Stefano Nazzi: «Nel mio podcast Indagini affronto la cronaca nera senza forzare le emozioni. Pablo Trincia? Abbiamo modi diversi di raccontare, ma ci stimiamo»

Dopo il successo di Indagini, il giornalista, in occasione del suo sbarco su Audible con l'audiolibro de Il volto del male, si racconta tra vita privata, progetti e curiosità che nessuno sapeva
Stefano Nazzi «Nel mio podcast Indagini affronto la cronaca nera senza forzare le emozioni. Pablo Trincia Abbiamo modi...

Le giornate di Stefano Nazzi iniziano ogni mattina alle sette, quando la storica voce di Indagini, il podcast del Post diventato popolarissimo nell'ultimo anno e mezzo, si prepara il caffè e apre il suo fedele portatile. «La prima cosa che faccio è guardare i giornali e, naturalmente, ascoltare Morning di Francesco Costa, che è quasi obbligatorio», commenta Nazzi al telefono con quella voce calda e un po' graffiata che è diventata il suo marchio di fabbrica. Oltre al podcast nel quale racconta senza morbosità alcuni dei casi di cronaca nera più efferati d'Italia, Stefano Nazzi ha deciso di raddoppiare leggendo per Audible Il volto del male, il libro pubblicato da Mondadori nel quale affronta diverse storie di omicidi - da Nicola Sapone delle Bestie di Satana alle tre ragazze di Chiavenna che uccisero senza motivo una suora - e si chiede quello che un po' tutti ci domandiamo quando la cronaca ci mette davanti a fatti di questo tipo: «Perché lo hanno fatto?».

Com'è stato leggere sé stesso?
«Quando scrivo è un po' come se mi sentissi: pronuncio le frasi, sono abituato. Fare un audiolibro, però, è stato faticoso perché, non essendo un attore, leggere di seguito quattro capitoli è una bella impresa. Nel podcast ti fermi, ci sono le pause. Qui è tutta un'altra cosa, ma è stata una bella esperienza».

Si risente mai?
«Mai. Anche perché mi sono sentito talmente tante volte mentre registro che a una certa dico: basta. Non provo un godimento eccessivo nel sentirmi ripetere sempre le stesse cose».

Nessun narcisismo, quindi?
«Per fortuna no».

Ascolta gli audiolibri?
«Sì, soprattutto in vacanza. Preferisco i libri di carta ma, se sono su una sdraio o un'amaca, mi piace ascoltare le storie».

Nel suo di libro parla del male che porta alcune persone a compiere degli omicidi: pensa che il male sia qualcosa in cui chiunque possa inciampare?
«Non credo. Le condizioni in cui cresci e vivi hanno un certo peso su questo: non è che una persona improvvisamente diventa cattiva e commette atti terribili. È sempre un percorso che porta con sé un'attitudine, dei segnali. I dati, poi, ci dicono che l'anno scorso in Italia ci sono stati 314 omicidi. Che sono tantissimi, per carità, ma che ci dicono anche che c'è un'infinitesima parte dell'umanità che si macchia di questi reati».

Certe storie di omicidi entrano più sottopelle rispetto ad altre in base alla sensibilità della persona.
«Sono storie che vanno a comporre la grande storia che viviamo, la storia di un Paese. Se sei bambino ai tempi del delitto di Cogne non puoi sfuggire alla notizia anche se non la cerchi, perché tutte le sere la tv te la racconta, e quella storia cresce con te».

Una storia che l'ha segnata in modo particolare nella sua vita?
«Quella delle Bestie di Satana. Ho conosciuto due padri delle vittime e una delle persone che ha partecipato agli omicidi: me ne sono occupato molto negli anni. Ti chiedi sempre: qual è stato il senso di tutto questo? Nessuno ha mai saputo spiegare perché agissero in quel modo».

Stefano Nazzi

Nel raccontare le storie di cronaca nera lei utilizza, sia nell'audiolibro che nel podcast, un tono molto misurato e lontano dalla spettacolarizzazione. È difficile da mettere in atto?
«È difficile, ma è necessario. Le storie che affronto partono dalla voglia di fare qualcosa di diverso dalla narrazione della cronaca degli ultimi 20 anni. Non voglio e non devo forzare emozioni e opinioni anche se a volte è difficile, visto che tutti noi abbiamo un'idea su un avvenimento».

La spettacolarizzazione è sempre la via più facile.
«Anche i giornali sono andati dietro a quel tipo di narrazione, è stata quasi una scelta obbligata. Per fortuna sta un po' scemando, qualcuno sta capendo che le cose si possono fare in maniera diversa».

Eppure la ricerca della morbosità continua anche in televisione: perché funziona?
«Perché si cerca sempre di creare empatia a tutti i costi. Dopo l'incidente del pullman sul cavalcavia di Mestre ho letto titoli come “la sposa incinta, il bimbo e le famiglie distrutte”. Parliamo di 21 morti: non è che due viaggiatori in viaggio di nozze creino più dolore di una persona che viaggiava da sola e se ne stava per i fatti suoi. Cercare questi dettagli non è utile e non è bello».

