il mistero Sindona, in cui si legge:
«Come sai le mie banche italiane erano istituti di
prim’ordine con soci di prim’ordine. La Banca Privata
Italiana era una banca dell’aristocrazia. La mafia invece si
serve sempre di istituti e professionisti di second’ordine».
Sindona socchiuse gli occhi con espressione scaltra.
«Quali sono le banche usate dalla mafia?»
Sindona prese tempo. «È una domanda pericolosa»,
rifletté.
«In Sicilia il Banco di Sicilia, a volte. A Milano una
piccola banca in piazza dei Mercanti2».

Non ci sono allora altre banche fuorché la Rasini in


quella piazza.

Secondo Ruggeri e Guarino alla fine del 1992 sono


centosessantotto le società nell’impero Fininvest, di cui
quarantaquattro con sede all’estero. Nell’elenco da loro
organizzato, queste società sono

distinte secondo tre diversi criteri di assunzione a


bilancio: consolidate con il metodo dell’integrazione
globale (97), valutate con il metodo del patrimonio netto
(40), valutate con il metodo del costo (31).

Ruggeri e Guarino sottolineano come


nell’organigramma del Gruppo Fininvest non compaiano
le misteriose società denominate Holding Italiana Prima,
Holding Italiana Seconda e via enumerando, che
detengono l’intero capitale del gruppo...

Sebbene ne siano la vera cassaforte. La segretezza che


avvolge le enigmatiche holding è tale da rendere
misterioso persino il loro numero3.

Secondo i due autori queste società sono trentotto.

Berlusconi si laurea in legge nel 1961 con la lode, con


una tesi sulla pubblicità, abbastanza originale da valergli
una borsa di studio dalla società pubblicitaria Manzoni,
che fu anche la prima distributrice di pubblicità del
quotidiano «la Repubblica» quando nacque nel 1976. Si
tratta di due milioni di lire che oggi equivarrebbero a circa
diecimila euro. La tesi analizza gli aspetti giuridici del
contratto pubblicitario e il giovane Berlusconi dimostra di
avere idee chiare e nozioni appropriate. Ha poi un periodo
di malumore, di frustrazione e di ansia: vuole realizzare
subito i suoi piani, ha le idee molto chiare e fra tutte una
più chiara delle altre: non vuole dipendere da nessuno,
non vuole soci stabili, non vuole riconoscere nessuno
come suo superiore e comincia a esercitare una forte
pressione sul padre affinché gli trovi un finanziamento e
investa su di lui la sua stessa liquidazione. Per la famiglia
Berlusconi, racconterà la madre Rosa, è un momento
drammatico: gli danno i soldi della liquidazione ma
ricordandogli che ha dei fratelli e che quei soldi
appartengono anche a loro. Il padre allora lo porta nella
sua piccola banca, ancora non contaminata da Cosa nostra
per quel che si riesce a ricostruire, e ottiene un
finanziamento per permettergli di costruire sul primo
terreno comprato con i soldi del padre. Ma Rasini non si
fida di questo giovanotto un po’ arrogante, che si
comporta come se dovesse insegnare agli altri come si sta
al mondo e così gli procura un socio, un po’ maestro e un
po’ cane da guardia, il costruttore Pietro Canali. Da questo
embrione casalingo e casereccio nasce una piccola società
con un nome altisonante: Cantieri Riuniti Milanesi.

Silvio, a casa, protesta che non vuole soci, che vuole fare
tutto da solo, che ha già imparato a costruire, che adesso
lui vuole fare di più che tirare su una casa o due. Vuole
fare una città. O almeno un quartiere satellite: un
esperimento urbanistico per quattromila persone. Ma non
riesce ancora a essere solo e unico. Gli stanno accanto
Rasini, Canali, il commercialista Piccitto e i costruttori
Botta, due fratelli, Enrico e Giovanni. Quest’ultimo,
sopravvissuto a Enrico, ha raccontato quell’avventura in
questi termini:

Per costruire Brugherio avevamo costituito una società,


la Edilnord. Berlusconi ne era l’amministratore, io e mio
fratello, come altri soci, mettevamo l’opera, tiravamo su le
case. C’erano un po’ di finanziamenti della Banca Rasini, e
per il resto non so. Dei soldi è meglio non parlare: non sta
bene curiosare su chi c’è dietro le società. Berlusconi era
giovanissimo, ma pareva nato nell’edilizia e si capiva che
avrebbe fatto tanta strada. Si incaricava dei permessi,
appaltava i lavori, chiamava i progettisti e diceva: «Questa
casa la voglio così», e così doveva essere. Uno con le idee
chiare, sempre in movimento, bravissimo nel trattare con
tutti: autorità, operai, clienti. Se ha guadagnato con
Brugherio? Non fatemi queste domande. Non posso
rispondere. Chiedetelo a lui e vedrete come si arrabbia.
Oh, lo conosco bene, Silvio. Ho lavorato con lui un paio
d’anni finché abbiamo finito Brugherio, e ho continuato a
vederlo anche dopo. Qui a Milano avevo l’ufficio in via
Leopardi, a due passi da lui, e ogni tanto andavo a
trovarlo. Fino ad alcuni anni fa ci facevamo spesso quattro
chiacchiere... Sono convinto che prima o poi arriverà al
Quirinale... Sicuro, quello diventerà presidente della
Repubblica4».

Notano Ruggeri e Guarino:


La Banca Rasini, Canali, i fratelli Botta, danno un certo
apporto all’enorme progetto berlusconiano per Brugherio;
ma l’appoggio determinante, il contributo realmente
portante, è di una misteriosa finanziaria svizzera. Infatti,
viene costituita la Edilnord sas di Silvio Berlusconi e C. La
società in accomandita semplice prevede soci che
conferiscono capitali, e soci d’opera: Berlusconi è “socio
d’opera”, cioè si limita ad apportare alla società il proprio
impegno (per le sue prestazioni viene compensato con
l’un per cento degli utili) mentre il socio “accomandante’’,
chi cioè fornisce i capitali finanziando l’attività, è la
Finanzierungsgesellschaft fur Residenzen Ag domiciliata a
Lugano e legalmente rappresentata dall’avvocato svizzero
Renzo Rezzonico5.

Gli inizi sono duri ed eroici e Berlusconi nei suoi


racconti fa in modo che tutta la sua carriera, a partire dalla
tesi di laurea, non sia altro che un susseguirsi di colpi di
bravura e qualche colpo di fortuna, alacrità e inventiva,
novità e idee sempre molto personali. Il fatto è che,
quando finalmente riesce a realizzare il primo
condominio nel 1965, non si batte un chiodo. Nessun
cliente viene a vedere la prima casa fatta dal dottore in
legge Silvio Berlusconi, che però tanto fa e tanto briga da
portare a termine il primo affare miracoloso della sua
miracolosa carriera: vende a un fondo di previdenza,
quello dei dirigenti commerciali. L’anno successivo, il
1968, nuovo colpaccio: Berlusconi acquista dal conte Bonzi
per tre miliardi un’area di settecentododicimila metri
quadrati nel comune di Segrate, la cui edificabilità è già
stata garantita al conte dall’amministrazione comunale di
Segrate, in cambio dell’impegno a costruire anche le reti
fognarie.
Gli affari procedono bene e nasce la Edilnord Centri
Residenziali, con capitale di società svizzere dal nome
tedesco di cui nessuno sa niente. Le società assumono
nomi tedeschi, italiani, prosperano, figliano, emigrano.
L’edificazione di Brugherio è andata nel frattempo a
gonfie vele e nel 1969, mentre scoppia l’autunno caldo, le
contestazioni giovanili e operaie in un clima di tensione
che ha il suo momento più tragico nella bomba che
esplode a piazza Fontana il 12 dicembre di quell’anno, i
mille appartamenti edificati sulle terre che furono del
conte Bonzi, sono finalmente venduti.
L’intraprendente Silvio mobilita amici e parenti per la
miriade di società che maneggia. Il 22 maggio 1974 il
capitale della società viene portato a seicento milioni di
lire e un anno dopo a due miliardi «interamente
sottoscritti dal socio svizzero» e il 6 dicembre 1977 diventa
accomandatario il commercialista Umberto Previti che,
ricordano Giovanni Ruggeri e Mario Guarino, «in pochi
giorni liquiderà la società». Ma nel frattempo Berlusconi
fonda la Italcantieri con capitale svizzero.
Nasce nel 1974 anche l’immobiliare San Martino,
amministrata da Marcello Dell’Utri, finché nel 1975 le sue
due fiduciarie, la Società Azionaria Finanziaria e la
Servizio Italia, danno vita alla Fininvest, controllata da ben
trentaquattro holding.

