arte

Julie Mehretu, l'artista che nei suoi quadri astratti traduce i sentimenti di sradicamento, migrazione e razzismo

Ha inaugurato a Palazzo Grassi, Venezia, la mostra Ensemble dell'artista dei record, un inno pittorico alla condivisione degli spazi e agli sguardi reciproci
julie mehretu
julie mehretuJosefina Santos

Julie Mehretu, l'artista ora è in mostra a Palazzo Grassi, Venezia, con Ensemble, un inno pittorico alla condivisione degli spazi e agli sguardi reciproci

Ensemble ha aperto lo scorso 17 marzo e prosegue fino al 6 gennaio 2025. Si tratta di una mostra mastodontica, sviluppata su due piani di Palazzo Grassi, Venezia, con decine e decine di opere datate dal 2001 al 2023 delle quali poco più di quindici già presenti nella Collezione Pinault. La mostra è organizzata in collaborazione con il K21 – Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen di Düsseldorf, che il prossimo anno presenterà una seconda tappa del progetto interamente dedicata a Julie Mehretu. L'allestimento veneziano non segue un ordine cronologico, ma procede per intrecci visivi e corrispondenze tra le opere, una danza che accosta le stampe e i dipinti di Mehretu alle sculture, ai video e ai ricami realizzati da altri otto artisti, amici e amiche.

Nonostante l'eterogeneità dei materiali e dei linguaggi il percorso risulta coerente, compatto, coeso, la pittura di Mehretu mostra la sue maturazioni rimanendo ben riconoscibile. Julie Mehretu è nata nel 1970 ad Addis-Abeba in Etiopia, e dopo numerosi spostamenti, con la famiglia prima, e per i suoi studi poi, dalla fine degli anni Novanta vive e lavora a New York. Tema ricorrente nella sua pratica artistica è la traduzione di temi chiave della nostra contemporaneità, come lo sradicamento, le migrazioni, il razzismo e il rapporto tra denaro e potere. Sono soggetti ricorrenti anche dei dialoghi con gli altri artisti coinvolti, che spesso hanno storie comuni di emigrazione e dislocazione, ma soprattutto condividono un simile panorama di valori.

Julie Mehretu

Una pittura che lavora sul tempo

Julie Mehretu si muove nello spazio dell'astrazione, costruendo mondi in cui coltivare un pensiero critico. Le sue ampie tele hanno bisogno di tempo e di osservazione accurata, poiché, anche se a prima vista può sfuggire, sono costruite da innumerevoli strati di immagini trovate, colori e segni, sigillati da uno strato di acrilico trasparente. È un processo che lei stessa definisce «germinativo» poiché: «la pittura è un medium temporale», in cui mescola passato, presente e futuro. La sua pittura affonda le radici nella storia dell'astrattismo storico, richiama alla mente i nomi di Vassilij Kandinskij o Joan Mirò. «Come se avesse messo un Mirò in una centrifuga», ho pensato guardando Black City (2007), tela che mostra una profondità straordinaria, tanto da sembrare tridimensionale e dinamica. L'idea di esplosione, di forza, torna alla mente guardando diverse opere.

La base di ogni dipinto può essere un disegno architettonico o una fotografia sepolti dagli strati di pennellate, che sono tumultuose senza essere espressioniste. Non vediamo più le immagini di partenza, che negli ultimi anni sono fotografie di eventi catastrofici, conflitti, drammi globali, ma sappiamo che ci sono, in un certo senso alla deriva. Un ulteriore livello di lettura è dato dai titoli delle opere, molto significativi per capire il momento e il legame con la cronaca e le vicende attuali, che Mehretu ascolta, assorbe e a cui reagisce. Gli strumenti dell'artista sono le dita, diverse taglie di pennelli, stencil, bombolette, nastro adesivo per delimitare le aree e infine, soprattutto nei primi Duemila, l'aerografo. Di fronte alle opere di Mehretu si possono vedere paesaggi, mappe, pitture murali preistoriche, pixel di stampe fotomeccaniche, segni ortografici, pagine di libri antichi, vedute urbane, graffiti, sgommature sull'asfalto. Forse c'è un po' di tutto questo. Patricia Falguières, nel catalogo, le definisce «una superficie da decifrare, una rete di coordinate, il piano di un tavolo».

Dagli strati ai dipinti semi-trasparenti

Gli anni Duemila sono per Julie Mehretu un periodo fertile che la porta a lavorare su tele di scala sempre più monumentale. Arriva a sperimentare i TRANSpaintings, opere che, emancipatesi dalla parete, invadono la sala espositiva con una presenza fisica molto forte, ispirati dagli allestimenti di Lina Bo Bardi. Superfici di poliestere semitrasparente sono dipinte dai suoi tratti distintivi, riconoscibili anche se più morbidi, e sono infine montate in strutture in alluminio, opera della scultrice Nairy Baghramian, una degli otto amici-artisti coinvolti. Sono le uniche opere realizzate precisamente a quattro mani, dipinti dell'una incastonati in sculture dell'altra. Mehretu alleggerisce le stratificazioni precedenti, che rimanevano ancorate a una dimensione prettamente visiva, realizzando opere infinite, senza sfondo e senza fondo. Sono dipinte da un solo lato, ma vi si gira intorno, come ad una scultura, e si osservano da tutti i punti di vista. Prendono vita proprio grazie alle figure umane che vi si avvicinano: i corpi dei visitatori diventano sagome e ombre spettrali che interferiscono con le pitture colorate e si intravedono tra un lato e l'altro dei lavori, attraversati anche dalla forte luce primaverile veneziana.

