Le boyband degli anni Novanta non erano il sogno dorato che immaginiamo

La docuserie Netflix Dirty Pop ci mostra un lato oscuro che non sospettavamo
Dirty Pop il doc sulla truffa delle boyband anni Novanta
Tim Roney/Getty Images

La docuserie Dirty Pop racconta la vicenda del manager che fatto la fortuna di boyband come Backstreet Boys e Nsync. Ma che le ha anche clamorosamente truffate

C'era chi era fan della prima ora dei Take That. O chi preferiva versioni alternative come i Westlife o i Boyzone. O ancora, alle soglie del Duemila, chi si divideva tra team Backstreet Boys e team Nsync. Sta di fatto che le boyband sono state un fenomeno che, tra svariate incarnazioni e con intensità differenti, ci ha accompagnato per parecchi decenni. Ancora oggi, dopo la parentesi One Direction, il loro stesso mito vive attraverso le compagini espanse del K-Pop, come i Bts o gli Stray Kids. Sta di fatto che quei gruppi tra anni Novanta e Duemila hanno forgiato un immaginario, fatto di motivetti Europop, coreografie coordinatissime, pantaloni slargoni e pizzetti imbrobabili. Eppure quell'epoca della storia della musica mainstream è stata raccontata ancora solo nella sua superficie, come dimostra una docuserie sbarcata da poco su Netflix.

Dirty Pop: The Boy Band Scam (in italiano La truffa delle boy band) è un documentario in tre parti che racconta una storia rimasta a lungo tempo lontana dai riflettori, soprattutto quelli del pubblico italiano. Il racconto sembra partire in modo molto tradizionale, mostrando le immagini di repertorio che mostrano fenomeni pop come Backstreet Boys e Nsync al picco della loro popolarità: videoclip milionari, premi musicali, prestigiosi studi di registrazione e soprattutto folle e folle di ragazzine urlanti ovunque andassero. Ma c'è un'altra cosa che questi due gruppi avevano in comune, anzi una persona: si tratta di Lou Pearlman, il manager e impresario musicale che creò da zero entrambe le formazioni, portandole a un successo stratosferico. Per poi tradirle senza sconti.

Molto velocemente, infatti, già nel primo episodio Dirty Pop mostra la sua cruda svolta true crime: «Non ci sarebbero Backstreet Boys, non ci sarebbero Nsync senza Lou», dice nelle primissime scene Aj dei Backstreet Boys, «ma ci sono ferite che non sono mai guarite, che potrebbero non guarire mai». È qui che inizia la ricostruzione, attraverso preziosi materiali d'archivio, scene mai viste prime ma anche interviste riprese oggi, di uno dei casi più eclatanti della storia della musica pop, e soprattutto del business discografico in quanto tale. Pearlman, originario del Queens, iniziò la sua carriera concedendo in leasing aerei privati a star come Paul McCartney e Madonna, ma anche ai New Kids On The Block; affascinato dal successo di questi ultimi, applicò lo stesso business model a un gruppo di ragazzi chiamati appunto Backstreet Boys, portandoli a un successo planetario da 130 milioni di album venduti; replicò poi lo stesso con gli Nysnc, e con tutta un'altra serie di band più o meno di successo (O-Town, US5, Innosense ecc.).

Lou Pearlman, al centro, con gli Nsync nel 1996Mark Weiss/Getty Images

In pochissimi anni Pearlman era diventato una potenza della discografia mondiale, peccato che a un certo punto, verso la metà degli anni Duemila, quasi tutti i gruppi musicali - a partire proprio dai componenti dei Backstreet Boys - iniziarono a fargli causa per contratti iniqui, i cui profitti andavano per la maggior parte nelle tasche del manager. Non solo, negli anni successivi Pearlman fondò una serie di agenzie di talent scout, tutte poi accusate di sfruttare più che di favorire i tanti giovani desiderosi di successo, vendendogli servizi come book fotografici, videoclip e altro ancora, ma di fatto non procurandogli poi nessuno sbocco o ingaggio. La docuserie, in modo ancora più eclatante, mostra poi come tutto il business di quest'uomo, fin dalle prime attività di leasing aeronautico, si basassero su complicatissimi schemi Ponzi, la più classifica delle truffe finanziarie per cui si chiedono prestiti e investimenti a cascata su società che in realtà esistono solo sulla carta. In questo modo Pearlman avrebbe ottenuto illecitamente più di un miliardo di dollari.

Dirty Pop è una visione piuttosto sconcertante perché da una parte riavvolge il nastro fino a quell'epoca d'oro del pop, che ci riempie di nostalgia e ci ripiomba in un'epoca doratissima di divertimento e outfit improbabili. Al contempo, però, ci accompagna in un dietro le quinte piuttosto viscido e ambiguo, fatto di manipolazioni, bugie e truffe. I tanti intervistati nella serie - come AJ McLean e Howie Dorough dei Backstreet Boys, Chris Kirkpatrick degli Nsync, Michael Johnson e Patrick King dei Natural e Erik-Michael Estrada degli O-Town - sono come divisi tra un ricordo innegabilmente scintillante dei loro anni di fama più fragorosa e l'amarezza per una frode che ha rischiato di spazzare via non solo la loro fortuna economica, ma anche la loro vita privata. Come dettagliatamente riportato nei tre episodi, Lou Pearlman fu poi arrestato per vari capi d'imputazione nel 2008, ma morì poi in prigione nel 2010.

Lou Pearlman (in alto a sinistra) coi Backstreet Boys a Monaco di Baviera nel 1996picture alliance/Getty Images

La sua vicenda è una specie di lente chiaroscura attraverso cui guardare il clamoroso successo delle boyband: da una parte lustrini e ragazzine urlanti, dall'altra uno spietato mondo dello spettacolo che si nutre voracemente di soldi dalla provenienza non proprio cristallina. Il costo della fama, in qualche modo, sembra anche questo. E la visione di Dirty Pop ancora una volta di fronte ai nostri ricordi più nostalgici e, in fondo, anche dolceamari.

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