Altro che mimose

Com'eri vestita? La domanda “sbagliata” rivolta alle donne vittime di violenza diventa ora una mostra itinerante

Se gli abiti potessero parlare avrebbero le voci delle donne che li indossavano quando sono state violentate. Un’iniziativa per ricordare, anche in occasione dell'8 marzo, che le donne sono troppo spesso discriminate dallo sguardo collettivo
Com'eri vestita. Mostra itinerante
Triple I”, 2015 di Isabelle Wenzel

Com’eri vestita? Una mostra che ci ricorda i pregiudizi di un sistema ancora fortemente patriarcale

«Ciò che indossavo era questo: dall’alto una maglietta bianca di cotone, a maniche corte e con lo scollo rotondo, infilata dentro a una gonna di jeans, sempre di cotone, che arrivava appena sopra il ginocchio, con una cintura. Sotto tutto questo, c’era un reggiseno di cotone bianco e mutande bianche (probabilmente non coordinate). Ai miei piedi un paio di scarpe da tennis bianche, quelle con cui si gioca a tennis, e infine orecchini d’argento e lucidalabbra. Questo era quello che indossavo quel giorno, quella notte, quel 4 luglio del 1987.

Ti starai chiedendo cosa c’entri o persino come possa ricordare ogni elemento con questa precisione. Vedi, questa domanda mi è stata fatta molte volte. Molte volte mi sono ritornati alla mente questa domanda, questa risposta, questi dettagli. Ma la mia risposta, molto attesa, in qualche modo sembra piatta visti gli altri dettagli di quella notte durante la quale, a un certo punto, sono stata violentata. E mi chiedo quale risposta, quali dettagli dovrebbero dare conforto, potrebbero dare conforto a te che me lo chiedi, cercando conforto dove non c’è, ahimè, nessun conforto che possa essere trovato. Se solo fosse così semplice, se solo potessimo porre fine agli stupri semplicemente cambiando i vestiti. Ricordo anche che cosa indossava lui, quella notte, anche se in verità questo nessuno me l’ha mai chiesto».

Nessuno lo chiede mai, come scrive Mary Simmerling in questa sua poesia intitolata What where you wearing?, perché ancora si presuppone che la donna che ha subito violenza avrebbe potuto in qualche modo evitare lo stupro, se solo avesse indossato abiti diversi. Ed è per la medesima ragione che due docenti e psicoterapeute, Jen Brockman e Mary Wyandt-Hiebert, nel 2013 hanno preso le parole di Simmerling, cucendo attorno agli abiti da lei descritti l’idea del loro progetto: un’installazione che riproducesse i vestiti indossati dalle donne che avevano subito una violenza sessuale, riportando accanto ai capi indossati la loro storia e la data dello stupro.

In questi dieci anni la mostra Com’eri vestita? – inaugurata nel 2014 all’Università dell’Arkansas – non si è mai fermata, e continua a girare il mondo (in Italia è arrivata grazie ad Amnesty International) raccontando una cosa che dovrebbe essere banale, ma non lo è: «Non è l’abito che si indossa la causa di una violenza sessuale, ma è una persona a causare il danno», come ha detto Jen Brockman. Eppure, non essere riuscite a sottrarsi a quell’abuso, nella testa di chi ti ascolta, ti rende sempre un po’ complice. La domanda in questi casi è sempre sbagliata. E violenta. Invece di chiederti perché te lo sei lasciato fare, dovrebbero chiedersi perché te lo hanno fatto, smettendo di colpevolizzare chi subisce e chiedendo responsabilità a chi deve assumersela.

La mostra Com'eri vestita a Chiavari

Camminando tra quei vestiti esposti come quadri, sulle pareti nude, ho pensato che ne ho molti identici appesi nel mio armadio, ma i miei hanno avuto fortuna. E io con loro. Anzi, a pensarci meglio i miei, di vestiti, sono parecchio più sfrontati: contengono aperture, spacchi, tagli: si vede l’ombelico, si vedono le gambe, si vedono le ossa. Sono andata in giro il più nuda possibile, mostrarmi era il modo migliore per ripararmi in qualche modo, e nessuno mi ha fatto davvero del male. Me la sono cavata con delle pacche sul culo, molti pregiudizi e qualche capo che, sul lavoro, mi ha invitata a cena presupponendo una facilità all’arrendevolezza contenuta nelle trame di ciò che indossavo: era sufficiente una carezza per spalancare prospettive tra quei tessuti morbidi, ecco le mie cosce. Io sorridevo impacciata rimettendo la mia seta al suo posto, lo stomaco contratto mentre pensavo “ora vado”, e in effetti sono sempre riuscita a sottrarmi per tempo da questi predatori svogliati.

La campagna sulla violenza di genere “Io Lo Chiedo - Il sesso senza consenso è stupro”, promossa da Amnesty International che ha portato in Italia la mostra “Com’eri vestita?”, raccontata qui da Chiara Tagliaferri.

Per anni, non ho considerato il prodromo di ciò che non è accaduto, esso stesso, violenza, ma tutto sommato, fortuna. Non dicevo nulla di questi agguati per non sentirmi rispondere: «È il minimo dai, un po’ te la cerchi vestita così». Mi sono mossa nelle notti come Blanche DuBois in Un tram che si chiama Desiderio ripetendo: «Ho sempre confidato nella bontà adegli sconosciuti». Ma Tennessee Williams ci ha mostrato come gli sconosciuti (e soprattutto i conosciuti) non siano stati per niente gentili con Blanche.

Avanzando tra gli abiti di questa mostra ho pensato alle lapidi di Spoon River, che svelano i segreti dei morti. Ma in Com’eri vestita? sono donne vive a parlarci, anche se alcune di loro hanno simulato la morte per non morire sul serio. Così ti viene voglia di afferrare quegli abiti e abbracciarli, carapaci che custodiscono il dolore di ragazze buttate in un prato come si fa con un sacco di foglie secche. Vicino a un abito corto, rosso, le parole di una ragazza: «Un miniabito carino. L’ho amato appena l’ho visto. Indossavo anche dei tacchi assassini. Volevo solo passare una bella serata, sentirmi bene e stare con mia sorella. Mi ha stuprata non so quante volte. La prima cosa che ricordo sono io che striscio sul pavimento cercando quello stupido vestito».

La storia del prendisole a righe bianche e rosa è invece questa: «Alcuni mesi dopo, mia madre era davanti al mio armadio, e finalmente ha capito perché non avevo più indossato nessuno dei miei abiti. Sono passati 6 anni». I vestiti ci parlano. Sta a noi metterci in ascolto.

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