Ci sono podcast true crime che le piacciono?
«Mi è piaciuto molto Polvere di Cecilia Sala e Chiara Lalli, senza contare che sento il modo di raccontare di Carlo Lucarelli molto vicino al mio, senza fini moralistici o interessi particolari al centro della storia. In generale, chi fa un passo indietro per raccontare quello che è accaduto mi piace».

Lo ha ascoltato Dove nessuno guarda di Pablo Trincia sul caso Elisa Claps di cui si è occupato anche lei in Indagini?
«Sì, Pablo è bravissimo. Anche se abbiamo due modi diversi di raccontare, va bene così. Ci stimiamo a vicenda. Se fossimo tutti omologati sarebbe la fine».

Su Google la domanda più cercata su di lei è: dov'è nato Stefano Nazzi?.
«Sono nato a Roma, ma sono milanese da sempre. Sin da bambino i miei si sono trasferiti a Nord e lì sono cresciuto».

Cosa voleva fare da grande?
«Da piccolo piccolo l'archeologo, poi ho virato sul giornalista. Per fortuna sono riuscito a farlo in tempi in cui era molto facile accedere alla professione».

Cosa la affascinava del mestiere?
«Raccontare. Fin da ragazzino adoravo il telegiornale. La realtà, quello che ci succede intorno, è la cosa che mi è sempre piaciuta più di tutte».

California Prunes

Si è occupato solo di cronaca nera nel suo lavoro?
«Per niente. Ho lavorato in giornali economici, femminili, ho scritto di turismo. Della cronaca ho cominciato a occuparmi all'inizio degli anni Duemila».

Ha capito subito che era un mondo in cui era a suo agio?
«Mi affascinava e mi piaceva di più di altri temi di cui mi ero occupato».

È mai stato costretto a contattare le famiglie delle vittime per scrivere un articolo?
«Purtroppo sì, anche se ho sempre pensato che sentire le famiglie fosse ingiusto: le famiglie esprimono dolore, e sentirle non aggiunge niente alla ricostruzione dei fatti. Serve solo a forzare un'emozione in chi ti legge e ti ascolta. Penso che ci voglia rispetto, e questo vale anche per le famiglie degli autori di questi gesti».

Lei non è in pensione, giusto?
«No. A un certo punto l'azienda per cui lavoravo ha deciso di sfoltire i posti di lavoro e ha messo sul tavolo degli incentivi di cui ho approfittato. Ero stufo di fare determinate cose, della vita di redazione. È successo tre anni fa».

Indagini quando è arrivato?
«Ho iniziato prima a lavorare per il Post, che seguivo da sempre. Poi, parlando con Costa che all'epoca era il responsabile dei podcast, è nata questa idea e l'abbiamo messa a frutto».

Com'è stato il primo approccio con la sua voce?
«Le prime volte la mia era più una lettura, ma sbagliavo. Col tempo ho imparato a raccontare utilizzando correttamente questo mezzo, è diventato un'abitudine».

Ho notato che, durante le puntate, ci sono diverse voci di volti noti, da Michela Giraud ad Alessandro Cattelan, che intervengono nella lettura degli atti processuali: sono loro a proporsi?
«A volte mi dicono che gli piacerebbe, mentre altre volte ancora ho chiesto io loro una mano. Il patto è sempre: non dirò mai chi siete, ma mi farebbe piacere che interveniste nelle puntate. Nelle ultime, però, non lo faccio più, altrimenti diventa un gioco per la ricerca della voce più riconoscibile, e questo distoglierebbe dalla storia che si racconta».

Proprio da Cattelan ha detto che la sua vita dopo il successo non è cambiata. Vale ancora?
«Da molto sedentario che ero ora sono sempre in giro, soprattutto per la presentazione del libro. Vivo una maggiore interazione sui social, ma a livello di vita e di abitudini non sono cambiato poi tanto».

Prossimamente vedremo in televisione e sulle piattaforme diverse serie televisive tratte da casi di cronaca nera: da Per Elisa su Rai1 ad Avetrana - Qui non è Hollywood su Disney+. Cosa pensa di questi esperimenti?
«Che dipende da come uno li racconta. Se metti al centro la storia e dimostri rispetto penso che vada bene. Se punti sulla scoperta della verità e sul tono sensazionalistico parliamo di un'altra cosa».

Cosa vede nel suo futuro?
«Continuerò col podcast e ho in testa un altro libro. Poi vediamo. Non faccio programmi a lunga scadenza: la vita è imprevedibile, non è mai come te la immagini».

Cosa la spaventa?
«Le malattie. Il resto no. Non ho paure eccessive rispetto agli altri».