Una mostra anche collettiva

«Al processo di stratificazione che moltiplica la superficie delle immagini fa eco la dimensione collettiva, l'idea di lavorare insieme, che abbiamo voluto sottolineare», scrive la curatrice Caroline Bourgeois nel catalogo. Mehretu racconta che aveva appena terminato il lavoro sulla grande mostra al LACMA di Los Angeles quando ha ricevuto l'invito di Palazzo Grassi – Collection Pinault. Temeva di non avere abbastanza tempo per creare nuove opere, così ha sviluppato un progetto che includesse altri artisti, che ha trovato il pieno sostegno della curatrice e dell'istituzione. «Quest'idea mi è sembrata catartica ed eccitante», rivela Mehretu, ripensando alle ragioni di Ensemble, «realizzare una nuova mostra che potesse guardare indietro ai lavori precedenti e farli dialogare con quelli emergenti, il tutto nel contesto del confronto e della comunità».

In un mondo in cui imperversano guerre, in cui ci si chiudeva in casa per una pandemia globale, Mehretu progettava la sua prima grande mostra antologica in Europa, immaginando un Ensemble, un progetto espositivo corale, basato sull'idea di dare spazio a quelle otto relazioni professionali e personali che l'hanno accompagnata negli ultimi vent'anni, la sua maturità artistica. Si tratta di Nairy Baghramian, Huma Bhabha, Paul Pfeiffer, Robin Coste Lewis, Jessica Rankin, Tacita Dean e David Hammons, quest'ultimo una «stella guida» più che un compagno di strada, per ragioni generazionali. Tra di loro vi sono i co-fondatori, insieme a Mehretu, di Denniston Hill, il progetto di residenza per artisti fuori New York, upstate, aperto nel 2005, dove hanno tutti vissuto a periodi più o meno lunghi, uno spazio di esplorazione, un focolaio di ritrovo e confronto. È Bourgeois, in conversazione con Mehretu, a individuare un terreno comune, dei valori condivisi tra tutti loro, ed è curioso che ne riporti le radici proprio in Italia: «I tuoi amici artisti sono tutti impegnati in una sorta di dimensione politica, nel senso civico del termine, come nel Rinascimento italiano: una responsabilità dell'arte nei confronti della comunità, della gente».

Julie Mehretu © Tacita Dean

Accanto alla pittura la musica, la scultura, il video

In mostra ci sono anche due filmati dell'artista inglese Tacita Dean, che Mehretu ha conosciuto durante un periodo berlinese. Il più antico è GDGDA (2011) che mostra un pomeriggio di lavoro della pittrice con i suoi assistenti, impegnati a un murales. Il secondo è molto toccante, si intitola One Hundred and Fifty Years of Painting (2021) ed è stato montato a partire dalle riprese di un'intera giornata di conversazione tra Mehretu e un'altra pittrice, Luchita Hurtado. Le due sono nate lo stesso giorno e Dean le ha riprese insieme nell'anno in cui la prima compie cinquant'anni e la seconda cento, mentre chiacchierano delle loro vite, dei viaggi, della morte, del cambiamento climatico e della propria pratica pittorica.

Julie Mehretu © Tacita Dean

Anche Robin Coste Lewis, artista e poetessa, contribuisce con un'installazione audio-video, dal titolo di Intimacy (2022), costruita attraverso i ritratti del suo archivio di famiglia. Lei e Mehretu si conoscono dai tempi dell'università, quando frequentavano gli stessi seminari di teoria del post-colonialismo, di studi queer ed etnici. In mostra si incontrano anche varie sculture, oltre alle strutture-cornici di Baghramian, come le tre opere di Bhabha. Figure antropomorfe, totemiche di grande intensità, campeggiano nelle sale come idoli antichi, emanando profumi naturali: sono realizzate prevalentemente in sughero, con aggiunta di altri elementi di uso quotidiano. Infine c'è la musica, che esce forte e chiara dal video che mostra Jason Moran performare MASS (Howl, eon) nella chiesa di Saint Thomas the Apostle ad Harlem, mentre Mehretu lavora a due grandi dipinti site-specific, rispettivamente HOWL, eon I e II (2017).

Se la retrospettiva del LACMA di Los Angeles del 2019 viene definita “di metà carriera”, questa mostra italiana è la prima tappa della seconda metà della vita professionale di Mehretu, che prende voce, forte e chiara, con un progetto pittorico svincolato dalla parete e nutrito dalla stretta convivenza, anche nelle sale del museo, con coloro che ha al suo fianco nella vita reale.

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