Benvenuti a Casa Marras: visita privata al “rifugio” dello stilista Antonio Marras in Sardegna

Nella sua villa bucolica alle porte di Alghero, lo stilista ha condensato tutto il suo mondo. Tra arte, moda, letteratura, musica, teatro, storia e folklore.
Casa Antonio Marras Sardegna
Fernando Lombardi

Benvenuti a Casa Marras, il rifugio dello stilista Antonio Marras in Sardegna

Percorrendo una stradina distante pochi chilometri dal centro storico di Alghero, ci ritroviamo davanti a un cancello che si apre su un grande cortile circondato da alberi di ulivo, ginestre, ferule, lentischio, mirto, oleandri e altre piante della macchia mediterranea. Tore, il cane nero di Antonio Marras, ci dà il benvenuto mettendo le zampe sul finestrino, mentre gli altri due – Gilla e Jacopo Urtis, l’ultimo arrivato ma già padrone – ci annusano dopo aver aperto la portiera e fanno le feste. Abbaiare, in casi simili, vuol dire accogliere e il grande senso di ospitalità di questa casa inizia proprio da lì. Oltre la siepe non c’è il buio, ma una scalinata che porta su un’enorme terrazza con la luce della Sardegna più insolita, a proiettarci nel mondo di un grande artista visionario per cui la moda riunisce e racchiude cinema, teatro, danza, musica, letteratura, storia e «tanti stracci», come dice lui, fissandoci da dietro gli occhiali con montatura nera.

«Non avrei mai pensato di andare a vivere in campagna, perché quello che sognavo era una grande casa in centro, un posto bellissimo dove trascorrere la maggior parte della giornata facendo in modo che la vita privata e quella lavorativa fossero sempre in combinazione, senza confini. Purtroppo, l’esigenza del grande spazio non corrispondeva alle caratteristiche delle case storiche algheresi che hanno stanze piccole e piuttosto buie, scale ripide e strettissime. Allora perché non pensare alla strepitosa campagna circostante che a volte sembra l’Irlanda, a volte la Grecia e altre la Spagna, racchiudendole un po’ tutte?». La sua idea, ci spiega, era questa: «volevo una casa che unisse l’ambiente della campagna di mio padre, dove ho trascorso tutti i weekend e le feste comandate dell’infanzia e l’adolescenza con la nostra famiglia allargata, una tribù di parenti veri e acquisiti, zie, cugine e tanti amici. Tutti insieme per mangiare pasti pantagruelici e festeggiare».

Il cortile di Casa Marras.

Fernando Lombardi

Con Patrizia (sua moglie, che è più di un braccio destro) hanno così cercato e trovato questa costruzione in una zona tra le collinette – «chiamate presuntuosamente monti» – che regalano la vista sul golfo di Alghero con il promontorio di Capo Caccia, «il nostro gigante sdraiato che ci protegge, custodisce e abbraccia da lontano». Salutiamo i suoi suoceri Tonina e Ninì, i figli Efisio e Leo che lavorano nell’azienda di famiglia, acquistata di recente per l’80% dal gruppo Calzedonia di Sandro Veronesi, ma poi restiamo soli. Marras si sposta da una parte all’altra della stanza, si sdraia sull’amata amaca, parla e gesticola, ci osserva ancora e poi inizia a disegnare, «perché mi aiuta a concentrarmi». Utilizza come colore base il caffè raffermo che ha in ciotole e tazzine e lo unisce al blu e al rosso, dando forma ai personaggi-simbolo del marchio di moda che porta il suo nome, una storia di vita e vite intrecciate, splendide quanto complicate. La storia di una passione e di un sapere misto all’improvvisazione di uno che non è mai nessuno, ma centomila.

«Ho fatto del mio movimento perpetuo una ragione di vita. Non ho un posto dove andare, dice la mia amica FAM (la critica d’arte, scrittrice e saggista italiana Francesca Alfano Miglietti, ndr), e ha ragione. Sono un errabondo, un nomade, un transumante nell’animo e nel corpo e questa casa mi rappresenta appieno. Per me la destinazione non è mai l’obiettivo e l’arrivo non è il punto finale, preferisco il “durante”. Mi devo sempre spostare in un caos di cui sono l’unico a conoscere le regole, ammesso che ci siano. La cosa che mi ha sempre spaventato di più è la noia, ed è anche per questo che faccio tante cose insieme.

