Via dalla città per vivere nei piccoli centri: la nuova (sana) ribellione dei giovani. Che ricominciano da qui

L'inchiesta di Vogue. Abbiamo incontrato alcuni giovani che stanno lasciando le città per trasferirsi nei piccoli centri e vivere una vita più sana in termini di equilibrio tra lavoro e relazioni umane. E abbiamo scoperto che…
via dalla città trasferirsi nei borghi

Via dalla città per vivere una vita più sana, in equilibrio tra lavoro e relazioni umane. All'insegna del multilocalismo

«Per favore, non chiamateli borghi». Sabrina Lucatelli, direttrice dell’associazione Riabitare L’Italia è la prima a farci questa richiesta. Ma non l’unica. Nel corso della nostra inchiesta sul fenomeno, ancora di nicchia ma decisamente in crescita, dell’abbandono delle città a favore dei piccoli centri, ce lo hanno chiesto in molti. «Il termine borgo è connotato da un’idea di gentrificazione: lo si usa per indicare luoghi belli ma privi di vita, da “rianimare” magari con il turismo. Ma non è così che si risolve lo spopolamento dei paesi italiani». Il fenomeno secondo Lucatelli è frutto di una politica che ha incoraggiato l’urbanizzazione a partire dalla rivoluzione industriale fino al boom economico degli anni Sessanta e Settanta. A questo si sono poi aggiunti negli ultimi anni i tagli alla spesa pubblica richiesti dall’Unione Europea. Cosa che ha comportato la soppressione di servizi essenziali e quindi varie forme di emigrazione. «Ma già a partire dal 2012, con gli investimenti della Strategia Nazionale per le Aree Interne, e grazie al nuovo modo di concepire il lavoro acquisito con il covid, si è innescato un processo di fiducia e rivalutazione». A contribuire alla diffusione del termine borghi era stato l’ex ministro della Cultura Dario Franceschini, che aveva inserito nel Pnrr il Piano Nazionale Borghi, appunto, volto a integrare «obiettivi di tutela del patrimonio culturale con le esigenze di rivitalizzazione sociale ed economica. In pratica: la Snai (la Strategia di cui sopra) consiste nel realizzare interventi strutturali – servizi sanitari, scuole, strade, sostegno all’imprenditoria – su tutte le aree marginali della Penisola e il Piano Borghi sostiene la rivitalizzazione del patrimonio culturale di alcuni centri. Entrambe le misure raccontano la stessa storia: le cosiddette aree interne sono una priorità. E oggi sono anche oggetto di attenzione da parte di un numero crescente di italiani. Secondo il sociologo del territorio Fabrizio Ferreri, dell’Università di Catania, «con la pandemia abbiamo capito che il modello urbano consumistico e accelerazionista non soddisfa tutti. Chi si trasferisce in un piccolo comune cerca qualcosa di alternativo: una vita più a contatto con la natura e relazioni umane più intime. Il fenomeno potrà crescere se i rapporti tra centro e periferia si svilupperanno in termini di connessione: lo spostamento conviene a tutti, sia alle città congestionate, sia ai piccoli comuni che necessitano di nuove energie».

Le foto Piero Percoco catturano la vita lenta nei piccoli centri italiani, oggi riscoperti dai giovani e non solo.

Il caso di Sambuca in Sicilia. Chiara, fiorentina, 25 anni, ha acquistato una casa disabitata da 100 anni