Secondo il dirigente della Banca d’Italia Francesco


Giuffrida e il sottufficiale della guardia di finanza
Giuseppe Ciuro, consulenti tecnici della Procura di
Palermo al processo contro Marcello Dell’Utri per
concorso esterno in associazione mafiosa, queste
finanziarie hanno ricevuto fra il 1978 e il 1985 almeno
centotredici miliardi (pari a cinquecentodue miliardi di
lire e duecentocinquanta milioni di euro di oggi), in parte
addirittura in contanti e in assegni “mascherati”, dei quali
tutt’oggi «si ignora la provenienza». La Procura di Palermo
sostiene che sono i capitali mafiosi “investiti” nel Biscione
dalle cosche legate al boss Stefano Bontate. La difesa
afferma che si tratta di autofinanziamenti, anche se non
spiega da dove provenga tutta quella liquidità. Lo stesso
consulente tecnico di Berlusconi, il professor Paolo
Jovenitti, ammette l’«anomalia» e l’incomprensibilità di
alcune operazioni dell’epoca6.

La giornalista Natalia Aspesi scrive sugli opuscoli


pubblicitari della Edilnord:

Lo spazio, la grande aria tra le case che sembrano


piccole tanto sono lontane l’una dall’altra, la vastità dei
campi dove giocano i bambini, l’orizzonte aperto, con i
bordi rosa della lontananza.

1. Marco Travaglio, Peter Gomez, Berlusconi, cit.


2. Nick Tosches, Il mistero Sindona, Alet edizioni, Padova
2009, p. 111.
3. Giovanni Ruggeri, Mario Guarino, Berlusconi. Inchiesta
sul signor Tv, Edizioni Kaos, Milano 1994.
4. Giovanni Ruggeri, Mario Guarino, Berlusconi, cit., p.
39.
5. Ibidem.
6. Marco Travaglio, Peter Gomez, Berlusconi, cit.
3$ ' 5 2 1 (  ' (  l , /  * , 2 5 1 $ / ( {   0 $  1 2 1
' ,  0 2 1 7$ 1 ( / / ,

Nel 1977, appena divenuto cavaliere del lavoro,


Berlusconi acquista una quota dell’editrice de «il
Giornale», fondato nel 1974 da Indro Montanelli.
Mi raccontò Berlusconi:

È stata una lotta, anche l’avventura de «il Giornale» che


stava per chiudere e che ho salvato dalla morte. C’erano gli
scioperi, la tipografia di piazza Cavour era a pezzi, «il
Giornale» perdeva un mare di soldi, si era vicinissimi alla
chiusura. Io sono entrato, ho pagato le perdite de «il
Giornale», guadagnavo otto miliardi allora e quattro li
versavo alla testata perché ritenevo che fosse una voce
indipendente e vedevo in Montanelli un campione di
libertà. Ho garantito questo a Montanelli ma lui un giorno,
piangendo, mi disse che non ce la faceva più perché non
poteva più sapere se un giorno, scrivendo un articolo,
sarebbe uscito o meno e che questo lo disincentivava, che
tutti erano disincentivati. Mi vennero a trovare un giorno
dicendomi: «Guarda che noi chiudiamo, Indro e Bettiza
sono disincentivati se non riusciamo ad avere una nuova
tipografia abbiamo preso questa decisione».
Io allora feci una ricerca a Milano se c’erano delle forze
in quel settore, trovai un giovane tipografo che aveva un
piccolo stabilimento da tipografo e chiesi a lui se mi
voleva aiutare nel fare uno studio. Facemmo uno studio, ci
informammo sui tempi di consegna delle macchine e
dopo aver fatto questo andai da Montanelli e gli dissi:
«Indro, la tipografia te la faccio io, tra tre mesi tu
stamperai “il Giornale” in una tua tipografia». Montanelli
non mi prese sul serio per quella sua personalità un po’
cattiva che ha e che tende a sottovalutare tutti coloro che
gli gravitano intorno, con quella volontà che è di
Montanelli, o di Cossiga, di essere sempre al centro di
tutto, di quelle cose che possono in qualche modo scalfire
la loro luce e la loro centralità in cui vedono subito una
contrarietà o un nemico; mi disse: «Non ci credo ma se
vuoi fallo». Io ero già a «il Giornale». Ero entrato con un
dodici per cento e partecipavo con quattro miliardi
all’anno a ripianarne le perdite. C’era Ferrauto che andava
in giro a prendere i soldi un po’ da tutti e io ero quello che
dava di più senza chiedere mai nulla, non ho mai chiesto
nulla. Era il periodo in cui il Partito comunista
oltrepassava il trenta per cento e quindi, visto quello che
pensavo del comunismo, consideravo che fosse
assolutamente necessario salvare Montanelli e «il
Giornale». All’interno de «il Giornale» avevo rapporti con
un grande amico, Zappulli, che era un napoletano
simpaticissimo, che fu eletto anche Senatore... e ci fu la
notte della stampa in cui, ancora incredulo Montanelli, lo
accompagnai e gli consegnai una copia de «il Giornale»
all’uscita della tipografia. Fu una grande vittoria perché,
insomma, fu un record, e poi nessuno ci credeva: adesso
sembra una cosa facile ma nessuno stabilimento di
tipografia avrebbe potuto fare una cosa del genere. Non
era stato affatto semplice: macchine, assunzioni, abbiamo
fatto una società esterna che però stampava per «il
Giornale» a condizioni molto più favorevoli di quelle
precedenti. Una società esterna tra me e Umberto Seregni,
abbiamo fatto una società in cui adesso non ricordo se
sono entrato io oppure ho fatto entrare «il Giornale»,
sempre con il totale disinteresse mio, sempre mirando
soltanto a fare il bene de «il Giornale», a consentirgli di
vivere con meno problemi possibili. Fedele [Confalonieri,
nda] sa tutto perché ha seguito lui anche questa cosa, e alla
fine quando è venuta fuori la tipografia ci siamo staccati
da piazza Cavour e abbiamo preso tutta gente dalla nostra
parte politica, anche gli stampatori che non hanno mai più
fatto uno sciopero. Erano tutti ragazzi giovani, qualcuno
era venuto dal «Corriere della Sera» e qualcuno da
quell’altra impresa che era dei nostri, io ho fatto tanti
colloqui, e in tre mesi, allora era un miracolo, abbiamo
preso locali, macchina e abbiamo sistemato «il Giornale».
Se credi che io abbia avuto un qualche gesto di gratitudine
da parte di Indro, ti sbagli: lui è incapace di qualsiasi
gratitudine.
Questa è stata la storia de «il Giornale» che ho sempre
difeso dagli attacchi, subendo e facendo da scudo a tutto
ciò che «il Giornale» scriveva. Montanelli ha sempre avuto
quel Contro Corrente; una mattina vengo chiamato a Roma
dal segretario della Democrazia cristiana Flaminio Piccoli
che mi doveva chiedere delle cortesie, che gli feci, su delle
società cooperative del Trentino, che navigavano in acque
molto cattive e che erano cooperative democristiane.
C’erano state delle malversazioni, delle cattive
amministrazioni e rischiavano di andare in fallimento, ma
questo io non lo sapevo. Lui mi chiamò, andai a Roma, io
partii alle sei del mattino da casa per essere puntuale, mi
fecero salire e uno mi introdusse. Salii di sopra, non c’era
nessuno in ufficio, mi fecero fare anticamera, ogni tanto
passava qualcuno e io domandavo: «Ma il segretario
arriva?» «Sì, sì», rispondevano, «arriva». Finalmente alle
undici qualcuno si accorse di me chiedendomi se
potevano portarmi un caffè e il giornale, chiesi «il
Giornale» che non avevo avuto tempo di comprare, lessi la
prima pagina e l’occhio mi cadde sul Contro Corrente che
recitava una cosa che adesso non ricordo più e poi: «Fu a
questo punto che Piccoli perse la testa, diavolo di un
uomo, riesce a perdere anche quello che non ha mai
avuto!» Finisco di leggere, si apre la porta, arriva Piccoli
con il suo cipiglio severo da trentino duro, mi dice:
«Signor editore de “il Giornale”, venga, si accomodi».
Io entrai e i primi minuti furono un’arringa contro «il
Giornale» che non sosteneva la Democrazia cristiana,
insomma di qui e di là ma subito dopo mi si chiedeva una
cortesia e nacque una solida amicizia tra me e Piccoli che è
durata sempre e che lui mi ha manifestato con delle lettere
molto belle, con tanta gratitudine dopo il ’94 da quando
sono sceso in campo. Lui poi fu prima presidente del CDU,

