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Flavio Lucchini, visionario della moda e dell'arte, racconta come 60 anni fa ha dato forma a Vogue Italia

Primo direttore artistico e mente creativa di Vogue Italia e di L'Uomo Vogue, racconta com'è cominciato tutto nel 1964
Flavio Lucchini
Flavio LucchiniArchivio Flavio Lucchini

Flavio Lucchini: intervista al visionario della moda e dell'arte, e primo direttore artistico di Vogue Italia

Festeggiare i sessant’anni di Vogue Italia nel 2024 significa far coincidere l’inizio della storia della rivista con il momento in cui Franco Sartori e Flavio Lucchini fanno il loro ingresso nella redazione di Novità, rispettivamente come amministratore delegato e direttore artistico. La testata rischiava di chiudere, così i due vengono “rubati” alla fortunata rivista Amica, che insieme hanno plasmato da capo, col compito di salvarla. Quello che succede nel 1964 me lo racconta proprio Flavio Lucchini, oggi novantacinquenne, nella casa milanese che condivide con Gisella Borioli, compagna nella vita e nel lavoro – una casa punteggiata da fotografie che testimoniano la sua presenza nella storia, come quelle di Andy Warhol e di Oliviero Toscani, e dai sognanti mobili Memphis. «Nel 1964 abbiamo avuto l’idea di trasformare gradualmente Novità in Vogue. Vogue era il massimo nel campo della moda, della fotografia, dell’informazione, era la più bella rivista al mondo, l’apoteosi della femminilità».

“Gradualmente” significava partire dalle basi, iniziando dal font della testata. «Per un po’ abbiamo fatto Novità col carattere di Vogue, il Bodoni arrivato dall’America, poi in piccolo sotto Novità è apparso il nome Vogue (la celebre copertina del 1965 con Benedetta Barzini fotografata da Gian Paolo Barbieri, ndr) e dopo qualche mese il contrario, finché alla fine non è diventato Vogue Italia e basta», racconta, spiegando il cambiamento della testata come sintomatico del cambiamento che stava attraversando la rivista al suo interno. Qualche anno dopo Lucchini inventa il sistema di groupage, che presenta i couturier italiani su Vogue Italia rendendoli di fatto famosi quanto quelli francesi: erano editoriali di venti, trenta pagine in cui si mostrava il lavoro dei sarti (Valentino, poi Walter Albini, Armani) scattati da fotografi ambitissimi come Richard Avedon e Irving Penn.

Yves Saint Laurent e Flavio Lucchini

Archivio Flavio Lucchini

Tra vita e lavoro: Flavio Lucchini e Gisella Borioli

Tra le fotografie che mi mostra ce n’è una del 26 giugno del 1976 in cui compaiono Lucchini, Borioli, e la sua giovanissima assistente, la futura direttrice di Vogue Italia Franca Sozzani, tutti sorridenti davanti a uno specchio di Palazzo Reale. «Per non destar sospetti quel giorno abbiamo organizzato uno scatto per il Vogue americano che ci aveva chiesto una fotografia del team di Lei, la nuova testata Condé Nast diretta da Gisella. C’erano un paio di modelle, il parrucchiere, il truccatore e Oliviero Toscani come fotografo. Ci trovavamo nel giardino del Castello Sforzesco dalle otto del mattino quando, verso le dieci, ho chiesto a Franca e a Oliviero se avessero con loro i documenti. Mi domandarono la ragione e gli risposi che dovevamo sposarci tra qualche ora: loro due sarebbero stati i testimoni», racconta, introducendo la storia di due vite che non erano semplicemente dedite al lavoro, ma per cui il lavoro rappresentava il senso stesso del vivere.

Gisella Borioli, Flavio Lucchini e Franca Sozzani. Fotografia di Oliviero Toscani.

Archivio Flavio Lucchini

La loro collaborazione era iniziata quasi per caso una delle sere in cui, ricorda Borioli, passando sotto il suo ufficio vedeva la luce accesa e gli lasciava dei dolci bigliettini sul tergicristalli dell’auto per chiedergli se avesse bisogno di una mano. Un giorno Lucchini decise che sì, aveva proprio bisogno della sua mano. È più o meno di quel periodo anche un’altra foto che ritrae la prima mitologica festa di Vogue nel 67, in cui Lucchini coinvolge l’orchestra del maestro della pop-art italiana Mario Schifano, che porta con sé da New York anche delle inedite luci stroboscopiche. «Volevamo che tutta la città sapesse che la famosa pubblicazione di moda di New York usciva anche in Italia e proprio a Milano», racconta nel suo libro di ricordi Il destino.

