«Ho partecipato a un esperimento sociale che insegna agli umani a imitare le formiche. Ecco che cosa mi è successo»

Imparare a convivere e stare al mondo dagli insetti eusociali, come le formiche? Si può, ripartendo dalla sorellanza, modello usuale ai tempi delle società arcaiche matrilineari. Un’artista ha deciso di provarci, riproponendolo oggi, in questa società ancora intrisa di individualismo. Esperimento riuscito? Ecco il racconto
Progetto Alcina
Sono stati gli oltre 15 anni di ricerca sull’intelligenza collettiva degli insetti eusociali dell'artista e docente all’Accademia di Belle Arti di Roma Luana Perilli, a portare me e altre donne tra i monti del Parco Naturale Regionale Sirente Velino, nell’Abruzzo più selvaggio, al confine con il Lazio, per un progetto molto speciale

«Vivere come delle bestie» in italiano ha un’accezione negativa. Derivante dalla citazione dantesca «Fatti non foste a viver come bruti», indica la nostra natura umana, ma di esseri senzienti, quindi dotati di intelletto e ragione. E se qualcosa fosse andato storto in questo modo di stare al mondo? Se invece vivere come gli animali fosse la risposta, il modello cui tornare per ritrovare un’umanità più attenta e collaborativa?

È questa la domanda di fondo che muove da sempre il lavoro di Luana Perilli, docente all’Accademia di Belle Arti di Roma e artista che cerca di investigare con le sue opere d’arte e i suoi progetti la relazione che esiste tra l’individuo e la società, la natura e la cultura, muovendo i passi dalla Storia e dalle storie, dalle tradizioni tramandate e ripescate dalla memoria, dagli studi di sociobiologia.

E sono stati proprio i suoi oltre 15 anni di ricerca sull’intelligenza collettiva degli insetti eusociali a portare me e altre donne tra i monti del Parco Naturale Regionale Sirente Velino, nell’Abruzzo più selvaggio, al confine con il Lazio. Sono stata richiamata come un’ape al miele da questo invito del tutto particolare: provare a creare una microcomunità temporanea fatta di sole donne, a contatto per la maggior parte del tempo, rivivendo l’antico modo di stare al mondo delle nostre antenate più ancestrali, coloro che animavano e sostenevano con il loro sapere le cosiddette società matrilineari, ovvero incentrate su una condivisione dei saperi e dell’accudimento squisitamente femminile.

L’ispirazione? Le formiche, animali da sempre organizzati in comunità di vere e proprie «sorelle», esemplari che tra loro si supportano per la sopravvivenza, arrivando anche a sviluppare due stomaci, uno per sé e uno per la sorella in difficoltà. Lavorando incessantemente per il bene di se stesse, in primis, e del formicaio, poi, creano quello che in sociobiologia viene chiamato Superorganismo, un’entità a se stante, fatta di migliaia di formiche in empatica cooperazione tra di loro.

Già da un po’ nella vita, sto piacevolmente sperimentando sulla mia pelle, che la sorellanza, ovvero quel legame che si crea tra donne non necessariamente basato sulla discendenza di sangue, è una delle forze più potenti che esistano. Siamo naturalmente portate all’ascolto, all’accoglienza, all’accudimento incondizionato, alla condivisione, all’intuizione empatica, all’emotività senza filtri, e questo ci rende esseri capaci di stare nel mondo con più naturalezza, anime a contatto con la natura, capaci di saperla comprendere nella sua essenza più vera. Che sia per questo che nei secoli abbiano provato a dividerci, instillando il senso di inferiorità, di dipendenza, di debolezza?

Partecipo a questo progetto con molta curiosità, sicura che sapremo da subito creare una vera e propria magia tra noi, come da sempre mi è capitato. Il nome già mi stimola e mi ispira: il progetto è intitolato ad Alcina, la maga raccontata dall’omonima opera di Händel del 1735, che trasforma le persone in animali, pietre e piante e regna sulla sua isola insieme a Morgana, altra maga, in un contesto di creature non umane in grado di parlare.

