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Studio Luce: Paolo Roversi racconta in questa intervista il suo atelier a Parigi. «È il posto dove sogno»

Vi prensentiamo Studio Luce, l’atelier parigino di Paolo Roversi. Le più grandi modelle e stilisti sono passati di qui, diventando protagonisti di scatti indelebili. Compresa la cover star di Vogue Italia Taylor Russell
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Paolo Roversi

Studio Luce: Paolo Roversi racconta il suo atelier a Parigi. «È il posto dove sogno»

Per secoli i pittori hanno attraversato le Alpi in cerca di una certa luce: vibrante, intensa, italiana. La luce del Nord invece è una luce riflessa, che non crea ombre contrastanti e mantiene costanti tonalità e calore, come provenisse da un enorme diffusore naturale: in realtà è una luce perfetta per dipingere. E per fotografare. Non è un caso quindi che quando il pittore serbo Milan Konjović (1898-1993) decise di far costruire il suo atelier in rue Paul Fort, a Parigi, abbia fatto orientare la facciata principale dell’edificio proprio a settentrione.

Konjović affidò i lavori a un connazionale, primo assistente di Le Corbusier, il cui nome si è perso nello scorrere dei decenni. Dato che proprio nello stesso anno, il 1930, era occupato a costruire a poche centinaia di metri di distanza il Pavillon Suisse, l’archistar passava tutti i giorni a dare consigli (chissà se richiesti) al suo assistente. Non è difficile capire come mai nell’atelier ci sia più di qualche influenza lecorbusiana. Oltre alle ovvie linee austere e funzionali, la facciata si distingue per le immense vetrate, pensate per fare entrare più luce possibile, e per due strane finestre lunghe e sottili, che in origine venivano usate per far entrare e uscire nei due atelier, costruiti uno sopra l’altro, le tele di grandi dimensioni. Konjović ci rimase fino al 1932, poi decise di tornare in Serbia e non mise mai più piede a Parigi. Per un po’ il suo atelier venne affittato a una ditta che produceva brillantina, che ci sistemò gli uffici e il magazzino. Poi, era il 1981, nello studio di rue Paul Fort è entrato in scena Paolo Roversi, e l’atelier è diventato lo Studio Luce.

Quando Paolo Roversi (76 anni) parla di questo luogo - che fa da sfondo anche al servizio di copertina del numero di Vogue Italia di Marzo con protagonista Taylor Russell - prima o poi viene fuori, immancabile, la metafora del teatro. Quello che diventa chiaro solo visitandolo è quanto l’immagine abbia una base di realtà – quanto poco metaforica cioè sia, almeno per i parigini che hanno la fortuna di abitare davanti a quella facciata bianca che offre ai dirimpettai uno spettacolo costante e piuttosto esclusivo. Protagoniste, le grandi icone della moda: stilisti, attori o modelle, prima o poi, sono passati tutti da qui per farsi fotografare.

Se dovesse raccontare al suo nipotino il ricordo preferito legato a questo studio, dove ormai lavora da quasi 40 anni, che cosa gli direbbe?

Ce ne sono davvero troppi, una vita intera. Forse gli racconterei di tutti gli amori che sono nati nello Studio. Una volta io e Anna, la mia assistente di sempre, abbiamo fatto una lista che non finiva più: Stella Tennant e David Lasnet, Mario Sorrenti e Kate Moss, Laetitia e io. È un posto che manda vibrazioni idilliache. Forse perché è sempre stato uno studio domestico, una bottega casalinga, dove tutti si sentono un po’ in famiglia. All’inizio ci abitavo proprio, al secondo e terzo piano, e al primo lavoravo. Poi le équipe dei servizi di moda si sono espanse sempre di più (s’immagini i pranzi, praticamente dei banchetti nuziali), e ora è tutto studio. Tante modelle mi hanno detto di sentirsi a casa qui, Małgosia Bela ci si trovava talmente bene che un paio di volte ha anche voluto rimanerci a dormire.

Una casa diversa da tutte le altre, ci è passata l’intera storia della moda.

Be’ sì, da Naomi Campbell a Natalia Vodianova, da Yves Saint Laurent a Rei Kawakubo, direi che queste pareti hanno visto di tutto: io e Jean-Hugues de Chatillon (grande amico, e grandissimo set designer) abbiamo ricreato qui dentro ogni stagione. Ci abbiamo fatto piovere come d’estate, e persino cadere la neve (che è bellissima quando cade, meno quando devi raccoglierla con l’aspirapolvere). Abbiamo trasformato lo studio in un teatro di ombre cinesi, il terrazzo nel Pont des Arts. E poi ci sono i ricordi non legati alla moda, come quando è venuto il tenore Alfredo Kraus che ha fatto letteralmente tremare i vetri con la sua voce, o l’oracolo del Dalai Lama, che ha improvvisato una cerimonia in cui siamo finiti tutti in ginocchio mentre lui ci impartiva la benedizione. E poi ci sono gli animali.

