Pino Corrias: la riforma costituzionale, a nostro rischio e pericolo

La «Madre di tutte le Riforme», l’ha battezzata Meloni. Ma nessun Paese al mondo ha attualmente l’elezione diretta del premier, perché i governi tecnici e i cambiamenti di maggioranza appartengono a pieno titolo alle opzioni di una democrazia
sanità pubblica

Questo articolo di Pino Corrias è pubblicato sul numero 46 di Vanity Fair in edicola fino al 14 novembre 2023. Per festeggiare con noi i nostri #20dicambiamento, leggete qui

Come se avessimo bisogno di una ulteriore alluvione – dopo quelle vere e catastrofiche fatte di pioggia, fango, dissesto idrogeologico, noncuranza burocratica – ecco sopraggiungere l’inondazione di chiacchiere costituzionali intorno alla Grande Riforma. Anzi alla «Madre di tutte le Riforme», come l’ha appena battezzata Giorgia, la Sorella d’Italia, insieme con il seguito dei suoi Fratelli e destinata proprio a noi, la Grande Famiglia della Nazione.
Cinque articoli in tutto che prevedono l’elezione diretta del premier e l’indiretta dismissione del Quirinale e delle sue prerogative di garanzia, di equilibrio e di rappresentanza. Che accentra i poteri nelle mani dell’esecutivo e finisce per dissolvere quelli sempre più ornamentali del Parlamento. Che prevede un premio di maggioranza per il vincitore, come alle slot machine, quando escono le tre ciliegine e cascano le monete: la coalizione che vince avrà diritto al 55 per cento dei seggi, anche se nelle urne avrà vinto con un solo voto in più, magari a fronte del 40 per cento di astensionismo, come accade oggi.
Dice Meloni che con la riforma «si metterà fine ai ribaltoni di maggioranza, ai giochi di Palazzo, ai governi tecnici». Dando «più stabilità e maggiore credibilità internazionale all’Italia», magari al netto dei comici russi e dei Giambruno, quelli sì, finiti sulle prime pagine del mondo.
Non dice che i governi tecnici e i cambiamenti di maggioranza, appartengono a pieno titolo alle opzioni di una democrazia e quelli che chiama «giochi di Palazzo», sono la normale dinamica delle alleanze tra parlamentari. I quali, già oppressi da una valanga di decreti legge, non sono ancora al servizio di un amministratore delegato unico.
Di più. La circostanza che nessun Paese al mondo abbia adottato l’elezione diretta del premier – tranne Israele che la scelse nel 1992 e la cancellò a stretto giro perché non stabilizzava un bel niente – non preoccupa il nostro esecutivo che si vanta di «avere votato la riforma all’unanimità» e in pochi minuti. Come se la velocità di obbedienza – così apprezzata dai sergenti in caserma – sia tra i buoni requisiti della democrazia.
Le blande opposizioni, da Elly Schlein a Giuseppe Conte, passando per Carletto Calenda e persino Giuliano Amato, il nostro maggiore esperto di Intelligenza Artificiale, la giudicano una riforma «pasticciata e pericolosa». Temono la semplificazione autoritaria di un solo Capo al comando. Sospettano sia stata lanciata come un fumogeno, mentre montano le proteste per la Finanziaria che a fronte di qualche spicciolo, taglia la sanità, dimentica la scuola, ignora l’ambiente, stringe ancora un po’ il nodo scorsoio del debito pubblico che ci sta soffocando.
Ma trattandosi solo di un fumogeno, anche le opposizioni andrebbero rassicurate. La riforma piace a Renzi, esperto in fallimenti costituzionali. E l’ha scritta la ministra Elisabetta Casellati, senatrice, ancora oggi convinta che Ruby Rubacuori sia la nipote di Mubarak. Due note di ottimismo, in mezzo a tanta pioggia.

Per abbonarvi a Vanity Fair, cliccate qui.