Nella casa di Alessandro Michele: il restauro di Palazzo Scapucci a Roma e la storia di una scimmietta gelosa

«Sono un medico che cura dimore danneggiate e fatiscenti», dice alessandro michele nel presentare al mondo il suo nuovo indirizzo. Un palazzo medievale romano pieno di storie e leggende
casa alessandro michele

Nella casa di Alessandro Michele: il restauro di Palazzo Scapucci a Roma

Alessandro Michele cerca una casa in ogni città che visita, accarezzando visioni romantiche e, non di rado, realizzandole. Nutre una passione particolare per la bellezza offuscata, per i luoghi fatiscenti e ricchi di storia, che irradiano grandezza perduta. È per questo che si è imbarcato nell’impresa di ristrutturare uno degli edifici più iconici e misteriosi di Roma, Palazzo Scapucci. Da adolescente, all’inizio degli anni 90, Alessandro si aggirava per la Città Eterna con aria solitaria e concentrata. I capelli raccolti in una cresta verde brillante, era l’unico ragazzo punk del suo quartiere. Anche solo sostare alla fermata dell’autobus era un’avventura. Uno zio aveva uno studio di restauro di mobili antichi annidato nei giardini di via Margutta, e lì Alessandro annusava la colla e il mastice, sognando le vite passate di tavoli e poltrone. Trascorreva ore a Villa Giulia, il palazzo rinascimentale che ospita il Museo Nazionale Etrusco, percorrendone i giardini, studiando l’antichità pre- romana e i monumenti funerari in terracotta. Mentre i suoi coetanei si riunivano per i rave o il rito dell’aperitivo, lui osservava tetti e cupole, aspettando che gli edifici gli parlassero.

Una collezione di vasi di ceramica sul camino all’ingresso

Uno scorcio del secondo soggiorno, con i lampadari gemelli

«Acquisto i luoghi che credo possano avere bisogno di me»

«Roma ti ammalia», dice. «Ti accoglie con una peculiare scompostezza». Il modo in cui Alessandro ha rivoluzionato Gucci durante i suoi quasi otto anni come direttore creativo è stato in gran parte un riflesso del suo viscerale interesse per le storie non raccontate, la vita passata di antichi manufatti, monumenti, persone. «Sono un medico che cura dimore danneggiate e fatiscenti», dice. «Acquisto i luoghi che credo possano avere bisogno di me, dopo essere stati deturpati o abbandonati». Lo incontriamo nell’appartamento ristrutturato al piano nobile del palazzo. È seduto su una poltrona rivestita di velluto blu petrolio di epoca Tudor, il viso incorniciato da rigogliose chiome scure. A circa otto mesi dalla sua uscita da Gucci, ha l’espressione calma e composta di chi ha visto e fatto tutto ed è felice di essersi preso una pausa, anche se forse lavorare al restauro di un palazzo con otto secoli di vita è un modo piuttosto insolito di intendere il termine “pausa”.

Un ritratto del XVIII secolo e due poltroncine tardo XIX secolo con rivestimento a piccolo punto

La leggenda della scimmietta gelosa

Palazzo Scapucci è uno dei pochi edifici di Roma a vantare una torre medievale. Nel Quattrocento era un convento appartenente a papa Sisto IV, il cui stemma è stato rinvenuto, intagliato nelle travi, durante i lavori di restauro. Oltre un secolo dopo la proprietà passò alla ricca famiglia Scapucci, il cui nome è legato a una leggenda raccontata da Nathaniel Hawthorne nei suoi Passages from the French and Italian Notebooks, pubblicati nel 1871. Secondo la tradizione, gli Scapucci avevano una scimmietta da compagnia che, abituata a essere al centro dell’attenzione, divenne terribilmente gelosa quando nacque il loro primo figlio, tanto che strappò il bambino dalla culla e fuggì in cima alla torre. Il padre dell’infante invocò la Vergine Maria, promettendole, in cambio della salvezza del bambino, di tenere sempre accesa in suo onore una lampada a olio sulla sommità della torre. Avvenne il miracolo: la scimmia restituì il bambino, e da allora una lampada arde in cima all’edificio. Mentre racconta questa vicenda, Alessandro agita le mani, facendo baluginare i suoi anelli d’oro vintage. Per lui storie come questa sono sempre con noi: «Non sono convinto che il tempo passi come indicano il calendario o l’orologio», dice. «Gli ottocento anni di queste mura sono il presente, per me. Ecco perché non sono un nostalgico. Non ho mai creduto che le persone non più in vita se ne siano andate. Tutti lasciano profonde tracce dietro di sé».

