Cinema

Elizabeth Taylor: i migliori 15 film della diva dagli occhi viola

La ricordiamo attraverso 15 film, in un viaggio (1944-1994) lungo mezzo secolo
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Bettmann

La luce e il buio, la gioia e il dolore, la gloria e il fallimento. C’era tutto questo negli occhi di Elizabeth Taylor, una delle più grandi stelle della storia del cinema da molti considerata come “la migliore in assoluto.  Diva indiscussa dell’era d’oro di Hollywood – fra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento fu l’attrice più amata, cercata (e pagata!) – “Liz” vinse tre volte l’Oscar: due come Miglior attrice protagonista (in Venere in visone, 1961, e Chi ha paura di Virginia Woolf?, 1967) e, ormai a fine carriera, per la sua attività di beneficenza per la lotta contro l’AIDS (nel 1993 le fu conferito il Premio umanitario intitolato a Jean Hersholt). Un riconoscimento, quest’ultimo, che ha premiato la sua profonda umanità. 

Nata a Londra 90 anni fa (27 febbraio 1932) Elizabeth è stata infatti un’anima sensibile, nonostante il lusso, il glamour, il successo e i suoi costosissimi gioielli. In quegli occhi, profondi, risplendeva la sua bellezza e la sua bravura. Una passione, quella per il mondo dello spettacolo, ereditata geneticamente – sua madre fu anch’essa un’attrice, nota con il nome d’arte Sara Sothern – e scoperta già in tenera età. A soli tre anni iniziò a prendere lezioni di ballo e a nove debuttò al cinema con il suo primo film There's one born every minute (1941, regia di Harold Young). La fama non tardò ad arrivare: a 11 anni, eccola nel celeberrimo Torna a casa, Lassie! (1943, di Fred M. Wilcox): il mondo si accorse di lei e non la dimenticò più.

Nonostante i primi riscontri positivi, la Taylor arrivò anche a voler rinunciare ad una carriera da star per restare una semplice adolescente, felice di vivere anche lontana dalle luci dei riflettori. Fu sua madre a spingerla (o meglio, a costringerla) a non abbandonare la recitazione (famose le sue parole: “tu hai una responsabilità, Elizabeth. Non soltanto con questa famiglia, ma con il paese adesso, con il mondo intero”). Così Liz diventò ciò che “doveva” diventare: l’attrice, la stella, la diva. Anche a costo altissimo: sul set rischiò seriamente di morire almeno due volte e, nella sua vita “privata”, ebbe una vita sentimentale molto travagliata (si sposò otto volte!). Sopravvissuta a un'operazione per la rimozione di un tumore benigno al cervello, un cancro alla pelle e a due polmoniti, la Taylor si rialzò sempre, nonostante tutto, fino alla scomparsa (23 marzo 2011), da tempo malata di un cuore ormai troppo stanco.

Questi 15 film rappresentano un viaggio (1944-1994) lungo mezzo secolo dedicato alla diva dagli occhi viola, Elizabeth Taylor.

Gran Premio di Clarence Brown (1944)

Fu in questo film – nei panni di Velvet Brown, una bambina che allena un cavallo per vincere l'Aintree Grand National – che la giovanissima Elizabeth fu definita una “bambina prodigio” facendo capire alla critica ed al pubblico (che si innamorò di questa storia, gli incassi superarono i 4 milioni di dollari al box office) che era una predestinata. Una soddisfazione che, però, si mescolò al dramma: fu durante le riprese che cadde da cavallo rimanendo vittima di segni profondi, non solo alla colonna vertebrale (per tutta la vita soffrì di lancinanti mal di schiena) ma anche polmonari (diverse volte soffrì, quasi mortalmente, di polmoniti violente).

Gran Premio

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Alto tradimento di Victor Saville (1949)

Ormai cresciuta, nel 1949 - dopo aver interpretato Amy March nel Piccole donne (1949) di Mervyn LeRoy – Elizabeth raggiunse la sua Inghilterra per questa pellicola che, nonostante il fallimento al botteghino, consacrò il suo talento. Qui interpreta per la prima volta un ruolo maturo, ovvero una debuttante ventunenne che sposa inconsapevolmente una spia comunista (Robert Taylor). Nonostante la differenza d’età (lei in realtà di anni ne aveva 17), la critica l’apprezzò: la bambina era già diventata donna.

Alto tradimento

United Archives

Il padre della sposa di Vincente Minnelli (1950)

Il suo primo grande successo arrivò l’anno seguente in questa commedia classica dove, affiancata da Spencer Tracy e Joan Bennett, vestì i panni della futura sposa Kay Banks (in italiano, “Carla”), esattamente in un abito realizzato da Helen Rose (che nel 1956 disegnò l’abito nuziale di Grace Kelly). Questa volta il successo arrivò anche per il film (il riscontro fu talmente positivo che l’anno dopo, venne realizzato il sequel Papà diventa nonno, sempre con la regia di Minnelli).  

