Può un anello per single insegnarci a superare le dating app?

Da sempre abbiamo usato accessori e simboli per raccontare qualcosa di noi. Basterà per l'amore a prima vista?
Anello per single riusciremo mai a superare le dating app
Kevin Mazur/WireImage/Getty

Ecco l'anello per single: ennesimo accessorio inutile o ulteriore espressione personale al di fuori dei social?

Se vi è capitato di passare una serata in qualche club di New York o Londra, vi sarà capitato di vedere qualche persona indossare dei particolari anelli di silicone colorato. Non una semplice fashion choice, quegli anellini sono un messaggio ben preciso: ci vogliono dire che queste persone sono single e volentieri incontrerebbero persone con cui intrattenere una conversazione e, chissà, anche di più. L'idea viene da un brand che si chiama Pear, lanciato nel 2023 inizialmente nel Regno Unito e negli Stati Uniti, ma ora anche nel resto del mondo: l'idea è quella di creare un «esperimento sociale globale» al di fuori dei social, una manifestazione nel mondo reale di ciò che si vuole veramente. Pear vende infatti non solo un anello (acquamarina per le persone eterosessuali, lilla per chi appartiene alla comunità LGBTQ+), ma in contemporanea anche la membership che permette di accedere a eventi speciali e al futuro PearFest, un grande festival dedicato ai single che vogliono conoscersi. E chi sta in solitaria da un po' di tempo ormai, sa quanto sia difficile trovare occasioni in cui conoscere altri single.

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Avevamo realmente bisogno di un anello per aiutarci nelle nostre relazioni interpersonali? A leggere le testimonianze d'oltralpe l'anello non è così diffuso da divenire un simbolo universale, ma la sensazione è quella di un empowering istantaneo. Veniamo d'altronde da anni in cui abbiamo demandato ogni tipo di approccio alle dating app, che però sempre di più ci hanno dimostrato le loro difficoltà e le loro contraddizioni. Avere a disposizione strumenti digitali che facevano da intermediario a conversazioni e approcci ci ha reso generalmente più timidi e impacciati. Ma ora che a dominare è la social fatigue, ovvero una sensazione di frustrazione, sospetto e inutilità rispetto a questi contatti online, sentiamo anche l'esigenza di ritornare al mondo reale, alla concretezza degli sguardi e dei tentativi di avvicinamento. Veniamo però anche da un decennio complesso, in cui la consapevolezza degli spazi personali, il timore di abusare della sensibilità altrui e una giusta spasmodica attenzione al consenso ci hanno portato a una prudenza massima, e dunque ad altrettanti tentennamenti.

Vorrà davvero parlarmi? E se poi quella persona è già impegnata? Si offenderà se propongo di bere qualcosa insieme? Sono tutte domande assillanti e che spesso paralizzano. Aumentano così i single insoddisfatti che non fanno nulla per cambiare la loro situazione. Difficile dire se basti una fascetta di plastica al dito per sbloccare l'impasse, ma è anche vero che da sempre sentiamo il bisogno di segnalare all'esterno la nostra identità più peculiare. Se ci si pensa bene, le fedi portate all'anulare sinistro non solo altro che un segnale opposto all'anello per single Pear: “Sono sposato/a”, “Sono single”. Anche la moda in generale è spesso uno statement più ampio, che esula del nostro senso dello stile più stretto e che vuole però anche esprimere le nostre idee e le nostre convenzioni. Veniamo da anni di tote bag di tela distribuite a destra e a manca, spesso con i più variegati slogan politici stampati sopra, oppure con dei punti di riferimento per capire i nostri interessi (anche quest'estate si sprecano le tote bag letterarie, da Adelphi e Iperborea in giù, a palesare in un attimo il nostro status intellettuale).

Edward Berthelot/Getty Images

C'erano stati anche dei precedenti più precisi nel mondo della gioielleria: negli anni Novanta, per esempio, in Italia Carlo Verdone aveva fatto da testimonial a Status Single, un cerchietto d'oro sormontato da una specie di semaforo che, se posizionato sulla luce giusta, faceva capire agli altri se si era disposti a flirtare oppure no. Prezzo modesto, era destinato ai giovani tra i 14 e i 18 anni, ma a parte qualche sporadico articolo archeologico che ancora si trova sul web, pare scomparso da ogni tipo di archivio storico: forse aveva precorso troppo i tempi. Ma la manifestazione esteriore dei propri gusti o interessi è qualcosa di ancora più atavica: vuole la leggenda metropolitana, per esempio, che le penny loafers si chiamino così perché negli anni Cinquanta gli studenti della Ivy League erano soliti infilare un penny, appunto, nella fessura arcuata della scarpe in modo da segnalare alle loro spasimanti che avrebbero volentieri speso la monetina per chiamarle dal telefono a gettoni più vicino.

Esiste poi tutta la tradizione del queer signaling, ovvero le tradizioni estetiche che gli appartenenti alla comunità LGBTQIA+ utilizzavano per riconoscersi e comunicare tra di loro anche in modo non verbale, soprattutto in anni in cui manifestare il proprio orientamento in modo esplicito era immediato richiamo di violenza e discriminazione. L'esempio più famoso in questo senso è l'Hanky Code, l'utilizzo cioè di bandane colorate da parte degli uomini gay degli anni Settanta per esprimere le loro preferenze e i loro gusti. Tutto sarebbe nato dai cowboy della Corsa dell'oro a San Francisco: data la scarsità di donne ma volendo lo stesso ballare le danze popolari, indossavano dei fazzoletti per mostrare subito chi fosse disposto a ballare nella parte femminile. Questo poi è evoluto e fatto proprio dalla comunità omosessuale: si attaccavano bandane di vario colore (celeste per il sesso orale, nero per il sadomaso ecc.) in posizione diverse (sulla tasca sinistra per la posizione attiva, sulla destra per la passiva) alle tasche dei jeans. E il match era fatto, altro che Tinder.

Al Pacino nel film Cruising del 1980, con le bandane dello Hanky Code in primo piano©United Artists/Courtesy Everett Collection

Anelli, bandane, mocassini: diventano tutte bandiere di personalità, quelle che sui social o sulle dating app sarebbero dei tag (single o impegnato, interessati al casual sex oppure no ecc.). Riappropriandoci della fisicità delle relazioni, ci costruiamo i nostri margini di sicurezza (e anche di protezione) estetica. Vogliamo già dare al mondo qualche segnale per inquadrarci, per non navigare a vista, senza riferimenti. In fondo siamo espressione profonda di quest'epoca di storytelling totale, in cui il nostro essere si articola soprattutto in quanto riusciamo a raccontare chi siamo. È d'altronde qualcosa che ci veniva spontaneo anche quando i social erano ancora un'ipotesi lontana: ricordate i bracciali di silicone dei primissimi anni Duemila (precursori in qualche modo dei friendship bracelets di Taylor Swift)? Ci permettevano di dire se sostenevano una certa causa, se eravamo fan di una certa band, se avevamo comprato un certo brand. A volte basta un occhiolino per attirare l'attenzione di un certo spasimante. In altre, invece, un anello di plastica può rompere il ghiaccio. Il resto, comunque, lo dovrete fare voi.

Matthew McConaughey nel 2006 indossava il braccialetto giallo Livestrong, legato al ciclista Louis ArmstrongJean Baptiste Lacroix/Getty Image

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