poi fondò la nuova Democrazia cristiana e devo dire che


in tutte le sue dichiarazioni, in tutte le apparizioni che ha
fatto, in tutti gli interventi, venendo spesso a trovarmi, mi
disse sempre: «Sei l’uomo della provvidenza, solo per te
abbiamo mantenuto la libertà in Italia, se si fosse verificata
un’ascesa senza l’opposizione».

Fedele Confalonieri, l’amico che è quasi un fratello


ricorda così l’ascesa di Silvio su «La Stampa» del 2
novembre 2009:

CLAUDIO SABELLI FIORETTI: Perché i magistrati ce l’hanno con


lui?

FEDELE CONFALONIERI: Viene vissuto come un parvenu,


come un intruso.

E invece?

Invece è un genio. Un giorno mi disse: «Costruisco una


città di diecimila abitanti». Pensai: «Quest chi l’è mat». E
invece no. Era un innovatore, aveva capito che non doveva
fare case. Doveva fare quartieri.

All’inizio non vi prendevano sul serio.

Ricordo di aver aspettato più di un’ora con lui


nell’anticamera di Gianstefano Frigerio, allora segretario
regionale della DC. L’establishment diceva: «Ma chi è
questo ragazzino che fa le cose che non riescono a noi?»
Quelli come Berlusconi entrano e sconvolgono.

Il papà era direttore della Banca Rasini.

Quando leggo quelle sciocchezze... la Banca Rasini... la


mafia...

Lo disse Sindona che era della mafia.

Ma dopo. Non quando c’era il papà di Silvio. Poi non so


in che mani sia finita...

Gli inizi di Berlusconi comunque.

Berlusconi si finanziò con trenta milioni della


liquidazione del papà... non certo con i soldi della mafia...

Alla base di ogni grande fortuna c’è sempre un crimine.

Era Balzac.

Sbagliava?

Sbagliava. Berlusconi non ha rubato niente a nessuno.


Faceva i prodotti migliori. Quando faceva le case curava i
fili d’erba. Se sei intelligente e geniale, e in più curi il
dettaglio e sei un secchione, il successo arriva.

Troppo veloce per non destare sospetti.

Pelè divenne campione del mondo a diciassette anni.


Chi dice che la televisione è nata con i soldi della mafia
dimentica che Milano 2 rese trentasei miliardi di lire. Non
c’era bisogno dei soldi della mafia.

Ed ecco come lo stesso Silvio Berlusconi raccontò a me


quello che lui considera il suo periodo eroico come
costruttore.
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Devi conoscere ciò che vendi e devi soprattutto far


capire i vantaggi che può dare a chi lo acquista. Questo
valeva soprattutto quando si dovevano vendere le case: io
non dicevo che bella casa, ma illustravo come sarebbe
cambiata la vita di chi ci fosse andato ad abitare. Dicevo:
«Lei batte le mani e si accendono le luci», e alla mamma
illustravo come cambiava la vita con gli infrarossi
dicendole che da marzo fino a novembre poteva mangiare
fuori con tutte le fioriere intorno.
Al padre facevo apprezzare lo spazio dei terrazzi che
erano un’innovazione perché a Milano fa freddo, ma le
case che ho fatto io a Brugherio hanno grandissimi
terrazzi e posto per giocare a ping-pong: si tiravano giù
certe tendine e la palla non volava fuori. Alla ragazzina
dicevo: «Quando vai al mare conquisti tutti i ragazzi
perché a giugno sei già abbronzata».
Il portiere era in divisa il che, allora, era una rarità;
all’ingresso c’era un salotto di attesa dove il portiere faceva
accomodare le persone e dava l’idea di un livello di
comfort che per la media borghesia era un salto di qualità
senza nessuna spesa in più: si trattava solo di introdurre
una certa metodologia. Poi ho fatto le case con il tennis,
con la piscina, con la sauna, cose sempre all’avanguardia
con le prime tapparelle elettriche in dotazione: «Vede
signora, lei qui dal letto senza alzarsi può chiudere la
tapparella». Ho sempre fatto delle case che vendevo molto
prima degli altri e a un prezzo molto superiore: ho fatto le
case del centro Edilnord per quattro mila persone e da lì è
cominciata la mia grande avventura imprenditoriale.
Di cose da raccontare ce ne sono tantissime, anche su
Milano 3, che non era un terreno, era quasi una palude e
adesso se si va a vedere sembra il paradiso terrestre, con
degli alberi straordinari, dei giardini fantastici, delle case
basse, basta fermare qualunque bambino e domandargli:
«Come stai qui?» Ti fanno commuovere. Mi ricordo la
prima visita che abbiamo fatto, c’era un corso d’acqua in
mezzo, un torrentaccio e praticamente quando fummo lì
ci fu una fuga di pantegane grosse così e francamente la
cosa ci demoralizzò molto. «Ma guarda dove veniamo a
lavorare», dicemmo con i miei architetti, ricordo che
eravamo su un camioncino scoperto per cui da lì sopra
riuscivamo a vedere meglio, era un fuoristrada perché si
trattava di un terreno molto poco campagnolo, con molti
spazi non coltivati, con delle zone di acquitrino, c’era
quindi un lavoro di bonifica da fare veramente
demotivante e demoralizzante. Eppure era l’unica area
intorno a Milano, nella zona sud, perciò molto meno
interessante di Milano 2, nella zona nord e anche di
Brugherio ma un’area che era l’unica sulla quale si poteva
pensare di fare una lottizzazione di quel genere, che aveva
una previsione del piano regolatore regionale destinata
all’edilizia. Comprammo quell’area, cominciammo una
guerra con il Comune di Basiglio, dove peraltro
incontrammo un’amministrazione onesta e anzi la scelta
fu determinata da quello, perché c’era un’amministrazione
con una lista civica. Incontrammo persone veramente di
grande trasparenza e qualità morale e con loro, nonostante
le diffidenze che avevano in quanto Comune con seicento
o settecento abitanti, c’era solo una strada centrale fatta di
case, come quelle stradine del Far West, in cui c’è la main
street, la chiesa, il Comune e poi basta e delle cascine in
giro. C’era quindi molto timore che un insediamento così
importante snaturasse la vita del Comune e potesse
portare dei disguidi, mentre noi sottolineavamo che
portava tutta una serie di vantaggi in più, che portava la
chiesa, l’asilo, la scuola elementare e media, i campi
sportivi, un nuovo cimitero, la stazione dei carabinieri,
l’acquedotto e tutto questo alla fine li convinse a unirsi a
noi. Poi finimmo per fare amicizia con tutti questi
dell’amministrazione, fu molto bravo Fedele che fu il vero
animatore dei nostri incontri con le giunte e con il
consiglio, si parlò quasi sempre in milanese e fu una cosa
molto leghista. Le riunioni di giunta venivano seguite
quasi sempre da delle cene in una trattoria in cui il sindaco
e Fedele si alternavano al pianoforte con dei cori.
C’erano delle contrapposizioni forti sul progetto, ma
nella nostra offerta di cose da fare, al di là delle case, noi
volevamo trasformare Basiglio in un villaggio
caratteristico, per cui volevamo intervenire a sanare le
brutte costruzioni che c’erano nel tessuto urbano del
paese, valorizzando quelle migliori vicino alla chiesa e
avevamo tutto un progetto in cui proponevamo per un
certo tratto di quella strada, di anteporre un portico e poi
collegare tutte le case con un portico. Ci sarebbe quindi
stata la strada, ma veniva poi tutto il porticato sul quale si
susseguivano le entrate delle case ma anche dei negozi,
uno slargo su un giardino, il rifacimento del cimitero,
praticamente l’inserimento della nuova comunità portava
a una soluzione di problemi antichi irrisolvibili del
Comune di Basiglio, che venivano affrontati con una
tecnica più moderna di progettazione nuova e risolti con
un innalzamento della qualità urbana, e quindi anche della
qualità della vita per tutti gli abitanti.
Queste cose furono in parte attuate e in parte no: il
cimitero fu fatto, la stazione dei carabinieri fu fatta, gli
impianti sportivi anche.
Variammo il progetto e di nuovo, puntualmente,
scomparve il mercato edilizio a Milano, per cui anziché
rivolgerci al mercato che era quello che intendevamo
perseguire, dell’acquirente privato, di nuovo dovemmo
rivolgerci al mercato degli enti. Allora, con un
cambiamento della progettazione, introducemmo una
tecnica di progettazione nuova, che basandosi su tecniche
esistenti, le perfezionava, le facevamo nostre con degli
appartamenti che derivavano dalla collaudatissima e felice
esperienza di Milano 2, che allargavano certe presenze di
terrazzi pluriuso e che ci consentivano di introdurre alcuni
elementi prefabbricati come i bagni, che consegnavamo a
ditte esterne e che ci venivano consegnati pronti per l’uso
e che venivano inseriti nella casa. Con risultati molto belli
ma senza che ci si potesse accorgere che erano fabbricati
sempre con gli elementi, molto facili nella manutenzione
perché erano tutti pannelli ispezionabili per cui non c’era
la possibilità, come avviene quando fai una casa con un
bagno, di dover spaccare il muro se si rompe un tubo o
l’acqua. Quindi un gran salto in avanti nella tecnica
costruttiva e con la possibilità di arrivare a costruire case
finite in un intero condominio, in un tempo record di
sette mesi.
Demmo il via a questa soluzione di Milano 3 e gli
acquirenti furono diversi enti e Milano 3 è venuto fuori
come un quartiere pluriclasse perché ci sono le ville
acquistate anche da nomi famosi del mondo
dell’imprenditoria e dello spettacolo, ci abitano Boldi e
Greggio, ci vivono giocatori delle squadre milanesi, ci
abitano degli imprenditori, ci sono ville con giardino,
piscina eccetera, case di proprietà e case in affitto.
Quindi c’è un vero e proprio quartiere di classe che è
assolutamente autonomo per quanto riguarda tutti i
servizi, c’è un residence molto bello nella piazza centrale,
c’è uno Sporting completo di tutto, c’è uno straordinario
campo da golf: è una cosa che riempie di orgoglio. Da qui
abbiamo avuto dei guai pazzeschi da parte della
magistratura alla milanese. Nel campo sportivo ci hanno
fatto sequestri, hanno fatto impazzire mio fratello,
abbiamo avuto dalla solita sinistra delle cause in cui ci si
accusava di avere cambiato il sistema delle acque che per
forza fu cambiato ma che ebbe il vantaggio di trasformare
una zona che era in una situazione incredibile prima in
una zona meravigliosa.
Ci accusarono di avere annientato anche le zanzare e ci
fu una guerra proprio su questo fatto, ci venne impedita la
disinfestazione, per cui certi anni gli abitanti di lì
dovettero mettere le zanzariere fuori perché, essendo
stato proibito qualunque intervento sulle zanzare, che
come si sa vivono pochi giorni ma, essendo in una zona
del sud in cui ci sono coltivazioni di riso, praticamente
ogni tre settimane si sarebbe dovuto fare un intervento di
disinfestazione che ci venne proibito. Veramente è sempre
stata una guerra contro tutti, l’ho sempre pensato ma ci
sarà un giorno in cui io potrò finalmente dire che non ho
costruito sulla sabbia ma ho costruito sul granito!
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La presenza e la storia del mafioso Vittorio Mangano, il