Il padre della sposa

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Un posto al sole di George Stevens (1951)

Sempre del 1951 fu la sua prima grande prova drammatica nel ruolo di Angela Vickers, una ragazza ricca e viziata che nella storia mina il rapporto tra George (Montgomery Clift) e la sua fidanzata in dolce attesa (una povera operaia, interpretata da Shelley Winters). La pellicola, tratta dal romanzo Una tragedia americana di Theodore Dreiser, costituì un atto di accusa al "sogno americano" e alle sue influenze sulla società. Un valore intrinseco dell’opera che valorizzò ulteriormente la (bravura e la bellezza della) Taylor: è qui che la sua carriera svoltò davvero. 

Un posto al sole 

Herbert Dorfman

L'ultima volta che vidi Parigi di Richard Brooks (1954)

Dopo una serie di film per lei “frustranti” (le affidarono ruoli di non suo gradimento), la Taylor tornò qui a brillare nella complessa parte di Helen Ellswirth, un personaggio basato sulla figura di Zelda Sayre Fitzgerald, una giornalista e scrittrice dalla vita spregiudicata e tragica. Nel film, tratto dal racconto Babylon Revisited di Francis Scott Fitzgerald, la vedremo disperata in abito da sera, sola, sotto la neve (morirà poi di polmonite). Sembra un momento, non volutamente, autobiografico.

L'ultima volta che vidi Parigi 

United Archives

Il gigante di George Stevens (1956)

Basato sull’omonimo romanzo di Edna Ferber (1949), in questo epico film di George Stevens, è lei l’indimenticabile protagonista femminile accanto a Rock Hudson (sul set nacque la loro amicizia, durata sino alla morte di lui e James Dean (qui al suo ultimo film, prima della tragica scomparsa). La sua Leslie è una ragazza dell’alta società proveniente dal Maryland che sposa un allevatore di bestiame (Hudson) ma che, grazie al suo temperamento forte e ribelle, fa perdere la testa a Jett (Dean).  Quando la vediamo a cavallo, Elizabeth qui è davvero bellissima.

Il gigante

Donaldson Collection

L'albero della vita di Edward Dmytryk (1957) 

In questo dramma in costume (ambientato nel 1862 e tratto dal romanzo Raintree County di Ross Lockridge, pubblicato nel 1948), la Taylor lasciò il segno non solo come attrice – guadagnandosi la prima nomination all’Oscar da Protagonista – ma soprattutto come angelo custode del collega Montgomery Clift che, durante le riprese, rimase gravemente coinvolto in un incidente stradale (che lo sfigurò per sempre, condizionandogli il resto della carriera). Fu lei a salvargli la vita evitandogli di soffocare. Se nel film, tra i due nasceva un’appassionata storia d’amore, nella vita, quell’incidente rappresentò per entrambi un momento incancellabile.

L'albero della vita

Bettmann

La gatta sul tetto che scotta di Richard Brooks (1958, da Tennessee Williams)

Nuovo film, nuova nomination all’Academy, sempre come interprete principale. In questa opera, tratta dall’omonimo dramma teatrale di Tennessee Williams, lei è Margaret, soprannominata "Maggie la Gatta". È l’infelice moglie di Brick (Paul Newman), uno sportivo in crisi per non aver saputo salvare dal suicidio il suo migliore amico (di cui era innamorato: il film, però, soppresse il tema dell’omosessualità, all’epoca considerato ancora troppo sconveniente da trattare al cinema). Ancora una volta lo splendido guardaroba della Taylor, qui più che mai bella e appassionata, è ad opera di Helen Rose.

La gatta sul tetto che scotta

Bettmann

Improvvisamente l'estate scorsa di Joseph L. Mankiewicz (1959)

Un anno dopo – sempre dalla penna di Tennessee Williams – il tema dell’omosessualità ritornò, appena sfiorato (ma chiaro) in questo film che ruota attorno ad uno scandalo familiare. Liz è Catharine, una donna che, sostenuta dal suo medico (ancora una volta, Montgomery Clift), è in continua lotta con la zia (Katharine Hepburn) che intende sottoporla a lobotomia per tacere l’orientamento sessuale di un parente. Intensa e sensualissima (indimenticabile la sequenza in mare, con il costume bagnato che lascia poco spazio alla fantasia sulle sue forme), questa performance le regalò la terza candidatura all’Oscar come Miglior attrice protagonista.

Improvvisamente l'estate scorsa

George Rinhart

Venere in visone di Daniel Mann (1961) 

Alla quarta nomination di fila, finalmente, l’Oscar arrivò per questo controverso film drammatico – un melodramma tratto dall'omonimo romanzo del 1935 di John O'Hara - che la vide nei panni di una modella di New York che ben presto diventa una prostituta (che tenterà di riconquistare il suo primo amore, ormai sposato, interpretato da Laurence Harvey). Ormai diventata una diva viziata (tutti i produttori erano disposti a fare follie pur di averla come protagonista: in questo caso pretese nel cast il suo quarto marito Eddie Fisher, nonché, sul set, la presenza del suo truccatore personale e ovviamente di Helen Rose, la sua costumista preferita), la Taylor disprezzò fortemente sia il film (lo considerò di cattivo gusto) che il suo personaggio (che definì “stupido e immorale”). Subito dopo le riprese si ammalò gravemente di polmonite e rischiò di morire. L’Oscar – molti lo pensarono e lo sostennero – le venne conferito solo per compassione.