Flavio Lucchini e Gisella Borioli alla festa del ventesimo anniversario della nascita di Vogue Italia, 1984

Graziella Vigo

L'Uomo Vogue racconta l'uomo nuovo che non si vuole più vestire in giacca e cravatta

Sono tante le rivoluzioni che Lucchini ha portato a Vogue, perché è stato interprete dei cambiamenti della società e dei suoi nuovi desideri. Sulla scia delle contestazioni giovanili, nel 1967 fonda L’Uomo Vogue. «Andavamo sempre a Londra, era il momento dei Beatles, delle minigonne, dei figli dei fiori, del punk. I giovani inglesi dissacravano l’immagine dei padri», racconta. «Lì abbiamo capito che la stessa cosa stava per succedere in Italia ed è nato L’Uomo Vogue, per raccontare l’evoluzione dell’uomo nuovo che non si vuole più vestire in giacca e cravatta». E proprio su quest’ultimo accessorio maschile racconta un aneddoto delizioso. «Mi trovavo a una cena con dei produttori di cravatte che si lamentavano perché non le volevo mettere mai in copertina, ritenendole obsolete. Proposero addirittura di raddoppiare l’investimento pubblicitario per farmi cambiare idea. In tutta risposta, suggerii di cambiarne i disegni per renderle portatrici di valori nuovi: non più righe e geometrie discrete, ma stampe pop-art, magari col ritratto di Mao. Inaugurammo così il fenomeno delle cravatte fantasia». Su questo tema lo incalza Borioli, seduta accanto a lui: ricorda perfettamente la prima volta in cui lo vide, lui visiting professor e lei studentessa di un corso che stava frequentando. «I miei compagni erano tutti vestiti in giacca e cravatta e poi è arrivato lui con dei pantaloni in pelle aderenti e i capelli lunghi».

Oltre a farsi specchio di quello che stava succedendo nel mondo, L’Uomo Vogue non è stato solo anticipatore, ma ha forgiato nuove mode e concetti, come quella volta in cui, per un servizio di copertina, hanno usato un davantino fatto di tirelle del campionario di Missoni (fino ad allora solo femminile): in seguito alle tante richieste, divenne poi il punto di partenza della produzione maschile del marchio. Oppure quando un giovane Giorgio Armani, allora dipendente infelice del Lanificio Fratelli Cerruti, si presentò nel suo ufficio per un consiglio: «Gli dissi che era venuto il momento di mettersi in proprio», racconta Lucchini, che gli suggerisce di fare sei pagine di pubblicità su L’Uomo Vogue per annunciare l’imminente collezione, tutto a credito della rivista. «“Flavio, ma non ho il marchio”, mi disse tutto preoccupato. In quel momento gli composi con il Bodoni originale della testata di Vogue il logo Giorgio Armani». È lo stesso che usa ancora oggi.

L'Uomo Vogue 1975

L'Uomo Vogue 1978

Dopo Condé Nast

Così come è stato in grado di ascoltare e raccontare la moda, femminile prima e maschile dopo, Lucchini ha poi ha plasmato Casa Vogue dando voce alla rivoluzione degli architetti e dell’arredamento italiano a cavallo degli anni Ottanta, per poi creare la rivista Lei, dedicata alla nuova generazione di teenager. Dopo il capitolo di Condé Nast, la vita di Lucchini e Borioli sarebbe continuata nella medesima direzione, auto-alimentandosi di creatività e di arte – come quando, nel 1983, aprirono a Milano il celebre Superstudio, un centro per la fotografia diventato subito il punto di ritrovo per fotografi, stilisti, modelli, giornalisti, artisti tutti. Una fucina di idee stravaganti e geniali, come quelle che Flavio Lucchini ha seminato nelle pagine di Vogue Italia e L’Uomo Vogue.

L'articolo è apparso nel numero di gennaio 2024 di Vogue Italia

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