Una collezione di vasi, piante di rame dipinte e statuette nel soggiorno

Il soggiorno più grande

Lo spirito pagano del padre

Il padre di Alessandro era uno spirito libero, sovversivo, che non vedeva di buon occhio il concetto di proprietà. Faceva parte del comitato di occupazione di Lotta Continua, movimento di estrema sinistra che, negli anni 70, si batteva per dare un alloggio alle famiglie di lavoratori che non potevano permettersi di pagare l’affitto. «Aveva forti convinzioni politiche, ma amava anche la natura», dice Alessandro. «Lo definirei uno spirito pagano, quasi un animista. Ci portava in montagna, ci faceva sedere e ci diceva: “Fate silenzio! Ascoltate il vento che passa tra le foglie. Quello è Dio”». Quando la famiglia scoprì di non potersi più permettere la propria casa, si trasferì in quelle occupate da Lotta Continua, nella zona nord di Roma. Per Alessandro è stato un periodo formativo. Ma la vita randagia ha avuto un costo elevato, soprattutto per sua madre, che aveva una visione del mondo meno radicale. «Condividevamo lo spazio con famiglie che non conoscevamo», ricorda. «È lì che ho ricevuto la mia prima, grande lezione di vita, imparando l’arte dell’osservazione e sviluppando un sincero interesse per le persone». Studiava gli sconosciuti che andavano e venivano alle ore più strane della notte e, quando gli adulti parlavano, si sedeva in un angolo ad ascoltare. «C’erano prostitute, spacciatori, madri povere scacciate dalle loro case», racconta. «Esseri umani straordinari, con volti straordinari. Quindi so cosa significhi essere accolti».

Il karma della casa e la scoperta del tetto

Non a caso, ha scelto di vivere di fronte alla chiesa barocca di Sant’Antonio dei Portoghesi, sorta da un ospizio per pellegrini lusitani, un luogo di carità e ristoro. Ha anche intenzione di mettere a disposizione residenze d’artista nella sua casa di campagna, nella zona etrusca del Lazio settentrionale, e, quando lavorava da Gucci, la sua scrivania era un punto di sosta per tanti creativi in viaggio per il mondo. Quando Alessandro ha visto per la prima volta l’appartamento di Palazzo Scapucci, si è trovato di fronte un luogo buio e incoerente, con bassi soffitti in polistirolo e nessun fascino. «Saloni che davano su stanze strapiene che si aprivano su altre stanze strapiene con finestre troppo piccole. Ma io continuavo a tornare e a osservare dalla strada», racconta. «Quando mi innamoro, alle case non faccio la corte, le pedino». Ha conosciuto i proprietari, tre personaggi romani del tutto bizzarri: uno zio, un nipote e un contabile che usava l’appartamento come ufficio e rifugio per gli amici. «Appartenere a più persone era già nel suo karma», dice. «Era un luogo di vita comunitaria». Alessandro sapeva che comprare la casa sarebbe stata un’impresa non da poco, ma, alla fine, ha deciso di farlo. Una delle tante cose incredibili che sono successe durante i lavori di restauro è stata la scoperta del tetto originale sotto il controsoffitto. Era pieno di incisioni, affreschi, insegne papali, gigli dei re di Francia e uno scudo con il simbolo della famiglia Della Rovere. Alessandro ha trascorso ore sulle impalcature: «Ho familiarizzato con ogni centimetro di quel soffitto», dice, «anche se probabilmente ho fatto venire un esaurimento nervoso alla squadra di restauro».

Nella camera da letto, l’antica cornice di una porta veneziana funge da preziosa testiera

La stanza più bella della casa di Alessandro Michele

Le campane di una chiesa suonano pigre in lontananza. Parlando di fantasmi e scoperte, abbiamo perso la cognizione del tempo ma ora è il momento di fare un giro. Bosco e Orso, i cani di Alessandro, scodinzolano contenti. In un secondo soggiorno sono appesi due lampadari che riproducono i rami di una quercia: «Non li accendo mai», precisa Alessandro. «Per me sono complementi d’arredo. Mi piace vederli nello spazio». La cucina è inondata dalla luce del sole di mezzogiorno, che si riflette sulla splendida collezione di piastrelle di Delft e sugli antichi armadi in legno e vetro. Una scalinata di marmo ci porta alla biblioteca, nascosta nell’antica torre medievale: «La stanza più bella della casa», nota Alessandro. Ultimamente ha adottato l’abitudine di arrampicarsi fin qui e prendere dagli scaffali libri di poesia. È una sorta di meditazione, mentre riflette sui suoi prossimi passi e sul momento di sospensione che sta vivendo. «È normale che adesso io abbia bisogno di ossigeno ed è ironico che, leggendo queste raccolte di poesie, abbia sviluppato un interesse così forte per lo spazio bianco sulla pagina e per ciò che rivela delle parole che lo abitano». Quindi fa un sorriso malizioso: «Guarda qui», dice. Apre un passaggio nascosto nella libreria, il tipo di porta rototraslante che sarebbe il sogno di qualunque bambino.

