Ricordando Kobe Bryant: il servizio dell'Uomo Vogue

Grazie a lui un'intera generazione di bambini italiani ha imparato ad amare la pallacanestro. Il grande campione di basket, morto il 26 gennaio con la figlia Gianna in un incidente di elicottero, è stato il protagonista di un servizio dell'Uomo Vogue dell'ottobre 2009 che vi riproponiamo per ricordarlo. Ecco l'intervista di Andrea Corti e le foto di Mark Seliger
Ricordando Kobe Bryant il servizio dell'Uomo Vogue

«If you don’t believe in yourself, nobody else will». Se non credi in te stesso, scordati che qualcun altro lo faccia per te. Parola di Kobe. Bryant è questo. Non è solo uno dei migliori giocatori di basket di tutti i tempi, è un cocktail perfettamente equilibrato di determinazione, ego e pragmatismo. D’altronde era già speciale ancor prima di nascere. Joseph “Joe” Washington e Pamela, i genitori, si trovavano in un ristorante a Philadelphia quando la madre confidò di essere in dolce attesa. Il padre, entusiasta, diede al figlio il nome della fantastica bistecca che stava mangiando quella sera. Il manzo Kobe, prodotto da capi purosangue Wagyu, può costare fino a mille euro al chilo ed è considerato dagli esperti il meglio al mondo. Con quest’augurio pochi mesi dopo, il 23 agosto del 1978, in una sala parto di un ospedale in Pennsylvania, la futura leggenda dei Los Angeles Lakers fa il suo debutto ufficiale. Non sa ancora che, nel giro di pochi anni, l’Italia entrerà a far parte della sua vita. È il 1984 quando papà Joe (“Jelly Bean” per gli amici), campione di pallacanestro, dopo otto stagioni di militanza nella NBA, decide di lasciare la Lega professionistica americana per giocare nel Bel Paese. Prima tappa Rieti, poi Reggio Calabria, Pistoia e Reggiana; un tour lungo sette anni.

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Kobe ne ha solo sei quando sbarca nella cittadina laziale, ma impara subito la lingua. E bene, tanto che ancora oggi il suo italiano è ottimo, con una simpatica cadenza romanesca. Come tutti i bambini italiani, lo spediscono subito a giocare a calcio (tifa Milan e Barcellona, ed è amico di Beckham, ndr) ma con scarso successo. «Già, mi mettevano sempre in porta e in effetti non ero questa grande promessa…». Poi qualcuno guarda giù, si accorge della terribile gaffe sportiva e corre ai ripari. Il piccolo Bryant passa al pallone a spicchi, ed è un crescendo che non conoscerà sosta. Quando nel 1992 torna negli Usa ormai ha 14 anni. Non è più tempo di replicare sui campetti quelle azioni viste infinite volte in videocassetta nei Lakers Showtime di Earvin “Magic” Johnson e Kareem Abdul-Jabbar. Ora si fa sul serio. Quando fa il suo ingresso al liceo, la High School di Lower Marion, Pennsylvania, quasi nessuno scommette su di lui. Da noi Kobe passava più tempo sui libri, quindi ad allenare la testa, piuttosto che a farsi le ossa in palestra, come i suoi coetanei americani. E i risultati si vedono ancora oggi: difficile che dalla sua bocca escano parole banali.

L'Uomo Vogue ottobre 2009

Da adolescente lavora duro, smentisce tutti e macina record su record. Le leggende narrano che in alcune partite facesse volutamente recuperare punti agli avversari, per poi decidere il game da solo nell’ultimo quarto. Di vero c’è che vince tutto il possibile, per cui decide di saltare a piè pari il college e passare direttamente fra i professionisti. Al draft del 1996 è la tredicesima scelta assoluta: tocca agli Hornets di Charlotte, che però lo girano subito a Los Angeles in cambio del pivot serbo Vlade Divac. Bryant diventa il più giovane a debuttare nell’Nba (a 18 anni, 2 mesi e 11 giorni), ma spesso resta seduto in panchina a guardare gli altri. Nel 1999 su quella panchina si siede anche Phil Jackson, da allenatore. È la svolta. Il “coach zen”, artefice dei trionfi dei Chicago Bulls di Michael Jordan e Scottie Pippen, vuole concedere il bis. Prende Kobe, gli somma Shaquille O’Neal e crea la nuova coppia più bella del mondo. Il resto è storia: tre titoli di campioni Nba in tre anni, dal 2000 al 2002. Poi una pausa nella striscia di successi. Kobe non è un tipo scaramantico (unico vezzo, si scuote la maglietta all’altezza del petto prima di ogni tiro libero), ma decide di cambiare il numero della maglia gialloviola da 8 a 24. Nel 2008 la beffa dagli eterni rivali di Boston.