Quando le elenco, non ci credo neanche io e penso spesso che non ce la farò mai, ma in realtà, trovano la loro strada in un mix di tempi, luoghi e spazi ben annotati su un calendario che è la mia mappa concettuale, altrimenti non ricorderei nulla».

Antonio Marras e la moglie Patrizia.

Fernando Lombardi

Nel frattempo, si sposta in salotto, verso una scrivania piena di fogli, pennelli, fiori essiccati, pupazzi e oggetti vintage trovati nei mercatini. Da un album colorato tira fuori la foto di un bambino con indosso un abitino pied-de-poule, giacca e pantalone. Ha un uovo di Pasqua in mano, ma sta piangendo disperatamente. «Quel bambino sono io – precisa Marras – e questa foto esprime al meglio il mio stato d’animo. La fatina dell’allegria non ha certo lavorato bene con me. Sono così: un mix d’inquietudine e malinconia, ma a salvarmi è in qualche modo il mio spirito sarcastico e autoironico – a tratti divertente, direi – per pochi intimi. Mi piace cazzeggiare. Ho la capacità di complicare tutto e faccio diventare ostico ciò che non lo è. Ho la propensione al martirio, mi piace crogiolarmi nel dolore e nel tormento, non mi rendo conto degli altri interlocutori, ma li rispetto e mi piace pensare che, anche se a pochi, i miei messaggi e tutte le cose che faccio prima o poi arrivino».

Ascoltarlo parlare è ogni volta un’esperienza: è come mettersi attorno a un focolare domestico lasciandosi cullare dal suono e dal ritmo di parole che potrebbero essere interrotte dalle “janas”, il piccolo popolo di fate alte poco più di un palmo che secondo le leggende popolari sarde indossano vesti ricamate con fili d’oro e d’argento su antichi telai, tra i protagonisti di questa casa dove il tempo si è fermato e va avanti contemporaneamente, come nel mondo di Alice dove un Cappellaio Matto vaga e sosta in stanze «volutamente senza porte e divisioni tra il dentro e il fuori».

Lo studio di Antonio Marras nella casa di campagna alle porte di Alghero.

Fernando Lombardi

Casa Marras è piena di provocazioni visive, mobili, libri, oggetti e abiti; un ricettacolo di ricordi e di cose del cuore che sono dappertutto, dallo studio alle camere, dal soggiorno alla cucina con cesti e vasi/scultura pieni di frutta e verdura fino al giardino con le due piscine, la casa sull’albero e tanti letti arrugginiti, «che attraggono e conquistano chiunque, perché sono il posto dove uno nasce, fa l’amore e muore, quello in cui si passa quasi la metà della nostra vita».

Nascosta tra i cespugli, c’è una dépendance che, di solito, usano gli ospiti. È la Casetta di Maria, spiega lui, perché Maria Lai ci ha vissuto nel 2003 per preparare la loro mostra Llencos de aigua. «Per me è stata l’amica che più mi ha confortato, dando fiducia e passione ai miei “ciumpuls” (pasticci in algherese, ndr). Fu lei a regalarmi Il muro dei fili e parole per il piano terra, lavorandoci per settimane con un muratore che la guardava stranito. I fogli strappati del suo disegno progettuale li rattoppai e incorniciai con altri suoi disegni e la nostra corrispondenza di federe vintage, su cui scriveva con una calligrafia inimitabile. Maria è stata una jana che è passata di qui e ha lasciato il segno, insegnandomi una ritualità con cui dare nuova vita alle cose». Un’arte quotidiana e frugale, la loro, che ricorda l’addomesticare di Saint-Exupéry (che si chiamava come lui), cioè l’istanza, la volontà e il desiderio di creare legami senza dimenticare l’attenzionare – il fare cioè attenzione vivendo in attenzione – il silenziare e il silenziarci, «non per ignorare ciò che si ha attorno, ma per meglio comprendere le voci dei bambini che siamo in noi».

Il living di Casa Marras.

Fernando Lombardi