Venere in visone

Archive Photos

Cleopatra di Joseph L. Mankiewicz (1963)

Fu uno dei più clamorosi flop di sempre della storia del cinema. Una produzione da 44 milioni di dollari (mai recuperati dal box office) che fece quasi fallire la 20th Century Fox. Elizabeth, per interpretare la regina Cleopatra, che dà il titolo al film, nel 1960 firmò un contratto da un milione di dollari (a fine riprese, ne incassò 7!): mai nessuno guadagnò così tanto. Era lei la voce principale delle spese, anche perché fu per lei – che fu colpita da polmonite (al punto che le fu praticata una tracheotomia) – che il set, iniziato nel ’60, venne spostato da Londra a Roma (ricostruito a Cinecittà). Sul set conobbe Richard Burton (impegnato nel ruolo di Marco Antonio): i due, già sposati, si innamorarono e formarono una delle coppie più chiacchierate dai media e più ricercate dai produttori (nel 1964 convolarono a nozze). 

Cleopatra

Silver Screen Collection

Chi ha paura di Virginia Woolf? di Mike Nichols (1966)

Martha, una donna alcolizzata e isterica, che affronta una grave crisi coniugale con il marito George (interpretato dal suo Richard Burton) è il personaggio che le regalò il secondo ed ultimo Oscar come Miglior attrice protagonista. Per lei questo film rappresentò la grande e tanto attesa occasione di lasciarsi alle spalle l'immagine da diva per misurarsi con un personaggio inedito, una donna di mezza età sciatta e irascibile, che si batte per salvare il proprio matrimonio. Per invecchiarsi (Martha doveva avere almeno 20 anni più di lei) si trasformò: ingrassò, si tinse i capelli di grigio e adottò un trucco che le segnasse appesantisse il volto. Dopo il tonfo di Cleopatra, Elizabeth riprese in mano la sua carriera dando il via ad una nuova fase recitativa, a caccia di ruoli di donne combattive e irrequiete: proprio come lei.

Chi ha paura di Virginia Woolf?

George Rinhart

La bisbetica domata di Franco Zeffirelli (1967) 

La coppia d’oro Taylor-Burton – nei panni di Caterina e Petrucchio – fu diretta anche dal nostro Franco Zeffirelli in questa pellicola che riadattò l’omonima commedia shakespeariana per il grande schermo, rinverdendo il successo internazionale dei due attori. Il regista (che nel 1988 la diresse nuovamente – questa volta nella parte della cantante lirica Nadina Bulichoff – ne Il giovane Toscanini), inizialmente voleva Sophia Loren e Marcello Mastroianni, ma fu ben contento di aver diretto i due divi regalando al pubblico un film amatissimo (il budget di partenza raddoppiò con gli incassi, soprattutto grazie al mercato statunitense). Da ricordare, nel monologo finale, l'abito indossato da Elizabeth, ispirato al quadro Lucrezia di Lorenzo Lotto. Durante le riprese venne a sapere della morte di Montgomery Clift, un lutto che la segnò profondamente. Con la fine degli anni Sessanta, e poi per tutti gli anni Settanta, il fascino della Taylor calò irrimediabilmente: la sua parabola discendente era iniziata. 

La bisbetica domata

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Assassinio allo specchio di Guy Hamilton (1980)

Giallo tratto dall’omonimo un romanzo di Agatha Christie, nella parte di Marina Gregg, una celebre attrice americana minacciata in un paesino inglese negli anni cinquanta, Elizabeth Taylor diede un valido contributo artistico e personale alla fortunata riuscita di questo film (che può essere considerato l’ultimo “successo” della sua carriera) che la vide al fianco di Rock Hudson, Angela Lansbury, Tony Curtis, Kim Novak, Geraldine Chaplin e un giovanissimo (e allora sconosciuto) Pierce Brosnan.  

Assassinio allo specchio

I Flintstones di Brian Levant (1994)

Cinquant’anni dopo Gran Premio, Elizabeth Taylor regalò al pubblico questa sua ultima interpretazione cinematografica, nel live-action tratto dalla serie animata Gli antenati. Con ironia e immutato fascino, vestì i panni di Perla Slaghoople, la madre di Wilma (Elizabeth Perkins), nonché invadente suocera di Fred (John Goodman). Non recitò più, sempre più provata nel fisico. Questo fu il suo addio, con un sorriso. E con quei due occhi che specchiavano così bene la sua anima.