Quest’anno la rivincita: per la sfida del secolo, non ci sono i Celtics, né gli strafavoriti Cleveland Cavaliers di Lebron James, il Predestinato, bensì la sorpresa Orlando Magic, poco fumo e tanto arrosto. Travolti. E il quarto anello che Kobe si mette al dito (e che incorona i campioni NBA, un vezzo a stelle e strisce che rimpiazza le più ordinarie coppe “con le orecchie” tanto care a noi europei) è quello assaporato più a lungo. Nei momenti clou, Bryant conferma il suo soprannome di “Black Mamba”, il serpente africano più veloce e aggressivo al mondo. Black Mamba è anche il nome della nuova collezione di orologi da polso che Kobe ha lanciato in partnership con il produttore svizzero Nubeo, di Basilea. Esemplari a tiratura limitata, con prezzi che oscillano dai 20 mila dollari della versione basic fino ai 500 mila dei modelli extralusso, tempestati di zaffiri gialli e neri. Un’avventura nuova per la “guardia” dei Lakers: non semplice testimonial, ha curato tutto il ciclo di vita dell’orologio. «Con Nubeo abbiamo lavorato insieme affinché ogni piccolo dettaglio, dal design alla scelta dei materiali, rispecchiasse i miei gusti e l’anima stessa del basket». Gli stessi nomi dei modelli rispecchiano i suoi exploit cestistici : l’“81”, per esempio, rievoca il record di punti segnati nel corso di un solo match, il 22 gennaio 2006, contro i Toronto Raptors. Un progetto che l’ha affascinato e che potrebbe ripetere, «magari con Nike, su un nuovo paio di scarpe». Di certo non lo entusiasma l’idea di restare al basket una volta lasciato l’agonismo: «Io allenatore? No, no per carità», ride. «Non ne avrei la pazienza. Quando dirò addio, sarà per sempre». Non si riciclerà nemmeno nel cinema. «Se ho mai pensato di fare l’attore? No, la recitazione non fa per me. Ma i film sono una mia passione». Papà Joe quest’anno è di nuovo a Rieti come coach della Sebastiani. Un “ritorno a casa” che per Bryant ha un sapore che va oltre lo sport. «È una cosa stupenda. Sono emozionato io per lui. Una nuova avventura in una città con la quale abbiamo un legame speciale». Se gli si chiede cosa gli è rimasto nel cuore del suo passato tricolore, ti prende in contropiede: «Mi è rimasta la passione. La passione per la vita». Non che disdegni i ricordi della buona tavola, tutt’altro: «La pasta alla carbonara è il top. Ma anche la cotoletta la metterei ai primi posti in classifica». Per non parlare dell’abbigliamento: sembra sempre a suo agio, sia in tuta sia in gessato, «con una predilezione per gli abiti di Gucci».

Kobe Bryant

Ama la buona musica. «Se devo citare qualcuno dico Jay Z o Kanye West. Michael Jackson? Lui era di più, un vero amico». Alla cerimonia funebre proiettata in mondovisione dallo Staples Center di Los Angeles, era nelle prime file. «Non era solo un genio. Era soprattutto una brava persona, che ha dato tanto. Trasmetteva valori, ti spingeva a migliorarti sempre. Era molto più profondo e genuino di quello che la gente potesse percepire. Troppe volte non è stato capito». Nell’orazione, Magic Johnson ha ricordato come Jacko abbia fatto molto per gli afroamericani. Barack Obama potrà demolire il razzismo? «Lo spero, ma è difficile. Di certo non si risparmierà nel combatterlo; è una questione culturale non facile da sradicare. In Italia non l’ho avvertito, ma sono stato fortunato. È assurdo che oggi ci sia ancora chi pensa che conti il colore della pelle, e non chi sei davvero».