Les Rencontres d'Arles 2024: 5 mostre di fotografia da non perdere al festival della fotografia nel Sud della Francia
Nonostante il prefisso “re-” che sembra riferirsi a un movimento già ripetuto una volta, in francese “rencontre” indica il primo incontro e disvela tutta la magia delle prime volte e delle cose che non sappiamo come andranno a finire. Anche per me l'edizione del 2024 dei Rencontres d'Arles è stata la prima volta, sia in quanto visitatrice del festival della fotografia che della città della Camargue. Mi hanno accolto tantissime lingue mai sentite prima, pastis e vini rosé dai nomi bizzarri, i fiori serviti con puntualità sopra ogni piatto in un momento in cui non trovavo un centro. Nemmeno il Festival des Rencontres de la photographie ce l'ha un centro in cui ti puoi dare appuntamento e semplicemente spuntare tutte le mostre fotografiche da vedere e andare avanti con altro. È una scoperta che avviene per sbaglio, ti intrufoli in una chiesa all'apparenza chiusa e c'è una splendida esposizione che ti aspetta, oppure decidi di andare in un posto e nella strada per raggiungerlo entri in altri cinque negozietti con altrettante mostre ugualmente affascinanti. Ai Rencontres d'Arles mi sono incontrata, non saprei dire se per la prima volta, ma sicuramente dopo tanto tempo, e l'ho fatto perdendomi nei vicoletti che circondano le bellissime rovine romane sparse per la città. Ho incontrato anche nuovi amici che parlano almeno cinque lingue diverse, nuovi amanti, colleghi mai visti prima, ma soprattutto mi sono incontrata nelle immagini in cui mi sono imbattuta girovagando sempre senza prefissarmi delle destinazioni. Queste sono le mostre più belle dei Rencontres d'Arles, che quest'anno sono impegnate a spostare lo sguardo più in là, dove non si posa mai, oppure dove si posa spesso solo per compassione. Ai margini, ai confini, di là.
Belongings di Ishiuchi Miyako
Tutto quello che ha una forma, prima o poi svanirà. È questa la consapevolezza che ha raggiunto Ishiuchi Miyako osservando i vestiti della madre appena morta mentre li piegava e li riponeva in valigie che non avrebbe mai più aperto. Mentre il suo corpo è sparito, i suoi rimasugli continuavano a infestare la sua casa e il mondo reale nella forma di rossetti, abiti, borse, giacche. Ha iniziato a fotografarle per categorizzarle in un angolo della mente e metterli via. Il suo modo di dire addio. Poi l'hanno chiamata per fare lo stesso con gli abiti appartenuti all'artista messicana Frida Kahlo, di cui ha fotografato le celebri sottovesti e vestaglie da notte. E infine con quello che rimaneva dei morti durante i bombardamenti atomici di Hiroshima: corpi frantumati e scomparsi del tutto e oggetti all'apparenza integri ma radioattivi. Anche qui, dire addio alla forma.
Vampires fear no looking glass del Grupo de Cali
C'era un gruppo di cineasti, fotografi e artisti colombiani che negli anni Settanta ha fabbricato il mito di Caliwood, una Colombia incredibilmente simile a Hollywood, dove i creativi si incontrano, si scambiano idee ed è possibile portare a termine progetti artistici ambiziosi come si fa in America. Si chiamavano il Grupo de Cali, e tra i temi che più li affascinavano c'erano il vampirismo e il tropical goth, ovvero espressioni di terrore e paura di solito attribuite a scenari gotici, ma sceneggiate invece in ambienti tropici, caldi e belli, ma così violenti. Il vampirismo è un modo di interagire in cui si parte dall'assunto che qualcuno sia la fonte di energia e un altro colui che la risucchia. Con questa lente tropical goth, il Grupo de Cali analizzava le strutture sociali entro le quali, nella città di Cali in Colombia, si muovevano i giovani ai margini, quindi prostitute, ragazzi che hanno perso tutto, si sono dati alla malavita o semplicemente alla vita di strada.
Neither give nor throw away di Sophie Calle
Poco prima dell'opening della sua ultima mostra a Parigi al Musée Picasso, le opere di Sophie Calle vennero distrutte da una tempesta improvvisa che era arrivata a farsi strada fin dentro le mura del museo. Nacquero spore di muffe e funghi sopra i suoi quadri, soprattutto sull'opera The Blind. I curatori decisero che era meglio distruggere tutte le opere per evitare che le spore finissero per contagiare il museo, così le distrusse e al loro posto, all'opening, era stata messa in scena una celebrazione dell'assenza. Anche ad Arles ha voluto inscenare questo avvenimento, scegliendo di sotterrare The Blind ai criptoportici, un luogo sotterraneo punteggiato da tombe e circostanziato da un odore nauseante di muffa e di umidità che si infiltra tra le ossa. La mostra si chiama Neither give nor throw away ed è stata sviluppata attorno a una domanda che Calle poneva alle persone cieche: che cos'è per te la bellezza, se non la puoi vedere ma solo immaginare? Una ragazza nata cieca risponde, un agnellino, il prato verde e Alain Delon, «perché ho sentito che è l'uomo più bello del mondo». Un signore di 50 anni risponde la reggia di Versailles. Una ragazza dice il suo fidanzato. Ed ecco, tra scatti d'archivio e fotografie nuove, un percorso per riscoprire la bellezza disintegrata e poi ritrovata.
Journey to the center di Cristina De Middel
Nel suo Viaggio al centro della terra, Jules Verne si immaginava uno scienziato che si addentra in un vulcano e arriva al centro del mondo, dove scopre una civiltà preistorica. Nel suo Journey to the center, la fotografa Cristina De Middel ritrae invece le rotte migratorie che percorrono gli abitanti del Centro America attraverso il Messico come dei viaggi immaginifici, poetici e incredibilmente eroici, invece di rappresentarli sempre e solo come delle fughe. Il loro viaggio parte da Tapachula, al confine tra il Messico e il Guatemala, e finisce a Felicity, una piccola cittadina californiana che rappresenta il centro della terra nonostante sia attorniata dal filo spinato. Il linguaggio di Cristina De Middel si svicola tra fotografia documentaristica, immagini costruite e materiale d'archivio, una stratificazione che racconta le complessità che circondano il racconto della migrazione.
Encounters di Mary Ellen Mark
Nella sua vita, Mary Ellen Mark non è stata solo una fotografa, ma attraverso gli scatti era in grado di raccontare le storie delle persone che fotografava. Una cantastorie si potrebbe dire. Americana, nata nel 1940 e morta nel 2015, il suo sguardo si posava sempre sulle persone ai margini, su quelli che conducevano vite diverse quasi opposte dalla sua. Certo, ha fotografato celebrità, ritratto attori e presidenti, le sono state commissionate fotografie da Life, Vogue, Rolling Stone, The New Yorker e Vanity Fair, ma in cuor suo voleva scattare le persone che nessuno avrebbe mai scattato. Lo faceva con empatia, compassione e perseveranza. Ogni tanto ritornava nello stesso posto per scattare altre foto, se si convinceva che non fossero perfette. «Quello che cerco di fare è di creare delle fotografie che vengano capite universalmente, che attraversino i confini culturali. Voglio che le mie fotografie trattino di emozioni basiche e di sentimenti che proviamo tutti», dice del lavoro. Ad Arles sono esposti cinque sei suoi progetti più ambiziosi e militanti, tra cui quello sulle donne in ospedale psichiatrico, bambini di Seattle per strada, sex workers a Mumbai, Madre Teresa morente e famiglie circensi indiane.
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