Un angolo della cucina

Un elaborato lampadario a forma di rami di quercia è appeso nel secondo salotto dell’appartamento

La collezione di mestoli

L’edificio originario era provvisto di vari passaggi e ambienti segreti, e Alessandro ne ha approfittato. Uno di questi, spiega, è nascosto dietro il suo guardaroba e contiene una vasca da bagno e una balaustra, oltre a essere pieno di ante di vetro decorate con stampe e tessuti disegnati da lui stesso. Attraversiamo la sala da pranzo, con il suo tavolo ingombro di penne e libri, tra cui una densa antologia della poetessa e musicologa Amelia Rosselli, quindi passiamo in camera da letto, dove il telaio di una porta, una magnifica opera veneziana, è stato trasformato da Alessandro in una testiera. Poi lo studio, cui si accede attraverso una serie di corridoi, un work in progress, colmo di scatole, vecchi dipinti indiani su vetro e marionette. Come dal nulla, Alessandro fa spuntare un mestolo: «È pazzesco, l’altro giorno ho iniziato ad aprire le scatole e ho trovato questa collezione di mestoli. È incredibile quanti ce ne siano». Saliamo diverse rampe di scale e superiamo più stanze di quante Alessandro riesca a mostrarci. «Non finisce mai», dice guidandoci verso la terrazza, mentre nell’aria aleggiano le note dell’organo di Sant’Antonio dei Portoghesi, il più antico di Roma. Attraverso il fogliame di piante rigogliose, i cespugli di rose e i banani, si intravedono i passanti nelle strade sottostanti.

Un bagno per gli ospiti

Vivere a “mezz'aria”

Alessandro è un passeggiatore notturno, ma gli piace anche perdersi nella città durante il giorno. L’unico problema è che vive in un quartiere popoloso e la gente lo riconosce sempre. Così indossa un berretto da baseball e occhiali da sole per portarci a prendere un caffè al bar Sant’Eustachio, dove viene servito quello che da molti è considerato come il miglior espresso del mondo. Camminiamo a passo lento, soffermandoci davanti a librerie e vecchi teatri. D’un tratto Alessandro ci indica la facciata tardo-barocca della chiesa di Sant’Andrea della Valle: «Roma è una città caotica con piccole oasi di tranquillità», dice. Quasi a confermare le sue parole, mentre attraversiamo la strada, un automobilista suona con ferocia il clacson e ci urla contro: «Annamo un po’!». Alessandro ride: «Mia madre mi diceva sempre che vivo “a mezz’aria”», ammette.

Roma, la città estenuante

All’interno della chiesa, la luce filtra attraverso grandi finestre, riflettendosi su un tavolo a specchio collocato al centro della navata maggiore (consente ai visitatori di ammirare le decorazioni della volta soprastante) e diffondendo ovunque un chiarore dorato. Alessandro viene qui quasi ogni giorno: «Le chiese, a Roma, sono come grandi palcoscenici», commenta. «Con questo posto mi comporto come un serial killer: continuo a tornarci». Tra i suoi luoghi più amati c’è anche l’affollato Campo de’ Fiori, con le sue bancarelle e i venditori di frutta che sembrano tutti conoscerlo per nome. Riusciamo a resistere al richiamo della “pizza bianca” del rinomato forno locale, attraversiamo piazza Farnese e finiamo per sederci in un ristorante in piazza della Quercia, con l’omonimo albero che campeggia al centro, impavido e solitario. Con aria sognante, Alessandro indica l’antica area mercatale vicino al Tevere e Palazzo Spada, un altro luogo che gli piace frequentare in cerca di ispirazione. Quando ci alziamo, lui, ancora in modalità “a mezz’aria”, dimentica il portafoglio sul tavolo, venendo quindi inseguito da un gentile turista. «Vedi come sono?», dice ridendo. E, mentre ci incamminiamo verso Palazzo Scapucci, si abbandona a un’altra rêverie: «Roma è qui da migliaia di anni», dice. «Presto noi non ci saremo più, ma lei sì. Roma ti seduce e ti mette in guardia: “Stare con me è difficile. Posso sembrare bella, ma sono estenuante. Non lavoro e ti renderò la vita impossibile”. Questo mi aiuta a vedere le cose dalla giusta prospettiva».

Antiche ceste di paglia e uno specchio toscano della fine del XVIII secolo

In apertura: Alessandro Michele nel suo grande appartamento romano, davanti a un mobile pieno di oggetti da collezione, tra cui vecchi flaconi da farmacia e antiche porcellane italiane.

Questo articolo lo trovate anche sul numero di Dicembre di Vogue Italia.

CREDITI

Photo FRANÇOIS HALARD
Hair CARMEN DI MARCO @MIMMO LASERRA
Make-up TANJA FRISCIC,
Production KITTEN PRODUCTION
Sittings editor GIANLUCA LONGO

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