interviste

"So che non potrei fare quello che faccio senza le persone che lavorano con me» Maria Grazia Chiuri si racconta a una scrittrice dallo sguardo atipico

E ci porta oltre le passerelle – reali e digitali. Dai vestiti alle azioni, ai libri, alla politica. Lontano da ogni forma di autocelebrazione.
Maria Grazia Chiuri

Maria Grazia Chiuri riflette con la scrittrice Chiara Valerio di sfilate e nuovi media, team working e senso del vestirsi in questa intervista - pubblicata sul numero di settembre di Vogue Italia

Maria Grazia Chiuri, direttrice artistica delle collezioni donna Dior, mi ricorda Pina Bausch (quando glielo dirò, durante la conversazione, scoppierà a ridere: «No, non esageriamo»). Per due motivi pratici. Il primo è che mette in scena i corpi. Con i vestiti si possono fare certe azioni e non altre, si possono assumere certe posizioni e non altre, i vestiti sono vincoli e i vincoli danno possibilità. Il secondo è che sta dietro i corpi che mette in scena. La si vede alla fine, vestita di nero, con i pantaloni o la gonna, i capelli legati, scuri o biondi, una espressione ferma, fissa, più allegra che no. Tutto cambia, tutto ruota e lei rimane ferma a lato del palco, in fondo alla sfilata. C’è in Maria Grazia Chiuri – come c’era in Pina Bausch nelle uniche due volte che l’ho vista dal vivo, da lontano, e sempre quando vedo le sue registrazioni – una certa ieraticità, una certa iconicità per sottrazione che ha a che fare forse con l’essere cresciuta a Roma, dove uno dei più bei monumenti della storia umana è una rotatoria e l’avere una funzione nulla toglie all’essere un capolavoro dell’immaginazione e della tecnica umana.

Una foto dall’archivio personale di Maria Grazia Chiuri.

Maria Grazia Chiuri, perché la moda è diventata, meglio, è tornata a essere, il linguaggio in cui filosofia e letteratura vogliono parlare?
La moda è un territorio dove questi linguaggi si sono sempre intrecciati. Forse oggi c’è più consapevolezza. In passato, penso agli anni Ottanta, quando è diventata più nota al grande pubblico, la moda era legata al designer o al brand, o a entrambi. Ma è un territorio più vasto e che, in qualche maniera, parla della storia dell’umanità attraverso vari media – i tessuti, i ricami –, riguarda il nostro modo di coprire il corpo, racconta di come stiamo in mezzo agli altri, è naturale sia legata anche alla letteratura e alla filosofia.

Una foto dall’archivio personale di Maria Grazia Chiuri.

Esiste la moda oltre il sistema industriale che oggi è?
La moda oggi è anche un sistema industriale, ampio e complesso. Lo è più di quanto appaia dall’esterno. Venti anni fa, quindici nemmeno, la comunicazione della moda non passava principalmente per i nuovi media, la moda stessa era relegata a un’élite di consumatori. Se non fosse anche un sistema industriale ampio e complesso oggi non avrebbe la possibilità di essere vista. Richiede grandissimi budget. Chiariamoci, storicamente è sempre stato così, penso ai budget per comprare certi tessuti, distintivi di certi brand.

La moda non è mai stata democratica?
Se ne è molto parlato, ma la moda non lo è mai stata. L’abbigliamento è sempre stato un modo per contraddistinguere le classi sociali, quindi è naturale che quelle più agiate, fin dall’antichità, potevano permettersi colori, tessuti e fatture che altri non potevano comprare. Il cambio di vestiti rappresenta anche un cambio di status. È impossibile separare moda e industria.

Vestirsi, oltre la praticità e l’abitudine, come ha inteso, è una performance. Che differenza c’è, se c’è, tra vestito e travestimento?
Di base non credo ci sia differenza. La differenza è sulla consapevolezza, sul come ciascuno di noi utilizza i propri abiti. Il vestito è, fondamentalmente, un travestimento. La parola travestimento può sembrare negativa ma non credo lo sia. Riguarda il modo in cui uno decide di mostrarsi agli altri. La consapevolezza divide chi decide cosa mettersi e una persona che, semplicemente, si copre per motivi anche pratici. Temperatura, pioggia, sole. Ognuno ha un approccio diverso perché dipende dalla coscienza, dalla consapevolezza dell’abito.

