Stefano Nazzi: «Il delitto che mi ha colpito di più e la sentenza che non mi ha convinto fino in fondo»

Intervista al giornalista autore del podcast true crime Indagini che nella sua versione live sta facendo il sold out in tutti i teatri italiani
Stefano Nazzi «Il delitto che mi ha colpito di più e la sentenza che non mi ha convinto fino in fondo»

Dopo aver fatto il tutto esaurito a Milano, Roma e Firenze, lo spettacolo Indagini live (tratto dall’omonimo podcast) di Stefano Nazzi riparte il 14 maggio da Trieste per poi girare mezza Italia, con molte date già sold out. Accolto con un tifo da stadio quando entra in scena e seguito in religioso silenzio per tutta la durata dello spettacolo, che in questa edizione racconta il delitto del Circeo, Nazzi sta vivendo questo successo con quell’atteggiamento asciutto e rigoroso che lo caratterizza anche nell’analisi dei casi di cronaca nera che da anni racconta.

Com’è nata l’idea di portare un podcast di straordinario successo come Indagini nei teatri?
«L’ho sentito come una naturale evoluzione di quello che stavo già facendo. Abbiamo pensato, attraverso questo racconto live, di avere un contatto più diretto e immediato con le persone».

Che cosa c’è di diverso nell’esperienza del live?
«In teatro si percepisce la tensione e l’attenzione delle persone. Il podcast resta uno strumento straordinario, però è più freddo. Il modo di raccontare è sempre lo stesso, ma essere presente dal vivo, avere ospiti e mostrare le immagini e i video provoca un’emozione diversa, più intensa».

Perché ha scelto di raccontare un caso famoso e lontano nel tempo come il Circeo?
«Questo delitto ha rappresentato moltissimo nella storia d’Italia. Del Circeo si conoscono tutti i fatti: le due amiche, Rosaria Lopez e Donatella Colasanti, rapite e torturate, di cui una sola sopravvisse, fingendosi morta, ma molto meno quello che avvenne dopo. Sappiamo poco del processo, quando gli avvocati difensori ma anche la stampa tentarono di attribuire la colpa alle vittime. I giornali dell'epoca titolavano: “Se non fossero uscite quella sera". E poi c’è una storia nella storia: la fuga ripetuta di uno dei tre condannati, Gianni Guido, la sparizione di un altro, Andrea Ghira, che non fu mai catturato e finì nella legione straniera dove morì dopo aver goduto di moltissime protezioni».

E poi c’è Angelo Izzo.
«Angelo Izzo ha ucciso altre due donne, trent'anni dopo ill delitto del Circeo, uscito di carcere perché gli sono stati concessi i benefici di legge. Donatella Colasanti, informata della cosa disse: “Smettiamola di dire che è pazzo, a lui piace uccidere”».

Come si prepara per raccontare un caso come questo?
«Studio gli atti processuali, le sentenze. Leggo i giornali dell’epoca per capire come se ne parlò in quel momento. Parlo con quei giornalisti che hanno sempre seguito il caso e magari hanno anche scritto dei libri. Rivedo alcuni programmi televisivi del passato, come Telefono Giallo, che erano molto meno giudicanti di alcune trasmissioni attuali e più votati all’analisi e alla comprensione del caso. Il mio scopo non è scoprire quello che non è stato scoperto, ma mettere in ordine i fatti, trovare un filo e raccontare quelle cose che sono state meno raccontate o magari dimenticate e che invece è giusto ricordare».

Da un punto di vista delle indagini, qual è il caso più complesso che ha affrontato?
«Sicuramente l’omicidio di Yara Gambirasio, che poi portò alla condanna all’ergastolo di Massimo Bossetti. È stata la più grossa indagine scientifica che sia mai stata fatta sul Dna in Italia, ma forse anche in Europa. E poi all’indagine di laboratorio si affiancò l’indagine più tradizionale sul campo, porta a porta. Quando si capì che c’era un figlio nato fuori dal matrimonio cominciò la ricerca, con interrogatori e ricostruzioni per cercare di capire chi potesse essere».