Arrivo a Fontecchio, piccolo comune di nemmeno 300 abitanti, a 20 km da L’Aquila, in un caldo pomeriggio d’estate, e il ritrovo è in biblioteca, dove ad accogliere me e le altre partecipanti vi è Valeria Pica, curatrice del progetto e presidentessa dell’associazione Harp, nonché assessore alla Cultura del Comune di Fontecchio. È la prima occasione per guardare negli occhi le altre donne che parteciperanno al progetto: siamo una ventina, di diverse età, alcune artiste a loro volta, altre studentesse, la più piccola ha soli 5 mesi ed è allattata al seno da sua madre Nicole, allieva e collaboratrice di Luana Perilli. Oltre a noi adulte e alla piccola lattante, vi sono quattro bambine, figlie delle partecipanti, che a loro volta creano sin da subito una loro microcomunità. Mi stupisce sempre la velocità con cui i fanciulli riescano a creare quei mondi ideali a cui noi adulti tendiamo ma sulla cui strada per realizzarli ci perdiamo da sempre. Tra di noi ci sono le «esperte», chiamate a creare la nostra comunità educata ed educante, che ci trasmetteranno i saperi antichi, di cui non vi è traccia scritta, ma solo qualche racconto orale, arrivato sino a noi: Milena Molozzu, guida ambientale escursionistica, Sara Mannori, esperta di etnobotanica, ed Elena D’Ascenzo, che ci guiderà in un laboratorio di canto corale.

«L’intento è quello di andare nella natura, per boschi, con Sara come maestra, in un percorso di riconoscimento delle erbe locali, rinsaldando così il rapporto tra conoscenze scientifiche tramandate oralmente e territorio, raccontato da Milena», spiega Luana. «Con Elena, invece, rifletteremo sul ruolo tradizionale del canto femminile condiviso nello svolgimento delle mansioni quotidiane, come forma di trasmissione dei saperi e aggregazione tra donne di diverse generazioni. Infine, dalla nostra due giorni, usciranno delle opere d’arte, che andranno a formarne una collettiva, che sarà presentata in occasione di ArtVerona 2024 ed entrerà a far parte della prestigiosa UniCredit Art Collection».

Osservo questi volti nella luce tarda del pomeriggio e mi dico benedetta di poter far parte di un progetto così bello: si sente già un’energia di cura, con un’attenzione particolare verso la piccola di 5 mesi, come siamo portate noi donne a fare, in modo naturale.

L’indomani il ritrovo è alla piazza della fontana di Fontecchio. La giornata è calda, ma la voglia di vivere quest’esperienza antica e connaturata in noi, è tanta. Partiamo alla volta di questo sentiero tra brughiera e zone boschive a ridosso del fiume Aterno: Sara comincia a spiegarci le proprietà legate alle piante che raccogliamo per realizzare successivamente un erbario. Foglie di artemisia, l’erba delle donne per eccellenza, usata per curare i dolori mestruali, ma anche per espellere la placenta dopo il parto; e poi, ancora l’achillea, dalle potenti proprietà emostatiche, ma anche utilizzata per divinare sull’amore e quindi interrogare il destino su chi potesse essere l’uomo della propria vita. Rapite, la ascoltiamo, mentre camminiamo sotto al sole cocente, che a un certo punto, al suo zenith, ci costringe a cercare riparo sotto alle fronde di un noce e di un salice, lì vicino, alberi sotto i quali si narra che le streghe facessero i loro convegni o danzassero al chiaro di luna piena per invocare gli spiriti.

Lì, in cerchio, nasce il primo vero senso di comunanza: se prima, alla partenza, eravamo ancora estranee, in quel momento invece abbiamo cominciato a condividere davvero: cibo, cura, abbracci e conoscenze. Milena, infatti, ci allieta mentre mangiamo, raccontandoci perché la montagna è sempre stato luogo prediletto e deputato a ospitare l’energia femminile: qui, alle pendici, le donne potevano ripararsi ed essendo isolate, riuscivano a tramandarsi i saperi, conservandoli per la propria discendenza, senza disperderli. Inoltre, la montagna che protende verso l’alto, andando a incastonarsi nel cielo, da sempre rappresenta il femminile che incontra l’energia maschile, in una connessione perfetta e potente. All’ombra del noce, inizia a crearsi la nostra comunità estemporanea di donne, che consapevolmente decidono di fare un pezzo di strada insieme, sapendo che il vero traguardo non è l’opera d’arte che verrà esposta a Verona, ma quella che nascerà da ognuna di sé.

