Pantaleo, fisioterapista non vedente: «La mia vita è al buio, ma per me non c’è mai stata così tanta luce. Ho il sole dentro»

Ad un certo punto della vita, un galucoma ha spento la luce, lasciandolo completamente al buio. Ma è da quel momento che Pantaleo Logoluso ha iniziato a «vederci di più e meglio». E ad applicare questo nuovo «potere» anche alla fisioterapia. Ecco la sua storia
Pantaleo Logoluso
Pantaleo Logoluso, fisioterapista non vedente

«Grande leone dalla lingua sciolta, questo è il significato del mio nome». Non l’ho davanti, perché lo raggiungo al telefono, ma sentendolo dalla voce, me lo immagino proprio così, Pantaleo Logoluso: un uomo con un ottimo eloquio e un cuore indomito.

«La cecità ha tirato fuori tutto il cuore che ho: sono sempre stato selettivo nelle amicizie e anche sul lavoro – racconta – Non impongo la mia volontà, ma faccio sentire la mia voce, soprattutto a favore di chi ha più bisogno di me, senza paura e senza vergogna. Quando scegli la verità, non sei mai in errore. E non fa nulla, se poi certe persone non ti calcolano più: forse non dovevi più camminarci accanto».

Pantaleo è non vedente, «ma non dalla nascita: è successo tutto finita la scuola di fisioterapia. Verso la fine del 1989 mi è stato diagnosticato un glaucoma, che colpendo i nervi ottici, nel giro di un anno, mi ha portato alla cecità. Per 22 anni ci ho visto, ora è da 34 anni che non vedo più, solo nero. Ma come dico sempre: la mia vita è al buio, ma per me non c’è mai stata così tanta luce, ho il sole dentro».

Ha una bella voce stentorea, Leo («come mi chiamano gli amici»), sostenuta da un bel viso sorridente, o almeno questo è ciò che si intuisce ascoltandolo. Ride e sorride spesso, Leo, perché dice che non ha motivo di non farlo.

Dopo 32 anni come fisioterapista all’Ospedale di Legnano, oggi presta i suoi servizi nel Centro Medico Santa Crescenzia di Magenta, nell’hinterland milanese. «Non sono migliore di altri, ma io prima ascolto i miei pazienti e poi li «sento» con le mani. Li tratto con cura, con amore. Sa, io ho cominciato a lavorare proprio nel periodo in cui scoppiò l’AIDS (era all’inizio degli anni Novanta, ndr). C'erano persone che avevano contratto la malattia e che a causa del forte stigma erano abbandonate da tutti. Venivano da me, io le accoglievo e le facevo parlare. Tenevo le loro mani fra le mie e bastava già questo per sentire che stavano meglio».

Un massaggio al cuore, prima che al corpo, in pratica…
«Lei non sa i miracoli che può fare un ascolto attento, è già parte della cura. La mia arma segreta è proprio la cecità: da quando non ci vedo, massaggio meglio. Cominciai le prime lezioni di massoterapia che avevo ancora la vista, oggi la mia mano è molto più affinata, però non è solo questione di tecnica: con queste mani vedo e sento il mondo. Inclusa l’anima delle persone».

Non le manca talvolta la possibilità di vedere le cose, i volti della gente?
«Le dirò una cosa abbastanza scioccante, forse: se venisse qui adesso un grande luminare della chirurgia e mi proponesse di fare un’operazione, garantendomi che da domani io vedrò dieci decimi, risponderei: no, grazie. Non è quello che potrei vedere con gli occhi che mi cambia la vita, anzi: da quando ho gli occhi fuori uso, vedo di più. Vedo tutto, vedo oltre. Percepisco chiaramente come il mondo sia peggiorato negli ultimi anni e la vista, in questo caso, sarebbe un rischio: per come sono fatto, se vedessi ogni giorno le brutture che accadono, passerei gran parte del mio tempo a infervorarmi e il mio equilibrio, acquisito col tempo, svanirebbe».

Lei è uno che si batte per ciò in cui crede?
«Con garbo e gentilezza, ma sì: davanti alle ingiustizie non ci sto, alzo la voce, mi faccio valere, non solo per i miei diritti, ma per quelli di tanti. Mi sono battuto, ad esempio, per agevolare l’accesso in reparto ai pazienti con disabilità, chiedendo di poterli fare parcheggiare appena fuori l’ingresso. Che ne sa una persona vedente di quanto possa essere difficile raggiungere un luogo, procedendo al buio? Io lo so, per questo andavo fuori dalla porta della direzione a portare le istanze di chi era più bisognoso, finché non mi ascoltavano e non assecondavano le mie richieste».

E alla fine ottiene sempre ciò che vuole?
«Quando la vita ti toglie tanto, sai cosa è essenziale e da lì non retrocedi di un passo: esistono le cose giuste, che vanno perseguite per un bene più grande. Sentivo di voler lavorare a contatto con il dolore, perché potevo fare la mia parte, è una missione che ho intuito quando ero ancora vedente, ma è come se con la cecità avessi acquisito i superpoteri: cammino sempre a testa alta, ricordo com’era il mondo prima e questo mi agevola nella percezione degli spazi, ma non mi vergogno di non vederci. E spesso le persone non se ne accorgono che io sono cieco, proprio perché io mi porto in giro con l’attitudine di chi è consapevole di chi è e di ciò che può fare».

Non le manca proprio niente della sua «prima vita»?
«Il fatto di non aver più potuto vedere il volto dei miei cari, forse… E anche il fatto di non poter più passeggiare da solo o di fare sport, ecco: ero un grande sportivo e quando dovevo sbollire, mi ricaricavo con la bici, il nuoto, il calcio, la camminata… Ora ovviamente non riesco più, ma ho cercato un nuovo modo di tornare a respirare. Tutto sta nell’accettazione: se comprendi che tutto capita per un motivo, trovi prima la pace. E poi non posso trattare i pazienti senza aver ritrovato l’equilibrio, se no trasmetto inquietudine e malessere. Le mani parlano perché ci mettono in contatto con l’anima».

Lei crede in Dio?
«La mia fede mi ha sostenuto e mi ha aiutato a dare un senso a me stesso, in questo mondo: io so che sono chi sono per merito di Dio. È come se sentissi che sono un canale dall’Oltre: le parole che rivolgo ai miei pazienti, quello che faccio per loro, arriva tutto da un’energia che non riguarda solo me. È una presenza quotidiana costante. Sa, il primo anno dopo aver ricevuto la diagnosi lo passai interamente in casa. Avevo bisogno di assorbire la botta. Ma poi, come risposta d’urto, ho preso il treno per Roma – il mio primo viaggio da cieco – e ho passato il Capodanno più bello della mia vita, quello che ha sancito la mia rinascita. Non sono un bigotto, ma un timorato di Dio: osservo i comandamenti, che tengo nel cuore come una bussola. E mi affido alla Mamma celeste, Maria: si sa che nessuno ti ama più di una madre».

«Non si vede bene che col cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi»: lei è l’esempio vivente di questa citazione tratta dal Piccolo Principe, insomma…
«C’è un mondo che la nostra vista non può percepire, una luce mai provata. Vedo di più, da quando non vedo. È bello vivere con il sole dentro al cuore».