Gli animali?

Una volta abbiamo dovuto costruire una passerella per far salire un asinello, un’altra ho fotografato Stella Tennant con una scimmietta addomesticata che continuava a spostarle il cappello. A un certo punto la scimmia si è stufata e ha iniziato a saltare in giro. Non le dico riprenderla. Un giorno poi, era primavera, avevo preparato la Deardorff per fotografare Laetitia, mia moglie, che al tempo non era nemmeno la mia fidanzata. Stavo caricando la polaroid e dalla finestra è entrata una colomba bianca, che è andata a posarsi sulle spalle di Laetitia. Giusto il tempo di scattare, ed era già volata via. Un segno premonitore, a dir poco.

È vero che gran parte degli oggetti che usa nelle foto sono raccolti per strada?

Mi piace che le cose con cui lavoro tutti i giorni abbiano una storia. Il tavolo nel mio studio era quello della sala da pranzo della mia infanzia a Ravenna, questi sfondi qui (indica dei rotoli su uno scaffale, in alto, nda) li ho comprati nel piccolo studio di un fotografo indiano, e sono dipinti a mano. Tutte le sedie e gli sgabelli che uso sono raccolti per strada: mi piace pensare che oggetti cresciuti nella cucina di una vecchia signora finiscano sulla copertina di Vogue, o in una pubblicità di Dior. Una strana seconda vita, non trova?

Parlando di seconde vite, so che il suo fondale preferito è una vecchia coperta militare.

Sì, ha una texture, una grana perfetta, soprattutto per le polaroid. E poi è anche una specie di coperta di Linus: so che se una foto non mi viene, basta che la tiri fuori e voilà, per miracolo la foto funziona.

Capita spesso che la gente dalle case di fronte si metta a guardare quello che succede nello studio?

Sempre! Come vede le finestre sono molto grandi, saranno 8 metri per 4, praticamente uno schermo cinematografico. E offrono uno spettacolo sempre vario. C’era un signore, un vecchio pensionato, che ci passava le giornate, seduto alla finestra. Ha visto posare le più belle modelle, per non parlare degli abiti. Poi sa, la luce del Nord è diffusa. Volendo potremmo usare le tende per oscurarla leggermente, ma io preferisco che entri senza filtri. Una volta stavo scattando dei nudi con una delle più grandi top model e di fronte ci saranno state quattro, cinque persone con la faccia appiccicata alla finestra, ipnotizzate. A quel punto ho chiesto se le dava fastidio, se voleva che chiudessi, e lei si è messa a ridere: “No, no. Anzi”.

Oggi ci sarebbe stata una parete di smartphone che trasmettevano live su Instagram!

A dire il vero c’era un signore che cercava sempre di filmare le sedute fotografiche, e noi a sbracciarci come pazzi, a fargli segno di smetterla. Lui allora si eclissava, tutto corrucciato. Tempo cinque minuti, e da un’altra finestra spuntava un braccio. Solo un braccio, con la telecamera.

Però chissà, magari qua di fronte abita un bambino cresciuto guardando quello che succedeva nel suo studio, che grazie a questo deciderà di fare il fotografo da grande. Lei, quando parla della sua carriera d’artista, sottolinea spesso l’importanza delle radici, e quasi sempre cita Ravenna. E rue Paul Fort?

Sa, questo posto ormai lo conosco a occhi chiusi. Quando uso la macchina di grande formato non ho nemmeno bisogno di guardare nell’obiettivo per mettere a fuoco, la luce non la misuro da anni. Ogni volta che arriva un nuovo assistente con un esposimetro lo prendo in giro: “Ma cosa fai? Con la luce si parla, non c’è niente da misurare”. Quindi, certo che sono legato a questo posto, è come una seconda casa, forse anche di più, è il posto dove sogno, immagino, dove cerco di creare delle cose… Ma sulle radici… Sa, per me lo Studio non è soltanto uno spazio, è più un modo di fotografare. In realtà il mio studio lo porto sempre con me, in rue Paul Fort o nella tundra in Lapponia. Lo studio è un angolo della mia mente, è il mio modo di guardare, di stare davanti al mio soggetto, di scambiare emozioni. Quindi, questo posto è molte cose, ma non le mie radici. Credo di essere io le sue.

Nella foto: Outtake dall’archivio di Paolo Roversi: Naomi Campbell e Shalom Harlow allo Studio Luce.

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