mafioso che va a fare lo stalliere ad Arcore, è uno degli
elementi più straordinari della vita di Berlusconi.
Palermitano, nato nel 1940, emergente della famiglia di
Pippo Calò e Tommaso Buscetta, Mangano diventa
prestissimo l’agente di collegamento fra Cosa nostra e la
Lombardia. Conosce Marcello Dell’Utri e descrive così ai
giudici di Palermo il 4 aprile 1995 i suoi rapporti con
l’amico e vecchio compagno di università di Berlusconi:

Io e Marcello ci siamo conosciuti fra la fine degli anni


Sessanta e l’inizio dei Settanta, quando lui gestiva la
squadra di calcio della Bacigalupo all’Arenella a Palermo.
Dal nostro incontro casuale nacque un rapporto di
conoscenza. Dell’Utri venne così a sapere che ero esperto
di bestiame e di cavalli. Tre o quattro anni dopo mi
telefonò per propormi un lavoro nella villa di Berlusconi.
Avrei dovuto dirigere l’azienda agricola e la società ippica
di cui Berlusconi era titolare. Ma mi occupavo un po’ di
tutto: dalla compravendita alla doma, all’addestramento
dei cavalli, fino a quando non iniziavano a gareggiare. Con
l’aiuto di alcuni artieri ho così allenato decine di puledri
per volta [...]. Vedevo Berlusconi ogni giorno e avevo con
lui gli ordinari rapporti tra titolare e impiegato. Ero
totalmente libero nel mio lavoro perché sia Berlusconi che
Dell’Utri non s’intendevano di cavalli. Dell’Utri, che
abitava nella villa di Berlusconi, mi veniva a trovare spesso
nelle scuderie e a poco a poco gli ho insegnato a montare.

Mangano ad Arcore diventa un uomo di fiducia, ma in


un clima impaurito: molti milanesi abbienti temono i
sequestri di persona e lo “stalliere” si occupa di
accompagnare a scuola Marina e Pier Silvio. Quando lo
stesso Berlusconi sarà interrogato nel 1987 dal giudice
Giorgio Della Lucia che indaga sulla società di costruzioni
di Marcello Dell’Utri, dirà:

Ad Arcore avevo bisogno di un fattore, di uno che si


occupasse dei terreni, dei cavalli, degli animali [...]. Chiesi
a Dell’Utri, che mi presentò Vittorio Mangano come
persona conosciuta da un suo amico: assumerlo fu una
mia scelta, su una rosa di nomi che mi vennero
prospettati. Non feci indagini preventive perché Mangano
mi diede l’idea di una persona a posto e competente. [...]
Avevo in animo di impostare un’attività di allevamento di
cavalli che poi non fu realizzata.

E Dell’Utri spiegherà nel 1996 ai PM di Palermo che i


cavalli di Arcore in realtà erano uno solo:

Quando Berlusconi acquistò villa Casati c’era una


bellissima scuderia con un solo cavallo. Berlusconi decise
di farla rivivere acquistando numerosi animali. Questa
scuderia ben attrezzata esiste ancora.

Dell’Utri dirà di non avere saputo dei precedenti di


Mangano e che fosse un famoso mafioso, ma secondo un
rapporto dell’Arma le cose non stanno così:

Dell’Utri [...] ha lasciato un impiego in banca (lavorava


alla Cassa di Risparmio di Belmonte Mezzagno) per
seguire Berlusconi e una volta qui ha chiamato Mangano,
pur essendo perfettamente a conoscenza – è risultato dalle
informazioni giunte dal Nucleo investigativo del gruppo
di Palermo – del suo poco corretto passato.