Una delle iniziative messe in atto da alcuni paesi per “attirare” residenti è quella delle case a uno, due o tre euro. Pur non avendo sempre avuto grande successo, ha funzionato a Sambuca di Sicilia, 5mila abitanti in provincia di Agrigento. «Le persone arrivano per curiosità, ma poiché trovano un luogo bello e una comunità coesa e accogliente, anche se non comprano la casa a un euro – che spesso ha bisogno di pesanti ristrutturazioni – magari ne acquistano una in condizioni migliori per 5 o 10mila», spiega Ferreri. Lo ha fatto Chiara Di Carlo, fiorentina di 25 anni. Arrivata ospite di un amico i cui genitori avevano acquistato la casa a 1 euro, si è innamorata di Sambuca. È venuta qui a scrivere la tesi, poi ha fatto un piccolo investimento immobiliare. «È una casa disabitata da cento anni, da ristrutturare, ma ha un giardino e mi ci sento bene. Il mio lavoro di accompagnatrice turistica mi porta molto in giro: Sambuca sarà il mio porto sicuro. L’idea è quella di avviare in loco un’attività di turismo sostenibile. Ma non potrei risiedere né sempre qui né sempre a Firenze: stare in un solo posto mi mette ansia».

foto Piero Percoco

Fabrizio è scappato dal Nord e ha creato vicino a Palermo il primo coworking pubblico

Chiara è in perfetto trend e il trend – facilitato da una mentalità flessibile e dal lavoro in remoto – si chiama multilocalismo. A Castelbuono, in provincia di Palermo, sulle Madonie, il progetto Southworking si colloca sulla stessa scia. Ha cambiato la vita di molti, e anche del paese. Uno dei fondatori è Fabrizio Barreca: di genitori castelbuonesi, ha vissuto per 16 anni tra Bologna e Milano. Poi, insieme a una decina di soci, ha chiesto al Comune la concessione di alcuni spazi e ha creato il primo coworking pubblico d’Italia, che negli ultimi tre anni ha visto passare 500 persone. «Il profilo degli utenti è molto alto, quasi tutti – come me – lavorano per multinazionali e vivono in capitali italiane ed europee. Si fermano qui per periodi sempre più lunghi: si godono una qualità della vita altissima in termini di clima, aria, cibo e relazioni e, in aggiunta, incontrano persone con profili simili ai loro». E l’impatto sul territorio? «A fronte di un investimento comunale di 6mila euro in tre anni, si è generato un movimento intorno ai 300mila euro. A livello reputazionale, invece, Castelbuono oggi è considerato un luogo innovativo, che attira turismo sostenibile». Risalendo la penisola si arriva a Grottole, in provincia di Matera.

foto Piero Percoco

Cos'è il multilocalismo?

Andrea Paoletti è un architetto biellese specializzato nella progettazione di coworking, che una decina di anni fa si è trasferito in Basilicata per lavoro. Ha scoperto Grottole quasi per caso. «In paese c’era già un gruppo di giovani molto attivo: abbiamo unito le forze e dato vita al progetto di rigenerazione e riattivazione del territorio Wonder Grottole. Si può venire qui per un periodo breve o lungo, a lavorare o fare turismo, ma lo spirito è sempre quello di contatto e collaborazione con la comunità locale. Capita che qualcuno, anche da San Francisco o Buenos Aires, si fermi per sempre. Proseguendo verso Nord si arriva a Gagliano Aterno, vicino L’Aquila. Qui tre anni fa è partito il progetto Neo – Nuove Esperienze Ospitali, che quest’anno verrà esteso ad altri comuni della valle. Lanciato dall’associazione Mim – Montagne in Movimento, è una scuola di attivazione di comunità e transizione ecologica che consente ogni anno a sette giovani di trascorrere sei mesi in paese. «In cambio, loro si mettono a disposizione della collettività e dell’amministrazione per produrre valore sul territorio», racconta Raffaele Spadano, presidente di Mim. «Spesso qualcuno resta: una bella storia è quella di una coppia che riaprirà il forno storico del paese».