L'erborista Sara Mannori mentre ci spiega le proprietà officinali e non solo della flora locale. - Photo credit: Silvia Sciarra

Nel tardo pomeriggio, ci troviamo in un piccolo terrazzino affacciato sulle montagne al limitare di Fontecchio: camminando per questo borgo, scelto non solo per il supporto fattivo al progetto, ma anche come luogo «segreto», radicato al suo territorio, si intuisce come la fragilità indotta da una ferita, possa diventare un punto di forza e di bellezza. Sulle piccole casa in pietra, si stagliano da ormai 15 anni, le gru della ricostruzione post sisma; intorno alle loro pareti, vi sono degli elastici per tenerle insieme. Eppure, nulla possono nel rovinare quella bellezza volitiva che si è conservata nel tempo, attraendo sempre più artisti e appassionati di cultura, che in questo senso di caducità resiliente, trovano terreno fertile per creare.

Arrivate su questo affaccio mozzafiato, Elena comincia a impartirci le prime lezioni di canto corale. Esperta in canti popolari e conservazione della memoria collettiva, fa una richiesta che pare ardita: imparare un canto in lingua arbëreshë, la derivazione italica della lingua albanese, senza leggerlo, ma solo ascoltandolo e ripetendolo. Il canto prevede tre voci, che cantano in polifonia: «Non importa che sappiate cantare o che conosciate la lingua, cantate a cuore, vi resterà in mente e non avrete nemmeno bisogno di leggere il testo. Così facevano un tempo». Una bella lezione di vita: nell’era del perfezionismo e della performance, cantare a orecchio, sillabando parole forse inesistenti, è una sfida per la mente. Ma funziona. Dopo poche ore, provando e riprovando, le nostre voci si armonizzano, le parole si ricordano, i cori escono senza sforzo e ciò che ne esce, è un canto che incanta. Nei nostri occhi, la magia e la complicità di chi sa di non stare solo divertendosi insieme, ma di essere quasi delle pioniere di un nuovo mondo, rievocando però ciò che era un tempo.

La maestra di canti popolari Elena D'Ascenzo ci insegna a cantare «a cuore e a orecchio» dei canti antichi. - Photo credit: Silvia Sciarra

La sera, siamo libere di fare ognuna ciò che crede, ma esce così spontaneo ritrovarsi per mangiare insieme. Ed è così che una parola tu, un sorriso io, una risata insieme, i cuori si aprono, le storie si intrecciano, e presto finiamo a ballare la pizzica a piedi nudi in mezzo al ristorante, coinvolgendo anche il personale. Il femminile è così: se liberato, sa liberare. E la sensazione è di esserci già ritrovate a ballare sotto la Luna, tutte insieme a cuore scalzo, in un’altra vita.

Il giorno dopo, il ritrovo è alla fontana, dove una volta le donne si trovavano a lavare i panni e a raccontarsi la vita, cantandola anche. Per questo, noi riprendiamo le fila dei canti, imparando una ninna nanna in dialetto abruzzese, «o meglio in quello di Scanno, perché qui i dialetti variano di paese in paese». Il meccanismo è lo stesso di quello della sera prima: Elena intona, noi ripetiamo a sentimento. Il canto è ricco di orpelli vocali, talvolta anche complicati, ma se c’è una cosa in cui noi donne siamo formidabili, è il metterci in gioco senza paura. Dalla fontana, dopo che il sole inonda la piazza, ci spostiamo dietro la chiesa sconsacrata di San Nicola: riparate dal solleone, Elena chiede a qualcuna di noi se se la sente di provare a cantare la ninna nanna da sola. «Ricordiamoci che le ninne nanne erano tramandate solo oralmente per antonomasia e cambiavano di volta in volta, proprio perché seguivano l’interpretazione», precisa Elena. Due di noi cominciano a intonare la loro ninna nanna, mentre le bimbe giocano lì vicino: un momento così magico e intimo, che mi commuove nel profondo, riempiendomi di gratitudine.

