Leggere Queer, il libro che ha ispirato Luca Guadagnino, è un'esperienza quasi allucinatoria

Il romanzo di William S. Burroughs è controverso e conturbante come la storia della sua genesi
Queer di Burroughs com'è il libro che ha ispirato Guadagnino
Vera Anderson/WireImage/Getty

Queer di Burroughs, com'è il romanzo che ha ispirato il film di Guadagnino, ora alla Mostra del cinema di Venezia 2024

Luca Guadagnino aveva 17 anni quando è rimasto folgorato dalla lettura di Queer di William S. Burroughs. Ci sono voluti però decenni prima che trovasse l'occasione giusta per farne un film, affidandone la sceneggiatura al suo frequente collaboratore Justin Kuritzkes, proprio mentre i due stavano lavorando al precedente Challengers. Non c'è da stupirsi se la gestazione della pellicola, che viene presentata il 3 settembre alla Mostra del Cinema di Venezia 2024, sia durata così a lungo: Queer è un romanzo conturbante e disturbante, stratificato e sfuggente, la cui digestione da parte del lettore (e si immagina quindi anche da parte dello spettatore) richiede non poco tempo, non poco sforzo. Come spesso accade con Burroughs, la letteratura si fa impresa titanica, sprezzo del pericolo, sfida ai propri limiti.

Leggi anche: Queer, recensione del film estremo di Luca Guadagnino al Festival di Venezia 2024

Queer è il secondo romanzo di Burroughs, scritto tra il 1951 e il 1953 ma pubblicato - per evidenti motivi di oscenità e quindi di censura - solo nel 1985. Si tratta in qualche modo della continuazione della sua opera d'esordio, Junky (in italiano La scimmia sulla spalla), tanto che il protagonista è il medesimo, William Lee, specie di alter ego semiautobiografico dell'autore: se nel primo romanzo Lee è dominato dalla sua dipendenza dagli oppiacei - esattamente come Burroughs, nel secondo invece deve affrontare la disperazione dell'astinenza, ma anche del risveglio del desiderio sessuale: «Junky l'ho scritto io, ma in Queer ho l'impressione di essere stato scritto», ha confessato l'autore nella sua introduzione all'edizione 1985. La storia è ambientata in una Città del Messico colonizzata dagli expat americani, molti in fuga dalla legge degli Stati Uniti (anche qui, come lo stesso scrittore), e soprattutto pullulante di omosessuali più o meno dichiarati.

Queer di William S. Burroughs (ebook)

Lee, che nel film è interpretato da Daniel Craig, è uomo di mezza età segnato dalla vita e dall'apatia, che trascorre la vita passando da un bar malfamato all'altro, bevendo e abbandonando pasti mezzi consumati, giudicando gli altri americani e concupendo ragazzi di ogni tipo. Si invaghisce a un certo punto di un americano più giovane e scostante, Allerton (a cui dà il volto il semi-sconosciuto attore Drew Starkey), che diventa la sua ossessione tanto più irraggiungibile. Nonostante Lee si renda spesso ridicolo, riesce in qualche modo a fare breccia nell'animo di Allerton, anche se fugacemente, e i due intraprendono anche un viaggio tra i paesi dell'Amazzonia, inseguendo un'altra ossessione di Lee, quella per lo yagé o ayahuasca, radice dalle proprietà psicoattive che per l'uomo donerebbe anche la facoltà di controllare telepaticamente gli altri.

Quello del controllo, in effetti, è un tema fondamentale di Queer: Lee da parte sua deve controllare il suo desiderio di drogarsi e la sua incessante smania sessuale, anche se questo coincide con una sempre difficoltosa accettazione di sé («Non dimenticherò mai l'inenarrabile orrore che mi raggelò la linfa nelle ghiandole […] quando quella parola perniciosa lasciò un marchio a fuoco sul mio cervello vacillante: omosessuale. Ero un omosessuale»); dall'altra Allerton non tollera alcun tipo di definizione, di gabbia, di imposizione: «Come molte persone che non hanno niente da fare, si risentiva per ogni pretesa sul suo tempo. Non aveva amici intimi. Non gli piaceva avere impegni fissi. Non gli piaceva avere l'impressione che qualcuno si aspettasse qualcosa da lui». Ma chi deve esercitare più di tutti un controllo sfinente ma impossibile su di sé è il medesimo Burroughs.