Dell’Utri, a sua volta, si difenderà dicendo di avere


conosciuto Mangano sul terreno della sua squadra di
calcio, perché era amico di un suo amico, certo Gaetano
Cinà:

Era il padre di uno dei tanti ragazzi che imparavano il


calcio nella scuola in cui ero istruttore. Mangano assisteva
alle partite. Veniva da noi talvolta da solo e talvolta con
Cinà del quale era amico.
E al «Corriere della Sera», il 21 marzo 1994:

Mangano l’ho conosciuto nella Palermo anni Sessanta:


ero allenatore della Bacigalupo, squadra di calcio
giovanile. Mangano era una specie di tifoso. Commerciava
in cavalli. Me ne ricordai nel 1975. Berlusconi mi aveva
incaricato di cercare una persona esperta di conduzione
agricola. Così chiamai Mangano.

Mangano diventa fattore, autista, factotum, sorvegliante,


uomo di fiducia di Berlusconi ad Arcore. Molti sospettano
che il suo vero ruolo sia quello di supervisore della mafia
inserito nella casa di Berlusconi. Elio Veltri e Marco
Travaglio scrivono in L’odore dei soldi1:

Dal 1974 al 1978 Di Carlo – capo della potente famiglia di


Altofonte, poi espulso da Cosa nostra con l’accusa di aver
imbrogliato gli amici fingendo il sequestro di una partita
di droga e riparato a Londra – racconta di aver conosciuto
Dell’Utri perché «Cinà me lo presentò in un bar di via
Libertà a Palermo, a metà degli anni Settanta. Qualche
mese dopo rividi Dell’Utri a Milano [...] in un ufficio di via
Larga di proprietà di alcuni nostri amici. Lì incontrai Cinà,
Mimmo Teresi e Stefano Bontate. Quel giorno erano
particolarmente eleganti. Io domandai il perché e loro mi
risposero che dovevano andare da un grosso industriale
milanese amico di Cinà e Dell’Utri, e mi proposero di
seguirli».
Il quartetto si reca così nella sede dell’Edilnord dove –
secondo Di Carlo – incontra Berlusconi e Dell’Utri.
Parla Bontate: «Dottore, lei da questo momento può
smettere di preoccuparsi. Garantisco io... Perché, piuttosto,
non pensa a investire nella nostra bellissima isola? Da noi
c’è tanto da costruire».
E Berlusconi (secondo Di Carlo): «Vorrei, vorrei... Ma sa,
già qui al Nord ci sono tanti siciliani che non mi lasciano
tranquillo...»
«La capisco», replica Bontate, «ma adesso è tutto diverso.
Lei ha già al suo fianco Dell’Utri, io le manderò qualcuno
che le eviterà qualsiasi problema con quei siciliani».
Berlusconi: «Non so come sdebitarmi, resto a sua
disposizione per qualsiasi cosa».
E Bontate: «Anche noi siamo a sua disposizione. Se c’è
un problema basta che ne parli con Dell’Utri2».

La madre di Berlusconi racconta che Silvio temeva che


la malavita potesse rapire i suoi figli e che per questo
trasferì la moglie Carla e i due bambini in Svizzera e poi in
Spagna. La madre dirà che fu anche a causa di questo
distacco fisico, prolungato nel tempo, che il matrimonio
con la prima moglie finì male.
In una intervista al «Corriere della Sera» del 1994, quindi
dopo la “discesa in campo”, Berlusconi afferma: «Rapporti
con la mafia ne ho avuti soltanto vent’anni fa quando
tentarono di rapire mio figlio Pier Silvio che aveva allora
cinque anni: portai la mia famiglia in Spagna e lì vissero
molti mesi». Di Mangano in quell’occasione racconta: «È lo
stesso uomo che licenziammo non appena scoprimmo che
si stava adoperando per organizzare il rapimento di un
mio ospite, il principe di Santagata. E fu poco dopo che
venne scoperto anche il tentativo di rapire mio figlio».
Quando nel 1986 una bomba esplode a via Rovani sede
della Fininvest provocando gravi danni, Berlusconi dice a
Dell’Utri per telefono di essere sicuro che si tratti di un
messaggio di Mangano, il quale peraltro è in galera. Paolo
Borsellino, in una intervista poco prima di essere ucciso,
afferma che Vittorio Mangano è «uno di quei personaggi
che erano i ponti dell’organizzazione mafiosa nel Nord
Italia».
Nel 2000 Mangano viene condannato all’ergastolo per il
duplice omicidio di Giuseppe Pecoraro e Giovambattista
Romano nel gennaio del 1995. Al momento della
condanna, è già in carcere da cinque anni, malato di
cancro in fase terminale. In questa fase, secondo
Berlusconi, ha meritato l’inappropriato titolo di “eroe”
perché avrebbe rifiutato di dire che anche Berlusconi era
mafioso, benché gli fosse stata offerta in cambio una
sistemazione ospedaliera conveniente.
Il 19 aprile del 2008, durante la trasmissione televisiva
Omnibus, Berlusconi dichiara:

Su Vittorio Mangano ha detto bene Dell’Utri: quando era


in carcere ed era malato, i PM gli dicevano che se avesse
detto qualcosa su Berlusconi sarebbe andato a casa e lui
eroicamente non inventò mai nulla su di me, i PM lo
lasciarono andare a casa solo il giorno prima della sua
morte. Mangano era una persona che con noi si è
comportata benissimo, stava con noi e accompagnava
anche i miei figli a scuola. Poi ha avuto delle disavventure
che lo hanno portato nelle mani di una organizzazione
criminale, ma non mi risulta che ci siano sentenze
definitive nei suoi confronti. Poi quando era in carcere fu
aggredito da un male che lo fece gonfiare in maniera
spropositata. Quindi bene dice Dell’Utri nel considerare
eroico un comportamento di questo genere.

1. Elio Veltri, Marco Travaglio, L’odore dei soldi, Editori


Riuniti, 2001.
2. Elio Veltri, Marco Travaglio, L’odore dei soldi, cit.
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Berlusconi inventa la televisione di condominio, poi di