Più efficaci le parole o i vestiti per segnare un’appartenenza o una differenza a un certo gruppo sociale?

Ambedue, ma più che per segnare una differenza, direi per essere accettati. Le persone, tutti lo facciamo, cambiano spesso abiti e linguaggio secondo i contesti. C’è una tradizione sul come presentarsi per avere maggiore autorevolezza e come, a parole e con gli abiti, questa autorevolezza debba essere espressa. Le donne questa consapevolezza ce l’hanno e ce l’hanno ben presente. Donne che, in passato, hanno dovuto affrontare ambienti più maschili dove in qualche modo l’autorevolezza non passava solo dal linguaggio ma da come erano vestite. Personalmente, penso che questa autorevolezza possa essere espressa anche solo coi fatti, con le azioni.
Le donne di Armani. È Armani che inventa il vestito per le donne che lavorano, o sono le donne che lavorano, e hanno l’esigenza di una nuova rappresentazione, a far sorgere in Armani l’idea del tailleur?
Uno scambio reciproco. Armani parte dall’idea di un abbigliamento maschile che vuole estendere anche alle donne così da supportarle nel mondo del lavoro. Vuole dare alle donne una divisa che le liberi dal dover pensare quotidianamente a come presentarsi. Secondo me era quasi una divisa unisex. D’altra parte, le donne si sono sentite agevolate dal poter indossare qualcosa che dava la possibilità di essere guardate professionalmente e non solo come un oggetto del desiderio. Perché comunque questo è successo, specie in alcuni ruoli. Si vede moltissimo nella politica. Dalla regina d’Inghilterra alla Merkel. Le donne hanno subito ancora di più il giudizio su come si presentavano davanti a certe istituzioni o in momenti formali. Gli uomini avevano comunque una divisa più codificata.

Una foto dall’archivio personale di Maria Grazia Chiuri.

La ascolto e mi ricordo che abbiamo vissuto in una società che poteva gestire contemporaneamente almeno due opposti, il calendario Pirelli e il tailleur di Armani. Come abbiamo fatto a vivere negli opposti, se lo erano?
Era un mondo più semplice, con meno categorie. Forse “categoria” è la parola giusta. Ognuno decideva qual era il ruolo che voleva incarnare, se stavi sul calendario Pirelli non potevi fare politica. Cicciolina in politica col Partito radicale è stata uno shock. Enorme. I radicali hanno rotto molte di queste regole. L’idea che abbigliarti in un modo ti fa appartenere a un mondo e solo a quello non è vera. Oggi, secondo me – e questo anche tanto per via dei nuovi media –, è tutto molto più contaminato, molto molto più aperto. Trovo che la moda in questo momento venga guardata molto di più perché è l’industria che abbraccia e tocca tantissime altre cose. Con meno categorie. Se categoria è la parola giusta.

Siamo in Italia, abbiamo prodotto e allestito opere liriche indimenticabili. Facciamo un parallelo. Sfilata come opera lirica, sfilata come messa in scena di oggetti di uso quotidiano? Solo la moda può investire abbastanza per spettacoli grandiosi?
Non tutte le aziende di moda possono permettersi lo stesso tipo di produzioni. Da Dior, dove lavoro, è possibile farlo. Chiamiamolo spettacolo, arte visiva, esperienza, la moda tocca tutti questi elementi e, in alcuni casi, alcuni brand possono permettersi di mostrarli. Ci sono tantissimi autori che pur facendo lo stesso tipo di ricerche non possono mostrarlo. Il cardine della moda è la sfilata. La sfilata è una parata. La sfilata è in sé uno spettacolo anche quando non è fatta in un luogo particolare. Ci sono persone che performano su una passerella. Lo spettacolo, la casa di produzione – lo dico scherzando ma non molto – è una conseguenza dei nuovi media su cui la moda viaggia. Hai diversi canali, la maggior parte sulla rete, per cui devi, secondo orari e programmazioni, creare contenuti. La mia generazione – io sono decisamente vecchia, piacevolmente vecchia – è stata abituata ad altro, non c’era la necessità di questo tipo di produzioni. Una sfilata era vista solo dalle persone invitate. Aveva un aspetto molto effimero che a me, devo dire, piaceva. Durava dieci minuti, qualche volta arrivavano le foto, a volte neanche fatte bene, nessun video, o pochissimi, era qualcosa che accadeva in un certo momento e in un certo luogo. Rimaneva nella memoria di chi c’era ed era finita lì. Ho avuto la fortuna di assistere a una sfilata di Galliano all’Olympia della quale non ci sono né foto, né riprese – io però c’ero. Erano happening. C’erano e poi non c’erano più. I nuovi media hanno portato la moda a dover diventare una casa di produzione oltre che una casa... di moda.

