Come lui nessuno mai: l'indimenticabile storia de L'Uomo Vogue

La parabola de L'Uomo Vogue raccontata da chi lo ha vissuto. Aneddoti, ricordi e soprattutto il continuo, condiviso stupore di fare un giornale diverso da tutti. Sempre inimitabile.
L'Uomo Vogue Settembre 2003
Steven Klein

L'Uomo Vogue: la storia di un magazine indimenticabile che ha avuto in copertina, fra gli altri, anche David Bowie e Orson Welles

È impossibile scegliere uno tra gli iconici ritratti che, dai suoi inizi (nel 1967) e per tutti gli anni 70, caratterizzano le copertine de L’Uomo Vogue, ma Orson Welles del dicembre-gennaio 1972, elegantissimo e oscuro, è tra i miei preferiti. Negli 80, la moda cambia e plasma un nuovo lessico: tra i tanti, il buffo Ryūichi Sakamoto del gennaio 1988 è unico. Nei 90 lo styling prende piede, e ricordo la semplicità rivoluzionaria della copertina del numero di marzo 1996, allora diretto da Aldo Premoli: completi bianchi e attitude da Zoolander (film che uscirà nel 2001), fotografati da Steven Meisel, erano la cartina tornasole di un medium che infrange barriere di ogni genere. Nel nuovo millennio lo star system diventa sempre più fashion e ogni issue lo racconta, fino alla sospensione delle pubblicazioni avvenuta nel 2021.

L'Uomo Vogue, Febbraio 2020

L’Uomo Vogue è indimenticabile, inimitabile e inimitato, ha vissuto in crescendo per 54 anni e, refrattario alle logiche della turbo comunicazione, ha cristallizzato il suo messaggio potente, piuttosto che sfiorire sotto i colpi di strategie sbagliate. Pensato dal fondatore Flavio Lucchini come uno strumento di ribellione che abbracciava i fermenti intellettuali della fine degli anni 60, atti a scardinare anche il monopolio sartoriale, era bandiera del cambiamento, precursore di tendenze e un radar sul mondo, che non spiegava come vestirsi, ma come vivere. Dal 2007 per sette anni e mezzo ne sono stato vicedirettore, lavorando fianco a fianco con Franca Sozzani per generare un flusso ininterrotto di idee che dalle pagine orientava la cultura e di conseguenza la moda. «Ho tanti ricordi, ma il più eccitante riguarda gli archivi che consultavo, ero strabiliato dalla modernità fin dal numero uno. Il logo originale era cool quanto quello più recente, e anche la grafica mi ha ispirato», dice Thomas Persson, art director della testata dal 2018 al 2020. «È stato perfetto il suo saper bilanciare contemporaneità e tradizione, definire lo Zeitgeist del momento, creare incroci tra generazioni, pensieri e stili», confermano Kevin Tekinel e Charles Levai, gli art director nel 2021. Linguaggi che si evolvono con i tempi per raccontare le persone anche attraverso i vestiti. «Sulle sue copertine sono passati uomini e donne che hanno dato forma alla cultura contemporanea. Soprattutto, non scontato, era chiaro a chi parlasse e a cosa servisse», spiega Emanuele Farneti, dal 2017 al 2021 direttore anche di Vogue Italia, coadiuvato da Alan Prada, suo vicedirettore. E prosegue: «Ricordo la copertina, firmata dalla fotografa siciliana Roselena Ramistella, dedicata ai pescatori di Mazara del Vallo e al loro sforzo per salvare i migranti naufraghi nel canale di Sicilia. Era una scommessa: un magazine di moda che sconfinava nell’attualità. Ma le reazioni ricevute ci premiarono».

L'Uomo Vogue, Novembre 2019

D’altra parte chi lo conosce non dovrebbe sorprendersi, le sue pagine hanno ospitato nomi come Rubbia, Mitterrand, Pertini, Agnelli, Mandela, Murdoch, Al Gore, che non erano gente di moda, ma personalità dirompenti. Impegno e leggerezza i fattori che gli hanno permesso di coniugare politica, economia, sostenibilità con stile e moda, senza essere mai fuori luogo. «La memoria più intima mi riporta al corridoio della redazione con le foto incorniciate, quella professionale alla sensazione di appartenenza a una visione comune e alla gratitudine di farne parte», spiega Sarah Grittini, fashion editor sempre pronta a partire per i servizi più impensabili. «Franca mi diceva che “la moda non è mai una questione di moda” ed è vero, era il pretesto per raccontare il percorso dell’individuo, orientando il costume e provocando reazioni». Tutto era possibile, era un continuo alzare l’asticella in cerca di storie incredibili. «Parlare di stile maschile piuttosto che di moda gli ha permesso di avere un grande potere, e, sdrammatizzando, le cose accadevano. Per un servizio avremmo potuto spostare la Tour Eiffel e rimetterla a posto», ironizza Luca Stoppini, storico art director di Vogue Italia e L’Uomo Vogue. «È impresso nella mia mente lo shoot che feci con Steven Klein e David Bowie nel 2003. Ero emozionato perché ero di fronte a un mio mito e temevo mi deludesse come persona, invece non successe».

Quello con il fotografo Steven Klein fu il sodalizio che caratterizzò gli anni della direzione di Anna Dello Russo (2000-2006). «Quando arrivai era un’epoca pazzesca: la moda uomo guidava i trend e quasi anticipava quella femminile. Erano gli anni di Hedi Slimane, Raf Simons e Tom Ford e, da fashionista, fui felicissima», mi racconta Anna. E prosegue: «Il servizio con David Beckham fu rivoluzionario perché portammo l’idea del no-gender su quello che era uno dei simboli metrosexual del momento, lui si prestò e le foto, fortissime, sono ormai iconiche». Prima di allora il linguaggio, seppur ricercato, era stato legato a certi canoni maschili, «io sparigliai le carte, ma avevo il terrore di essere licenziata», ammette.

L'Uomo Vogue, Luglio/Agosto 2017

Così segnò un nuovo corso, dove uomini e donne prendevano parte alle storie. Non era più L’Uomo per gli uomini, ma era un luogo di racconto senza differenze di alcun tipo. Robert Rabensteiner, guru dello stile, lavorò sulla decontestualizzazione estetica rendendola il suo segno: «Franca mi disse che ero stato il primo a usare il pigiama fuori dalla camera da letto per un servizio, trasformandolo in un trend sofisticato, insieme al tuxedo in piscina o il frac in cucina», ricorda divertito. «Non dimenticherò mai Jeremy Irons che sul set mi disse che amava la mia eleganza silenziosa». Sì, perché Robert non traveste con lo styling, ma adatta la sua sensibilità alla persona che ha di fronte e così facendo ha reso il giornale inconfondibile. «Sia che si trattasse di look classici o più bold ed edgy si parlava sempre di individualità e spirito ribelle», aggiunge Rushka Bergman, eclettica fashion editor che ha realizzato servizi incredibili. Sua, tra le altre, la copertina con Michael Jackson scattato da Bruce Weber nell’ottobre 2007, quando ricorreva anche il venticinquesimo anniversario dell’album Thriller. «Discutevamo su che pettinatura fare e a un certo punto Michael disse “torno subito”, e sparì, lasciandoci in apprensione per la sua assenza. Riemerse dopo un paio d’ore con un perfetto French bob, togliendo tutti dall’imbarazzo di dover decidere». Tutto questo e molto altro poteva succedere solo a L’Uomo Vogue.