quartiere, quindi la televisione cittadina, di paese,
regionale e con mille forzature e altrettanto sforzo, aiutato
in particolare da Craxi, crea un sistema televisivo uguale
ed equivalente a quello del servizio pubblico, la RAI. E
quando raggiunge questo obiettivo ha creato anche la sua
propria concessionaria di pubblicità, Publitalia, la quale
poi diventa il traino per il suo nuovo giocattolo: la politica.
Nell’estate del 1993 l’amico Dell’Utri riceve da lui l’incarico
di trasformare Publitalia in Forza Italia: una operazione
che ricorda le corazzate tascabili tedesche durante la
Prima guerra mondiale, apparentemente pacifici
bastimenti per passeggeri, con signore che spingevano la
carrozzina sul ponte, che di colpo abbattevano le finte
strutture e tiravano fuori i cannoni. Certamente, quando
Berlusconi fonda la sua concessionaria di pubblicità, non
ha ancora in mente Forza Italia, ma sta di fatto che
quell’impresa gli consente di creare una rete capillare
territoriale in grado di competere con le sezioni dei grandi
partiti di massa, con le parrocchie e con le stazioni dei
carabinieri. Publitalia è ovunque e i suoi omini lavorano
alacremente come formiche portando il frutto del loro
lavoro dalla periferia al centro.
Si può fissare come data di inizio di questa incredibile
scalata verso gli affari e il potere il luglio del 1974, quando
la Corte costituzionale dà il nulla osta alla televisione
locale via cavo. Berlusconi è pronto con una emittente
televisiva nuova di zecca, Telemilano cavo, destinata ai
«suoi» abitanti di Milano 2. Lì compie il primo miracolo
nel campo televisivo: forma una televisione di caseggiato,
che fornisce film, intrattenimento, vecchie pizze di
magazzino e persino nuovi volti perché le centraliniste più
carine diventarono presentatrici e lettrici di comunicati.
Gli abitanti del quartiere berlusconiano si sentono
privilegiati perché hanno la loro televisione. Berlusconi si
è preparato per tempo a questo passo: un anno prima, il 16
aprile 1973, aveva già costituito la società Telemilano
presso un notaio, ricorrendo, come fa abitualmente con le
sue numerosissime società, a dei prestanome. Il capitale è
appena novecentomila lire, portato a cinque milioni il 14
giugno 1977.
Così comincia la corsa fra Berlusconi e le leggi, le sue
televisioni e le autorizzazioni. La Corte costituzionale si
pronuncerà chiedendo che l’intera questione televisiva
venga disciplinata da leggi chiare. Ma la tecnologia e i fatti
corrono in fretta e due anni dopo la televisione locale è
autorizzata a trasmettere senza cavo via etere e la Consulta
reclama di nuovo dal Parlamento la disciplina di ciò che
considera «un bene collettivo». L’insieme delle frequenze
televisive è ancora visto come una sorta di torta, limitata e
perimetrata, le cui fette debbono essere tagliate secondo
un criterio che salvi i diritti di tutti. La Corte rinnoverà
periodicamente il suo grido di allarme. La situazione
fotografa una RAI con due sole reti, primo e secondo canale
(RAI3 è ancora da venire) di fatto appaltate a democristiani
e socialisti, con i comunisti che scalpitano perché si
sentono esclusi da quella che tutti già chiamano la
lottizzazione. I comunisti saranno soddisfatti quando verrà
creata per loro un’intera rete, RAI3, che sarà affidata a un
intellettuale geniale come Angelo Guglielmi, e un
telegiornale dato al comunista non ortodosso Sandro
Curzi, già sindacalista e coordinatore dei comitati di
redazione. Il criterio con cui rete e telegiornale sono
lasciati al PCI rispecchia una situazione politica anomala e
del tutto italiana, come è anomalo e del tutto italiano
l’intero panorama su cui si muove Silvio Berlusconi, il
giocatore più veloce e più ammanigliato politicamente,
grazie all’amicizia di ferro con Bettino Craxi.
A quell’epoca nessuno immagina ciò che accadrà nel
giro di un decennio: abbattimento del Muro di Berlino,
crollo del comunismo sovietico. È ancora un mondo
bipolare, in piena guerra fredda, e i comunisti non sono
autorizzati, per motivi internazionali (gli alleati della Nato
non vogliono condividere segreti militari con ministri
comunisti che teoricamente li spiffererebbero a Mosca), a
partecipare a governi di coalizione con la DC.
Si parlerà molto, e molto a sproposito poi, della conventio
ad excludendum dei comunisti, come se al PCI fosse stato
impedito di vincere le elezioni e governare. Questo non
accadde mai. Il PCI e i suoi alleati, anche se raggiunsero
vette altissime di consenso dopo la morte di Enrico
Berlinguer che colpì profondamente l’immaginazione e i
sentimenti italiani (Berlinguer l’ultimo leader di sinistra
che fece “sognare” il suo popolo, e con la sua scomparsa il
miracolo non si ripeté mai più). Il problema era quello di
associare i comunisti al potere reale e politico, senza
infrangere le regole dell’Alleanza atlantica, cosa molto
temuta specialmente da americani, inglesi e tedeschi della
Repubblica Federale.
Il primo tentativo, e anche l’unico concreto, fu quello
provato – con l’appoggio degli americani (come
testimoniano i documenti della CIA pubblicati da Maurizio
Molinari) – da Aldo Moro e da Enrico Berlinguer per
arrivare a un compromesso storico che allontanasse
completamente il Partito comunista italiano dall’orbita
sovietica. Ma Moro fu rapito e ucciso ed è mia ferma
convinzione che sia stato assassinato proprio per ordine
del KGB sovietico per impedire che il PCI uscisse dal
controllo del PCUS. Questa almeno è la mia convinzione
dopo aver presieduto l’inchiesta della Commissione
bicamerale parlamentare Mitrokhin e in particolare dopo
aver raccolto le prove del fatto che molti brigatisti rossi
come Antonio Savasta fossero inquadrati nella banda
terroristica di Ilich Ramirez Sanchez detto Carlos, il quale
era a sua volta sottoposto alla supervisione della Stasi
tedesca, a sua volta controllata e diretta dal KGB stanziato
nella Repubblica Democratica Tedesca, il cui esponente di
punta era il tenente colonnello Vladimir Putin.
La situazione di stallo che derivò dall’uccisione di Moro
nel 1978, proprio mentre stava per essere eletto presidente
della Repubblica, bloccò il processo di distacco definitivo e
radicale del PCI e ripropose il problema di una pacifica
convivenza fra i partiti della maggioranza alleati della DC e
il Partito comunista con cui erano stati sviluppati
eccellenti rapporti di integrazione e buon vicinato. Uno
dei risultati del processo di compensazione per il PCI

escluso dalla stanza dei bottoni (come Pietro Nenni aveva


chiamato il potere ai tempi del primo centrosinistra nel
1963) fu quello di dare ai comunisti un’intera rete
televisiva con telegiornale e un sostanzioso budget. Altre
compensazioni furono la Presidenza della Camera e di
alcune importanti commissioni parlamentari. Ma ai fini
della nostra storia giova notare che il panorama
fotografato prima dell’uccisione di Moro sarebbe
radicalmente cambiato di lì a qualche anno, creando una
RAI tripolare e ancora più politica e lottizzata secondo il
criterio, più o meno, di un terzo, un terzo e un terzo: un
terzo alla DC, un terzo ai socialisti e un terzo ai comunisti.
Politicamente, questa cristallizzazione della RAI manderà in
bestia Silvio Berlusconi, anche perché RAI3 diventerà ben
presto un suo avversario personale. Ma per la sua
mentalità di anticomunista radicale questo sviluppo verrà
temuto come un ulteriore passo verso la
“comunistizzazione” del Paese.
Il territorio della penisola è nel frattempo servito da un
pulviscolo di televisioni private locali: ben
quattrocentotrentaquattro e fra queste il futuro Canale 5
che si chiama ancora Telemilano 58, con sede nell’Hotel
Jolly di Milano 2.
A questo punto Berlusconi compie uno dei suoi quattro
clamorosi balzi: il primo era stato l’edilizia. Il secondo la
pubblicità televisiva. Il terzo il potere politico. Il quarto il
business energetico. E Berlusconi sceglie di mollare
l’edilizia per dedicarsi anima e corpo alla televisione
commerciale. Dà l’assalto alla miriade di piccole
televisioni esistenti, comprandone il più possibile nei
paesini e nelle città di provincia, e già meditando il colpo
gobbo della trasmissione simultanea, anche se finta, per
arrivare al permesso di trasmettere in diretta su tutto il
territorio nazionale. È una lunga marcia ma, grazie ai forti
appoggi politici e prima di tutto contando sull’amicizia
con Craxi, ce la fece.
Berlusconi fa shopping: rileva le piccole e medie
imprese pubblicitarie, acquista le televisioni piccole e
grandi e comincia l’epopea a lui tanto cara delle macchine
dei suoi uomini, che viaggiano da un paese all’altro
portando a una televisione il secondo tempo di un film e
ritirando quella del primo tempo da recapitare a un’altra
tv del suo giro.
Nel novembre del 1979 nasce ufficialmente Canale 5,
con l’intenzione di fare della televisione generalista, buona
per tutti, senza alcuna identità politica: la televisione,
come dice Berlusconi, non vende prodotti, ma vende
vendite. Se tu paghi l’inserzione, venderai il tuo prodotto.
Berlusconi offre agli inserzionisti contratti di sua
invenzione, molto moderni: il piccolo imprenditore non
mette mano al portafoglio, ma paga Berlusconi sulla base
dell’incremento delle sue vendite. Occorre dunque una
televisione familiare, popolare, neutrale, grande,
ecumenica, scintillante, piena di paillettes, gambe, quiz,
battutine, imitazioni della RAI e gente comprata dalla RAI.