Il finale della sfilata Dior Cruise 2023 a Siviglia.

Sfilata come parata. Ultimo romanzo di Virginia Woolf, Tra un atto e l’altro. Al centro c’è un “pageant”, una rappresentazione della storia d’Inghilterra. L’ultima parte della rappresentazione si intitola Tempo presente, noi stessi e gli attori sul palcoscenico reggono pezzi di vetro e metallo, superfici che riflettono gli spettatori. Cosa riflettono le sue sfilate?
Mi interessa far vedere che è un lavoro comunitario. Questa è la mia ossessione perché mi appartiene e perché so che non potrei fare quello che faccio senza le persone che lavorano con me. Mi piace lo scambio creativo. L’idea del designer o del direttore creativo un po’ guru non mi è mai piaciuta, forse perché ho vissuto gli anni Ottanta e allora era così. Secondo me la moda deve far vedere ciò che sta dietro, la ricerca, lo studio. La moda riguarda la memoria. Per me gli oggetti, i vestiti sono elementi di un racconto, di ciò che ho vissuto, proprio come la musica. La moda è una playlist. La gonna di mia madre, il capo che vedo a mia figlia e che ho comprato in un certo momento. La moda è parte di un racconto che faccio e spero che ognuno faccia il proprio. Dunque, sfila l’oggetto in quanto oggetto, sfila l’oggetto come è fatto e da chi è fatto. A volte, nei negozi vintage, ritrovo cose che ho disegnato, e, col mio team, ci mettiamo a ridere, perché casomai ci tornano in mente le difficoltà per fare un certo capo, il resto passa. Questo è ciò che mi interessa. E che credo, per tornare alla domanda, che in questo ci si possa rispecchiare.

Se la moda è un racconto, ed è linguaggio, i pezzi, i mattoni, di questo linguaggio sono i tessuti, le cuciture, i metalli. Che rapporto ha con ciò che compone il linguaggio moda?
Ho una specie di ossessione per gli oggetti della moda. Tessuti, metalli, ricami. Non ho mai capito perché, cioè, a un certo punto ho capito. È una cosa successa da bambina.

Non si preoccupi, non siamo i suoi psicanalisti.
È che credo, attraverso la moda, di aver capito me stessa. Facendo moda, ho capito da dove vengono certi riferimenti. Non è che uno nasce e dice “ora faccio moda”, ma credo che vedere mia nonna, mia zia ricamare, passare i disegni per il tombolo mi abbia influenzata. Non l’ho capito presto nella vita, l’ho capito tardi, passati i cinquant’anni. Mi ricordo le mie zie, fuori dalla porta, e mia nonna che facevano ’sti tomboli, tutti i corredi, e chiacchieravano, chiacchieravano con le vicine che stavano a loro volta fuori dalla porta, tutto questo mi ha influenzata, l’ho sempre visto come un territorio di creatività e collettività. Mi ricordo l’atelier di mia madre con tutte queste ragazze che chiacchieravano e mia madre che chiacchierava. Un luogo dove c’erano tante donne che chiacchieravano e pure un sarto per la parte giacca. Mi è sempre piaciuta l’idea dell’atelier, che poi oggi noi non ce l’abbiamo, però siamo tanti. Ecco, io da sola in uno studio, anche bellissimo, non ci so lavorare. Io lavoro sempre nello studio grande con tutti intorno. Le persone si stupiscono che io non abbia problemi a lavorare con tutti intorno. Lo dico sempre, scherzando ma non tanto, io da sola con la candela e il vaso di fiori non reggerei nemmeno cinque minuti, mi annoierei mortalmente.