Luca Guadagnino alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2023Stephane Cardinale - Corbis/Getty Images
William Burroughs ritratto a Londra nel 1970Gijsbert Hanekroot/Redferns/Getty Images

La genesi stessa di Queer è del tutto tragica, scandalosa: minato nella salute mentale eppure inserito in quel fulgido circolo rivoluzionario che sarà la Beat Generation già dipendente dalle droghe, ricercato negli Stati Uniti per possesso di armi e stupefacenti, Burroughs si trasferisce (o, per meglio dire, fugge) a Città del Messico nel 1950 con la seconda moglie Joan Vollmer. Nel settembre 1951 avviene però un fatto irreparabile: entrambi drogati e ubriachi, Burroughs e Vollmer inscenano un siparietto «alla Guglielmo Tell», con la donna che si mette un bicchiere in equilibrio sul capo e lui che spara colpendola però alla testa, causandone la morte istantanea; versioni successive parleranno di un colpo partito per sbaglio, sta di fatto che Burroughs sfugge alla prigione solo grazie a generose mazzette alla polizia messicana. L'episodio fu però per lui una specie di perversa epifania creativa: «Sono giunto alla tremenda conclusione che non sarei mai diventato uno scrittore se non per via della morte di Joan», scrisse sempre nel 1985.

Queer è anche stilisticamente lo specchio di questo contesto controverso, febbrile e sostanzialmente immorale. La prima impressione è quella di un racconto realistico, con l'occhio del narratore (inaffidabile, come sempre in Burroughs) che si sposta incessante da un luogo all'altro della città, che concentra lo sguardo e le sferzanti opinioni prima su quello e poi su quell'altro individuo, che affastella aneddoti, episodi, innumerevoli drink. Ci vuole poco a capire che l'allucinazione stupefacente e lo struggimento erotico trasfigurano qualsiasi cosa, trasformando ogni esperienza in un labirinto inestricabile, quasi come la foresta amazzonica in cui a un certo punto i due protagonista si addentrano, al solito riluttanti, mai del tutto convinti. Per fare colpo, Lee spesso si lancia nel racconto di episodi assolutamente slegati dalla realtà che lo circonda, in un'incontinenza verbale che è anche etica, sessuale, vitale (a proposito di creazione incontenibile, pare che il cut originale di Guadagnino fosse di oltre tre ore, ma non stupisce di fronte a un'opera così difficilmente imbrigliabile).

Una scena dal film Queer di Guadagnino

È quasi impossibile scindere la fruizione di questa storia (e, s'immagina, anche il film che Guadagnino con la sua usuale empatia totalizzante ne ha tratto) dalle vicende biografiche di uno scrittore geniale e ferale come William S. Burroughs. Lo stesso autore in quegli anni di composizione viveva una contraddizione insanabile: «Aveva un aspetto feroce, però gli occhi erano innocenti, azzurri e bellissimi», lo descriveva l'amico Jack Kerouak in visita in Messico. Mai così acceso e vitale nella scrittura, Burroughs dovette affrontare uno a uno i suoi demoni più terrificanti, tanto che non riuscì appunto a riaprire quel manoscritto se non decenni dopo. Tutto è labile, in Queer, dal giudizio morale al rapporto con la realtà, dalla descrizione dei cliché omosessuali alla resa di terre esotiche, magiche, umanissime: «Il Messico è sinistro, tetro e caotico, quel particolare caos che c'è nei sogni», scriveva sempre Burroughs a Kerouac. Più che un sogno Queer è un incubo, che a distanza di oltre mezzo secolo non riusciamo però a giudicare ancora del tutto lucidamente. Forse perché ci siamo dentro e non ne siamo ancora del tutto usciti.

Leggi anche:

Vuoi ricevere tutto il meglio di Vogue Italia nella tua casella di posta ogni giorno?