Berlusconi non penserà mai e poi mai di trasformare le


sue televisioni commerciali in strumenti di campagna
ideologica, non ne vuole sapere. E quando persone come
me gli rimprovereranno direttamente di non aver voluto
usare il suo impero televisivo per dare un prodotto
culturale all’Italia, lui sbufferà, farà spallucce e la sua
espressione significherà senza possibilità d’errore: ma che
volete da me? Io ho fatto una televisione per vendere
pubblicità a tutti e ho bisogno di un prodotto televisivo
medio basso, anche bassissimo, purché in grado di
raggiungere la più larga fetta di acquirenti, e non
rompetemi le scatole con la cultura che non è un prodotto
pubblicitario.
Compra in blocco telefilm americani e tutti i fondi di
magazzino che possono intrattenere la famosa casalinga di
Voghera, il tormentone degli anni Settanta. E le massaie di
tutte le Voghera d’Italia gli saranno grate: un esercito di
casalinghe impegnate a lavare, cucinare, stirare, preparare
il pranzo e la cena, manterrà il televisore acceso dalla
mattina alla sera, sintonizzato su Canale 5, la televisione
che fa compagnia, la televisione che non pone problemi, la
televisione per tutti, che diverte, che rasserena, che sposta
l’attenzione su polpettoni amorosi, su gialli elettrizzanti, su
telequiz che raccolgono grandi platee di spettatori che
vedono crescere i montepremi, come accadeva nell’epoca
d’oro di Lascia o raddoppia, il primo popolarissimo telequiz
di Mike Bongiorno, quello che ha fatto la storia d’Italia
come la Seicento e l’Autostrada del Sole.
Berlusconi mette al bando barbe e baffi: fanno
sessantottino e danno un’idea di disordine. Capelli corti,
blazer blu e calzoni grigi diventano un’uniforme. Odia
l’aglio, lo bandisce non solo dalla sua tavola, ma da quella
di tutti i suoi dipendenti. Quando deve viaggiare in
macchina con qualcuno che ha mangiato l’aglio abbassa il
finestrino e sporge la testa come una tartaruga
reprimendo il vomito.
Vuole una società simile ai manichini dei grandi
magazzini, vuole gente che sorrida, che non porti
problemi, che compri, che festeggi e che lo adori. Questa
prima parte del trionfo di Canale 5 costituisce anche
l’inizio dell’ascesa della sua popolarità: Berlusconi diventa
l’amico delle famiglie, l’uomo semplice che parla come
parlano tutti, aggrovigliandosi con la sintassi. Le donne lo
adorano, i mariti anche, lo sport è curato, il calcio è
protagonista, tutti sono felici e contenti, almeno in
apparenza e il Cavaliere comincia a prefigurare un’Italia
che passando da Publitalia e Forza Italia consista in un
unico grande palinsesto popolare e politico in cui tutti si
vogliono bene, ma più che altro tutti vogliono bene a
Berlusconi. Lo amano, lo vogliono toccare, vogliono
baciarlo e le signore di una certa età arrossiscono, quelle
giovanissime sentono che potrebbe assumerle, tutte e tutti
gli concedono licenza di toccare, carezzare, fare battute,
esserci, parlare alle folle, alle convention, se occorre
camminare sulle acque e moltiplicare pani e pesci, magari
sotto forma di comodi salatini per la reception.
Intanto il panorama ecologico della penisola si copre di
ripetitori, tralicci, antenne.
La Consulta protesta di nuovo: essendo un organismo
anche politico e non solo notarile, vede già dove va a
parare.
Mentre Berlusconi trionfa, i grandi editori classici e
tradizionali con la puzza sotto il naso falliscono, perdono
miliardi e chiedono di vendere. Rizzoli ci prova e poi
abbandona, offrendo a Berlusconi impianti e l’intera
cittadella di Cologno Monzese. La Mondadori, come
vedremo, si svenerà con una televisione sperperatrice che
prima si chiamerà Uomo tv e poi Rete 4 e porterà alla
rovina la casa editrice, finché Berlusconi non verrà
supplicato di comprare e comprerà. Idem con Rusconi che
ci prova con Italia 1, ma molla e perde anche lui.
Berlusconi acquista e mette insieme il tris di cui ha
bisogno. Mentre la Consulta protesta, la politica,
l’opportunismo e l’economia lo caricano di televisioni e
richieste di andare avanti, e lui non aspetta altro. Quando
nel 1983 Bettino Craxi diventa presidente del Consiglio, è
pronto a servirlo di barba e capelli (pochi). Bettino vede
infatti in lui il tipico industriale di cui ha bisogno:
danaroso, pieno di problemi, bisognoso di leggi e di un
padrino politico, ma intraprendente, dinamico e amico.
Nel frattempo la vita privata di Berlusconi si complica, o
si arricchisce, secondo i punti di vista. Si innamora nel
1980 di Miriam Bartolini, il cui nome d’arte è Veronica
Lario, attrice di varietà, e la nasconde per tre anni in un
appartamentino molto riservato di via Rovani. La storia
dura finché Veronica non rimane incinta di Barbara.
Allora lui la spedisce in Svizzera, dove nel 1984 nasce la
bambina. Bettino Craxi sarà il padrino. Così finisce il
primo matrimonio del Cavaliere con Carla. Nell’anno in
cui si innamora di Veronica, mette nel carniere un’altra
televisione fallita, Tele Torino, comprata nel 1980 dalla
FIAT. Nel 1992 acquisterà la televisione di Edilio Rusconi.
Quando Craxi è al potere, non è l’unico a proteggere
Berlusconi. Mauro Bubbico, il responsabile democristiano
per le comunicazioni dice che chiedere a Berlusconi di
ridimensionarsi per non danneggiare la RAI sarebbe come
chiedere alla FIAT di farlo per non danneggiare l’Alfa
Romeo, che è prodotta dallo Stato come la RAI.
Berlusconi pratica con abilità e aggressività la politica
del fatto compiuto. Lo stesso farà con la Costituzione,
quando dirà che la modifica della stessa è un fatto
compiuto perché l’ha compiuto lui, e che dunque è ora di
adattare la Costituzione reale a quella materiale.
Nel 1983 Berlusconi acquisisce la Rete 4 della
Mondadori. Col sistema delle videocassette che viaggiano
e portano pezzi di palinsesto da un paese all’altro,
Berlusconi crea di fatto delle reti nazionali che
trasmettono in simultanea, anche se si tratta di un trucco
ottico, molto ben architettato. La gente vede
effettivamente nelle televisioni di Berlusconi e nelle
consociate lo stesso programma, lo stesso film e la mattina
successiva lo commenta come commenta da anni i
programmi della RAI. Il 16 ottobre 1984 i pretori che hanno
sulle scatole Berlusconi e che pensano sia ora di stopparlo,
oscurano le sue televisioni. Craxi le riaccende il 20 ottobre
con un decreto «che ripristini il buon senso». Ma la loro
vita è ancora incerta. Il decreto non viene convertito in
legge e i pretori le oscurano di nuovo. Stavolta Craxi riesce
a far passare il decreto detto “Berlusconi-Agnes”. Fu poi
necessario anche un secondo “decreto Berlusconi” e
seguirà infine la legge Mammì che, come dicono tutti,
fotografa lo status quo e viene ribattezzata per questo “legge
Polaroid”.
Berlusconi a questo punto è fortissimo e lo diventa
ancora di più acquistando finalmente nel 1986 il suo
amato Milan Calcio, di cui diviene presidente, e nel 1988
incassa il suo primo scudetto. Intanto in Francia Jacques
Chirac gli si mette di traverso impedendogli di varare La
Cinq: il presidente francese lo chiama «venditore di
minestre» e Berlusconi non dimenticherà mai l’affronto
subito.
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Si profila così quella che poi diventerà la “guerra di