foto Piero Percoco

Elisabetta: da Roma a Gagliano per salvare la tradizione del J'ntremé

Avvicinarsi a una zona interna significa anche innamorarsi di tradizioni che rischiano di perdersi. Elisabetta Dini, toscana, dopo la laurea a Siena e 12 anni a Roma, nel 2010 ha scoperto
Gagliano Aterno, in provincia dell'Aquila, grazie al marito, i cui genitori venivano in vacanza qui. «È stato un colpo di fulmine. Per qualche anno, in agosto, ci siamo uniti ai ragazzi del paese nell’organizzazione della sagra J'ntremé - il piatto tipico a base di agnello cotto con peperoni, sedano e aceto, la cui ricetta è stata ereditata delle suore clarisse», racconta. «Poi, per tre anni, la sagra non si è tenuta. Nel frattempo, io mi ero trasferita definitivamente. Davanti al rischio di perdere questa tradizione, con mio marito Ivan e il socio Stefano Sacerdoti abbiamo avuto l’idea di mettere J'ntremé dentro un panino e venderlo su un’Ape, attrezzando un angolo del paese con piante e tavolini. Così è nato Comé – Il panino virtuoso: lavoriamo da maggio a settembre, ma sogniamo di aprire un ristorante. Qui ho trovato un mare di opportunità. La città, invece, mi soffocava».

foto Piero Percoco

Dal Piemonte al Friuli, le associazioni che aiutano ad ambientarsi in un nuovo territorio

La sensazione di cui parla Elisabetta la provano in tanti, ma trasferirsi in un’area interna non è facile come dirlo. «Il problema non è trovare casa, dato che il patrimonio abitativo è enorme, quanto sapere a chi rivolgersi per configurare la propria esistenza in un nuovo contesto – che spesso, per via della geografia del nostro Paese, è montano», spiega Giulia Urso, docente di Geografia economico-politica al Gran Sasso Science Institute e firma della rivista DiTe (Dinamiche Territoriali) dell’AISRe, l’Associazione Italiana di Scienze Regionali. «Per fornire supporto logistico e sociale a chi vuole fare questa scelta sono stati lanciati diversi progetti». Per citarne qualcuno: a Fontecchio, in provincia de L’Aquila, c’è lo sportello Hub di Montagna; in Friuli c’è Vieni a vivere e lavorare in montagna, gestito dalla Cooperativa Cramars, ma anche l’iniziativa Percorsi Spericolati della Fondazione Pietro Pittini, che coinvolge giovani tra i 18 e i 30 anni nella rigenerazione del territorio. In Piemonte, a Rittana, c’è lo sportello Montagna Futura. A Melle, paese di 250 abitanti in provincia di Cuneo, è tornato Enrico Ponza, dopo aver trascorso diversi anni a Torino. «Ho studiato tecnologia alimentare: nel 2012, insieme a un amico, al posto di aprire un chiosco sulla spiaggia, l’abbiamo aperto qui, in montagna. Il Birroschio si trovava in una piazzetta nascosta: proponeva le due nostre birre artigianali e panini con prodotti locali. Il territorio ha reagito benissimo e allora ci siamo ingranditi», racconta. Oggi il progetto Antagonisti conta un ristorante, un bar (quello storico del paese che rischiava di chiudere) e un ostello, ubicato nella scuola elementare inattiva da tempo. Ci lavorano in quattordici, in estate arrivano a venti. «Un progetto folle reso possibile dal nostro entusiasmo, ma anche dal supporto di un’amministrazione comunale attenta. Credo che in questo momento storico le città non siano in grado di fornire ai giovani ciò di cui hanno bisogno, ovvero una visione di sviluppo diversa».
Lo conferma Elena Bertuol, veneta, 36 anni, arrivata a Melle dopo gli studi a Padova e Torino e due anni di lavoro a Londra. «Forse è stato quel periodo in Inghilterra, dove i rapporti umani erano così difficili, a spingermi a unirmi ad Antagonisti. Durante il colloquio Enrico continuava a dirmi: “Guarda fuori dalla finestra... hai capito dove siamo?”. Temeva che mi fossi pentita. Ma io sono felice».

foto Piero Percoco

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