E l’indagine che le fece dire: «Ma qui hanno sbagliato tutto»?
«Nell’indagine sull’omicidio di Chiara Poggi a Garlasco furono fatti degli errori pazzeschi. Grazie a un’intuizione dell’avvocato della famiglia Poggi si capì che erano stati sostituiti i pedali della bicicletta e questo fu uno degli elementi che portò alla condanna di Alberto Stasi. Però spesso i casi non sono semplici come possono apparire: non è tutto bianco e nero. I processi in realtà sono molto più complessi di quello che ci si immagina, gli elementi su cui si basa la decisione del giudice sono tantissimi, spesso noi ne vediamo solo alcuni».

E un caso in cui il verdetto non l’ha convinta fino in fondo?
«Forse il caso di Francesa Alinovi, la critica d’arte uccisa a Bologna nel giugno 1983. Venne accusato e alla fine condannato a dieci anni Francesco Ciancabilla, un allievo della vittima. Ciancabilla però ha continuato a dichiararsi innocente e la sentenza fu emessa solo sulla base di prove indiziarie».

Cosa pensa del caso di Olindo e Rosa.
«Non giudico il caso in sé, ma la difesa è stata molto brava perché in Italia le revisioni del processo sono rarissime. La Corte d’Appello di Brescia sta esaminando la possibilità di riaprire il processo. Solo nuove prove potranno portare alla revisione».

Qual è invece il caso che l'ha colpita di più?
«Sicuramente quello delle Bestie di Satana. Un caso in cui anche dopo anni i protagonisti della storia non ti sanno dire perché hanno fatto quello che hanno fatto. È l’esempio del male senza nessun motivo, senza nessun progetto. Tutto quello che avviene, avviene per cercare emozioni sempre più forti. C’è un padre che indaga al posto degli inquirenti, dei ragazzini che uccidono il loro amico d’infanzia. È difficile comprendere un caso simile».

Perché ha scelto di raccontare i casi di cronaca nera? La notte non ha gli incubi dopo essersi occupato di tutti questi omicidi?
«No, incubi no. Spero di non cominciare questa notte. Conoscere le cose, capire la dinamica che le provoca ti consente di vivere una paura controllata. Ricostruire i fatti ti permette di razionalizzarla. Inoltre ti accorgi che per fortuna questi casi sono limitati. Quello che mi interessa sono le storie, è la storia che crea le emozioni, anche le storie di ogni singola persona. Mi ha affascinato l’idea che queste vicende di cronaca nera, magari già note, potessero essere raccontate in un modo diverso».

Come mai ha deciso di dedicare una puntata del suo podcast alla vicenda di Emanuela Orlandi, un caso che è già stata raccontato moltissimo?
«Proprio perché in 40 anni sono state dette e narrate anche cose assurde. Mi sembrava importante mettere in ordine tutti gli elementi e vedere che cosa ci fosse di concreto. Se si pensa che molto tempo si è andati dietro all’ipotesi che ci fosse un legame con Mehmet Ali Ağca, l’uomo che attentò alla vita papa Giovanni Paolo II o che comunque non sia stata fornita una prova in vita di Emanuela, si capisce che molte delle piste seguite fossero senza fondamento. Ho provato a ricostruire l indagini, i depistaggi e  le ipotesi intorno alla scomparsa di Orlandi, e il racconto che ne hanno fatto i giornali e le televisioni».

Prossimi progetti?
«È appena uscito il mio nuovo libro Canti di guerra, un’opera dedicata alle Milano degli anni Settanta, un'epoca oscura in cui nei locali notturni si mescolano delinquenti, imprenditori e personaggi dello spettacolo e le bische sono nascoste dentro palazzi insospettabili. In questo contesto che si incrociano i destini di tre banditi che cambieranno le sorti della mala milanese: Francis Turatello, noto come “Faccia d’angelo”, insaziabile di potere; Renato Vallanzasca, il “bel René”, un rapinatore anarchico che ama essere sempre al centro dell’attenzione; e Angelo Epaminonda, detto “il Tebano”, un gangster feroce e spietato».