Segrate” fra Berlusconi e De Benedetti, come strascico
dell’acquisto di Rete 4: l’operazione aveva permesso a
Berlusconi di acquisire un consistente pacco di azioni della
Mondadori e di avere dunque, sia pure in un primo tempo
silenziosamente, voce in capitolo.
Berlusconi entra non soltanto nell’azionariato della
Mondadori, ma – come è nel suo stile – comincia un
lavoro di diplomazia affettuosa nei confronti degli eredi
fino a conquistare il pacchetto di Leonardo Mondadori,
l’anello più fragile della catena. La casa editrice si trova
così ad avere l’azionista di riferimento della CIR Carlo De
Benedetti, che ha acquistato anche lui un numero
cospicuo di quote, la Fininvest di Berlusconi e gli eredi di
Mario Formenton, che in un primo momento avevano
promesso di vendere la loro quota a De Benedetti
garantendogli così la maggioranza e il bastone di
comando, ma che si lasceranno sedurre da Berlusconi
decidendo di vendere a lui e lasciando De Benedetti con
un palmo di naso. Il patto che aveva legalmente stipulato
De Benedetti prevedeva la cessione, da parte della famiglia
Formenton, delle loro azioni entro la fine del gennaio
1991, ma intanto il proprietario della CIR riusciva a
convincere con argomenti cui è difficile resistere Eugenio
Scalfari e Carlo Caracciolo a vendere “alla sua” Mondadori
i pacchetti azionari de «L’Espresso», che contengono anche
il quotidiano «la Repubblica», dove anch’io lavoravo e
dove anch’io, come tutti, appresi come un fulmine a ciel
sereno che eravamo stati venduti a De Benedetti e che «la
Repubblica» non apparteneva più dunque a un editore
puro, ma a un imprenditore che aveva una molteplicità di
interessi industriali ed editoriali.
L’annuncio della tragedia – per noi giornalisti, non certo
per Scalfari e Caracciolo – fu dato l’11 aprile 1989. Ricordo
benissimo quella giornata, la tensione, l’incredulità, la
rabbia, la sorpresa, l’ansia di ottenere da Scalfari
rassicurazioni, parole di conforto, la promessa che tutto
sarebbe stato come prima, pretesa, questa, assurda, perché
da allora tutto cambiò.
«la Repubblica» sarebbe diventata uno strumento anche
personale del suo editore. Ma preferisco rifarmi ai ricordi
di un altro protagonista di quella giornata inattesa e
tragica, e cioè di Giampaolo Pansa che era allora un
vicedirettore del quotidiano di piazza Indipendenza:
Quel pomeriggio, nello splendore del Teatro Carignano,
si festeggiava la nascita dell’edizione torinese di «la
Repubblica». Sul palco c’era Eugenio Scalfari, affiancato
dai due vicedirettori: Gianni Rocca e il sottoscritto. Seduto
in sala, avvolto in uno splendore carismatico, stava Gianni
Agnelli, venuto a sentire quali fossero i propositi di quei
pazzi saliti da Roma a insidiare il monopolio della sua «La
Stampa».
Carlo De Benedetti, padrone della Mondadori. I suoi
rapporti con Eugenio e il principe Carlo Caracciolo erano
già molto stretti. E di lì a pochissimo si sarebbe saputo che
lo erano diventati ancora di più. Poi anche l’Ingegnere
arrivò puntuale, alle diciassette e trenta spaccate.
Sembrava incerto sulla poltrona da occupare. Il capo
ufficio stampa della FIAT, Alberto Nicolello, si accorse di
lui. E gli cedette il posto accanto all’Avvocato, per la
goduria dei fotoreporter.
Fu una giornata storica. Ma non per lo sbarco de «la
Repubblica» a Torino. Lo divenne quando, quello stesso 1°
aprile, si apprese ufficialmente che Caracciolo e Scalfari
avevano venduto a De Benedetti i loro gioielli. Ossia la
metà de «la Repubblica», che la Mondadori ancora non
possedeva, più «L’Espresso» e la robusta catena dei giornali
locali. «Barbapapà» e il Principe avevano resistito a lungo
alle proposte dell’Ingegnere, voglioso di comprarsi tutto.
Scalfari ci aveva spiegato più volte che la sua era la
Strategia del Contadino. La metteva giù nel modo
seguente. Il contadino vive sulla propria fattoria e non
vuole saperne di andarsene. Molti vorrebbero comprargli
il terreno e la casa, anche facendo carte false. Ma il
contadino se ne resta lì, testardo. Resiste a tutte le
lusinghe. Respinge tutte le offerte.
Per noi della truppa de «la Repubblica» era un discorso
che piaceva, molto convincente. Non eravamo i
proprietari del fondo, ma soltanto gli aiutanti del
contadino Scalfari: i giornalieri di campagna, i ragazzi di
stalla, i conduttori delle macchine agricole. Però la cascina
era anche casa nostra. Ci stavamo bene. Si respirava aria
buona. In più eravamo al servizio di un editore puro, che
ricavava il proprio reddito soltanto dalla carta stampata.
Mentre le fattorie degli altri giornali erano sotto il
dominio di editori impuri. Che avevano altrove il cuore
del loro business.
Quel giorno d’aprile scoprimmo che eravamo diventati
uguali a tutti. In compenso, Caracciolo e Scalfari erano
passati nella gloriosa serie A dei miliardari. Il Principe di
miliardi ne aveva incassati qualche centinaio. Eugenio si
era fermato poco al di sotto dei cento. Tutti versati in
assegni circolari da De Benedetti. Che in quel modo
diventava il capo del più grande impero editoriale italiano.
Esteso da Segrate alla romana via Po, sede del gruppo
Espresso.
C’era qualcosa da spiegare. E Scalfari, grande direttore e
uomo molto accorto, se ne accorse subito. Gli bastò
annusare il mutamento di clima nella redazione de «la
Repubblica». La fedeltà del vertice, a cominciare da Rocca
e da me, non era in discussione. Lo stesso valeva per la
maggior parte dei giornalisti. Ma non mancava chi s’era
messo a rognare. E si chiedeva, inquieto: come si
comporterà De Benedetti, il nuovo padrone totale della
vecchia fattoria?
Eugenio aveva anche un’immagine da difendere. Si era
sempre affannato a proclamare la propria diversità
rispetto ai direttori delle grandi testate. Ripetendo di
continuo che un direttore era davvero forte e libero se era
padrone del suo. Ossia se possedeva almeno una parte del
giornale che guidava. Ma dopo la vendita miliardaria non
era più così.
Il 14 aprile 1989, Eugenio cercò di mettere tranquilli i
lettori e la redazione de «la Repubblica» con un articolo di
fondo intitolato Una bandiera che non sarà ammainata. E il
pomeriggio dello stesso giorno affrontò in conferenza
stampa i corrispondenti esteri di stanza a Roma.
Il succo del suo discorso fu il seguente. È vero,
Caracciolo e io abbiamo venduto la nostra azienda alla
Mondadori. Ma adesso, con una parte del ricavato, siamo
diventati azionisti di quel gruppo. E Caracciolo sarà
addirittura il presidente della nuova Segrate, a fianco
dell’Ingegnere. Oggi l’intero mondo dei media vede
l’affermarsi di grandi concentrazioni. Chi vuole andare
avanti, deve attrezzarsi per questa fase. Noi del Gruppo
Espresso eravamo terribilmente piccoli rispetto alle
dimensioni necessarie per combattere le nuove sfide. Ecco
perché abbiamo preso la decisione di vendere. Un
giornalista gli chiese: «In questo modo, ha ceduto le armi
l’ultimo editore puro. Non è così?» Risposta di Scalfari:
«Potevamo resistere, certo. Ma avremmo ingessato le
nostre attività. Ogni progresso avrebbe richiesto aumenti
di capitale ai quali da soli non avremmo potuto far fronte.
Invece noi abbiamo fatto una scelta diversa: ci siamo
trasferiti al piano superiore della Mondadori».
Belle parole, pronunciate da “Barbapapà” con la solita
sicurezza. Era un lato del suo carattere che ammiravo
molto. Anche nella carta stampata, se un direttore non si
mostra sicuro di sé non è un vero leader. Scalfari lo era,
persino nell’atteggiamento. Tanto che un giorno
Caracciolo ci disse:
«Non vi siete accorti che Eugenio porta la testa come il
Santissimo in processione?»

Alla fine Berlusconi riesce a convincere i Formenton a


rompere il patto sottoscritto con De Benedetti, vendere a
lui il pacchetto azionario e prendere il posto che De
Benedetti pensava di assumere. Riprendo qui quello che
dirò nel capitolo dedicato alla “guerra di Segrate”: il
“patto” di vendita non è considerato da tutti i giudici nello
stesso modo. I magistrati sono più o meno divisi a metà:
alcuni giudicano questi patti come carta straccia, altri li
considerano un obbligo la cui rottura può essere
sanzionata. Caracciolo intanto dà del “mascalzone” a
Berlusconi e da allora l’Italia viene avvelenata da questa
guerra che ha avuto i suoi strascichi fino al 2009, quando
un tribunale civile ha riconosciuto a De Benedetti il diritto
a ottenere una ingente somma.

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