Quanto pesa Roma in questo suo modo di lavorare?
Tantissimo. Io vivrei in piazza, scherzando ma non tanto. Io vivrei e lavorerei in piazza. Questo a volte è anche faticoso per le persone che mi stanno accanto, mio marito, i miei figli, però la verità è che vivrei davvero in piazza. Roma d’altronde è una grande piazza. A Roma tutti vivono in piazza, per strada, nei bar. Io vengo da qui.

Dior primavera estate 2017

Dice spesso che leggere è il più grande esercizio di immaginazione che abbiamo a disposizione.
Leggere dà la possibilità di immaginare. La lettura è il racconto dei tuoi occhi e coi tuoi occhi, non hai riferimenti oltre le parole che ti toccano e creano immagini mentali che sono diverse da persona a persona. C’è una libertà enorme. Con i film non succede. Nel film c’è un casting per gli attori e i costumisti hanno già scelto i vestiti. Spesso sono terrorizzata di vedere il film di un libro che ho letto. Credo di avere una attitudine essenzialmente visiva, perciò per me è fondamentale leggere. E leggo da sempre perché avevo una nonna che mi leggeva, mia madre leggeva e mio padre pure – anche se non hanno avuto le stesse opportunità di studio che ho avuto io. Proprio per questo mi spingevano a studiare e a leggere, per loro era fondamentale. Lo facevano anche loro, erano autodidatti. Mio padre diceva sempre che qualsiasi cosa era meglio che essere ignoranti, perché l’ignoranza si sarebbe vista dovunque. Altre cose le puoi camuffare, l’ignoranza no. Qualche volta non mi hanno dato i soldi per un paio di jeans, ma non me li hanno mai negati per i libri. Ci tenevano che avessi gli strumenti adatti, lo ritenevano essenziale.

A un certo punto, tuttavia, una gonna che si è immaginata in testa, una giacca, una camicia diventa un oggetto. Che cosa pensa quando vede quella sua immaginazione addosso a qualcuno?
Sono contenta quando le cose vengono esattamente come devono venire, però, devo dire la verità, forse perché lavoro da tanto tempo e c’è talmente tanto mestiere, ma so come vengono le cose.

Mai una sorpresa?
Quando mi sono veramente stupita è stato durante il Covid. La collezione più assurda che abbia mai fatto. Via Zoom, senza parlare con le persone, mi è sembrato di tornare a quando avevo vent’anni. Fatta in casa. Disegni sui fogli, spediti con le foto via cellulare, fotocopie pure, in modo molto poco strutturato, non come lavoriamo di solito. Quando è arrivata la collezione, ci siamo guardati tra noi del team e non ci credevamo. Ci siamo detti: solo noi potevamo fare una cosa del genere, perché abbiamo rapporti consolidati con tutti i nostri interlocutori che, anche per telefono, ci capiscono. Altrimenti, non sarebbe stato possibile. È come se fai l’architetto e uno ti dice: costruisci un grattacielo con mattoni e due carriole. Ringrazio l’azienda che ce l’ha permesso, noi abbiamo detto al principio: ci proviamo ma non sappiamo se arriva, eh.

Ultima domanda. Brand, designer, industria, cultura, spettacolo, produzione cinematografica, lettura, qual è la sua rappresentazione, Maria Grazia Chiuri – io la vedo sempre iconica, sempre in sottrazione, sempre a lato, dietro, mi fa un po’ l’impressione di Pina Bausch le due volte che ho avuto l’occasione di vederla alla fine degli anni Novanta.
Non mi interessa tanto, ciò che indosso è abbastanza casuale, per me è prioritario ciò che sto facendo. Forse è dovuto anche all’età, non lo so, ma devo stare comoda, specie in alcune situazioni in cui so di dover camminare e correre. Ci sono momenti fisicamente molto intensi, ci penso poco, non credo sia quella la cosa interessante. Credo fortemente che nel momento della sfilata stai mostrando il lavoro fatto col team. Non credo, però, che la mia sia una sottrazione, non è che non voglio mostrarmi, credo semplicemente sia più interessante il resto.

Su Vogue.it potete leggere anche:

Vuoi ricevere tutto il meglio di Vogue Italia nella tua casella di posta ogni giorno?

Iscriviti alla Newsletter Daily di Vogue Italia