Dopo pranzo, l’ultimo ritrovo è in biblioteca per l’opera d’arte da creare con Luana: osservandoci nella due giorni di convivenza, Luana decide di prenderci i calchi di mani e piedi in alginato e gesso, per poi unirli in un’Alcina collettiva, che porterà i nostri volti, i nostri sorrisi, i nostri passi, i nostri intrecci. Immergendo le mani e i piedi nelle vaschette, nessuna di noi sa come poi uscirà il prodotto finale: viene preso il calco anche del piedino della neonata, a ricordo che una comunità è fatta soprattutto dei piccoli cuori che sappiamo allevare nell’amore. Quando il gesso si solidifica, ciò che fuoriesce stupisce: si vedono le mani intrecciate di mamme e figlie, l’impronta dei piedi, i cuori disegnati, le dita incrociate per propiziare la Dea Bendata. Giocare con il gesso, creare nuove forme, ci ha fatte tornare bambine per qualche ora, ricordandoci la nostra forza generatrice, insita in noi donne per antonomasia.

Il momento emozionante dei calchi di mani e piedi. - Photo credit: Silvia Sciarra

Arriva il momento dei saluti, tempo di tornare a casa: abbiamo saputo diventare una comunità, creando un senso di appartenenza a qualcosa che ancora non è visibile, solo prendendoci cura l’una dell’altra. E questo qualcosa che si vedrà, non sarà l’opera d’arte, no: quella sarà solo un’emanazione materiale di questo tempo di condivisione e di qualità. La vera eredità di un simile cerchio di sorellanza è ciò che è venuto dopo la diaspora: un filo che si è ripristinato, senza disperdere i cuori che ha unito, e una volontà proattiva di ampliare un simile progetto, portandolo come modello di sostegno in diverse realtà a questa società sempre più disgregata e sperduta.

Per vedere bene da vicino, bisogna andare ai margini: noi ci siamo spinte fino ai piedi del Sirente-Velino per capire che ripartire da un’umanità che mette al centro la sensibilità e la condivisione è possibile. Basta aver voglia di donare ciò che siamo senza preoccuparci di essere perfetti: proprio come quando nostra madre ci mette al mondo, il momento in cui siamo più sporchi, ma più veri.

Progetto «Alcina»: le tappe di un viaggio verso una nuova umanità

Il progetto «Alcina» di Luana Perilli è stato finanziato dal premio Tomorrows UniCredit residency and production award, sostenuto da UniCredit, ideato, organizzato e promosso da Urbs Picta, con la curatela di Jessica Bianchera e la collaborazione di Fondazione Cariverona, Contemporanea - Università di Verona e Veronafiere S.p.A.

L’obiettivo di Alcina è indagare le relazioni tra comunità femminili e territori, ridefinendo al tempo stesso il perimetro dei saperi scientifici delle donne intorno all’etnobotanica e l’etnozoologia. Mentre la prima parte del progetto ha visto il coinvolgimento specifico di una ventina di donne selezionate, la seconda parte si svolgerà sempre a Fontecchio, l’8 e 9 agosto, e coinvolgerà invece chiunque voglia partecipare: in quel frangente si procederà a realizzare peculiari bestiari-erbari e vi sarà uno specifico lavoro con l’associazione delle donne del Mali di Montreuil (Parigi) per approfondire il sapere relativo alla cura dell’orto e all’impiego curativo delle erbe quale forma di resistenza culturale e affermazione identitaria di donne migranti.

Le opere artistiche che deriveranno da queste esperienze sul campo, documentate anche in un lavoro audiovisivo, saranno presentate in occasione di ArtVerona 2024 ed entreranno a far parte della prestigiosa UniCredit Art Collection.

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