Il quitting è il nuovo femminismo?

Dopo anni in cui abbiamo inseguito la carriera e poi cercato di “avere tutto” ora in tante stiamo lasciando il lavoro per tornare a casa ad accudire la famiglia: cosa sta succedendo? 
maternità
Courtesy of Lisa Sorgini

L'emancipazione delle donne è fare carriera, fare tutto o tornare a prendersi cura, se se ne ha voglia?

La disegnatrice del New Yorker Liana Finck – famosa per i suoi grafici su maternità, lavoro e senso di colpa – schematizzerebbe la storia delle donne come un circolo vizioso che va dallo stare in casa coi figli degli anni Cinquanta, al lavorare trascurandoli degli anni Settanta, al far carriera essendo madri perfette degli anni Duemila, fino all’odierno dimettersi per tornare al punto di partenza, ossia in casa coi figli.

La scelta di molti, uomini e donne, dopo la pandemia

Si è già parlato di come la pandemia abbia risvegliato in molti il bisogno di dare cura, o per dirla all’americana, di generativity: quel sentirsi realizzati accudendo i figli, gli animali, le piante, e insomma gettando semi per le nuove generazioni o per il futuro. È uno dei sentimenti alla base delle great resignation, la grande ondata internazionale di licenziamenti seguita ai lockdown del 2020 e '21, in favore di fughe in mezzo alla natura e orari più flessibili. Così, tante manager che non avevano mai visto in faccia i dentisti dei propri figli hanno potuto convertirsi a uno smart working fanatico quanto lo era stato il loro fervore aziendale, e nutrire profili Instagram con foto di laptop in riva al mare. Fin quando sono le vicine di casa ad avviare attività freelance compatibili con l’accudimento, si può imputare tutto al solito welfare, ma quando sono donne con intere équipe di puericultrici a disposizione, bisogna scomodare altre ipotesi e categorie.

Tre casi importanti

Negli ultimi mesi, sono state proprio due prime ministre che avevano gestito con nerbo le crisi nei rispettivi paesi, la neozelandese Jacinda Ardern e la scozzese Nicola Sturgeon, a passare da un eccesso all’altro, ovvero da un’idea surreale di onnipotenza a una più realistica di sopraffazione.

La prima, che aveva messo in piedi i protocolli anti-covid più severi al mondo mentre la sua bebè dal nome maori succhiava il latte scongelato (e noi ci lamentavamo dei nidi chiusi), oggi, dopo una dichiarazione che mette al centro la famosa mental health e il desiderio di famiglia, è stata acclamata leader anche nelle dimissioni, in quanto prima di una serie di grandi donne a mollare una dopo l’altra. 

La seconda non ha figli, ma a ben vedere sembra che la vera causa del suo tracollo personale non sia né la mancata approvazione da parte della Corte Suprema del referendum sulla secessione scozzese, né le polemiche causate dalla sua riforma che consente di cambiare genere a 16 anni. No, Nicola ha capito che ne aveva fin sopra i capelli al funerale di un fraterno amico, e ha lasciato la politica con la scusa più moderna che non ti lascia il tempo – non dico per i figli – ma neanche per i caffè con gli amici. 

Pochi giorni dopo Nicola, ha lasciato il suo posto di amministratore delegato di YouTube dopo 9 anni Susan Wojcicki, una delle donne più affermate della Silicon Valley, abbastanza folle non solo da affittare a Brin e Page il famoso garage dove nacque il motore di ricerca che avrebbe cambiato la storia, ma anche da fare cinque figli mentre scalava Google, e che il mese scorso ha «deciso di iniziare un nuovo capitolo incentrato sulla sua famiglia, la sua salute e i progetti che la appassionano» (e che, suppongo, non si svolgono in garage).

Artiste e cattive madri

Non è solo nel giro del tech e del potere, per antonomasia maschilisti, che la società contemporanea finge di poter includere donne che in realtà sono überdonne: il mondo dell’arte ha meccanismi molto simili, con la tacita aspettativa che le artiste conducano vite intense, notturne e svincolate, per inseguire, a seconda, i ritmi dell’ispirazione, il tempo libero dei pubblici, le intense relazioni col resto dell’industria culturale o la promozione gratuita. Marina Abramovic ha dichiarato l’impossibilità di essere artisti e madri, e da sempre, le scrittrici sono note madri degeneri. 

La poetessa russa Marina Cvetaeva lasciò la figlia minore morire di stenti in un orfanotrofio, preferendo a lei la figlia geniale, con la quale affrescava di versi una misera mansarda gelata (anche qui, niente welfare). Alice Munro spostava le bambine imploranti perché non cozzassero sul rullo in movimento della macchina da scrivere, e febbrilmente scriveva la notte temendo di morirne. Tutt’oggi, le scrittrici, tranne rare eccezioni, come Rachel Cusk, non sono alla ricerca di un assetto sociale entro il quale poter accordare le due pulsioni di creare e procreare. Piuttosto, sono infervorate nel ribadire la loro libertà di non diventare madri, così sbandierata da sembrare ormai noiosa. Abbiamo capito: le artiste (le premier, le CEO) non possono far bene anche le madri

Liana Finck

E chi vuole fare la madre?

Ma parliamo di questo: se invece lo volessero fare, quali sono i meccanismi sociali da scardinare Si è detto, tornando alle donne al comando, che hanno dalla loro parte il vantaggio tutto femminile di avere un attaccamento al potere più sano degli uomini, e di poter perciò mollare in qualsiasi momento. Sì. Ma fino a quando sono rimaste a bordo, vuol dire che hanno giocato, in un certo senso, alle regole maschili?

È allora, quello del quitting, un altro modo di essere femministe, dopo la donna che si emancipava anteponendo la carriera alla famiglia, e quella che sperava di avere capra e cavoli, incarnando un modello di efficienza irraggiungibile? 

Non è proprio un’idea nuovissima. Già nel 1983, al discorso di laurea del Mills College, la scrittrice di fantascienza Ursula K. Le Guin diceva che i discorsi di laurea di solito 

«vengono fatti con il tacito accordo che chiunque si stia per diplomare sia un uomo, o comunque dovrebbe esserlo. […] La tradizione intellettuale è maschile. Il discorso pubblico è fatto nella […] lingua degli uomini. Naturalmente le donne la imparano. Non siamo stupide. […] Abbiamo avuto fin troppe parole del potere e discorsi sulla vita come battaglia. Forse quello che ci manca sono le parole della debolezza. Adesso, invece di augurarvi che possiate proseguire da questa torre d’avorio del college verso il Mondo Reale, crearvi una carriera fatta di trionfi […] sostenere il nostro paese affinché resti potente e avere successo sotto ogni aspetto possibile […] ciò che vi auguro è che siate in grado di sopravvivere […] nei luoghi oscuri. […] E quando fallirete, e vi sentirete sconfitte […] allora spero che ricordiate che l’oscurità è il vostro paese […] dove non ci sono guerre da combattere né da vincere, ma dove esiste il futuro […], dove gli esseri umani coltivano anime umane».

Liana Finck

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